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Il regno romuleo nei Fasti di Ovidio. L'eredità di una tradizione scomoda

Generazione e abbandono di Romolo e Remo

La generazione dei due gemelli è una questione fondamentale: tanto si carica di nuovi significati quanto si cerca di eliminarne gli aspetti più criticabili. In effetti diverse erano le problematiche nelle vicende relative alla generazione, alla nascita e all’abbandono dei gemelli. Potremmo considerare questa problematicità sufficiente per una soppressione di tale mito, che comunque viene recuperato, non solo da Ovidio nei Fasti, ma anche dallo stesso autore nelle Metamorfosi o da altri autori augustei, come Livio nell’Ab urbe condita. Apparentemente risulta molto strano l’interesse per le vicende di Marte e Rea Silvia in un testo come quello ovidiano, che avrebbe dovuto evitare ogni elemento sconveniente per dedicarsi alla pura esaltazione di Roma e, naturalmente, della gens Iulia.
Come osserva Heinze59, il libro III60 dei Fasti comincia proprio con un riferimento a Mars, da cui deriva il nome del mese dato da Romolo, primo ordinatore del calendario romano, in onore del padre divino. Anche il primo verso comincia proprio con l’epiteto dello stesso dio, bellice61. Tali riferimenti naturalmente offrono la possibilità di narrare la generazione di Romolo e Remo.
Messo da parte il racconto ovidiano, la testimonianza più dettagliata sulla generazione dei gemelli ci giunge da Dionigi di Alicarnasso62: Ilia, chiamata in parte della tradizione Rea Silvia, nel sacro boschetto di Ares viene violentata dal dio Marte, apparso in una bellissima forma. Rivelandosi come divinità, cerca di consolare la ragazza e le preannuncia che dalla loro unione sarebbero nati due gemelli destinati a superare tutti gli uomini in forza e gloria militari. Dopo ciò viene circondato da una nuvola e sale in cielo. Una storia del genere era certamente molto difficile da accogliere e da inserire nell’apparato propagandistico augusteo, tanto che molti cambiamenti e novità vengono introdotti nella versione raccontata da Ovidio.

Una novità interessante è il sonno della ragazza osservato dal dio, un tratto che non sembrerebbe esser presente in altre fonti se non negli Annales di Ennio.

Blanda quies furtim victis obrepsit ocellis, et cadit a mento languida facta manus.
Mars videt hanc visamque cupit potiturque cupita
63.

Altro aspetto nuovo è relativo allo svolgersi dell’azione di Marte, che sembra non aver bisogno di violenza: la divinità si avvicina alla ragazza, la vede, la desidera e di nascosto si unisce a lei: et sua divina furta fefellit ope64. Quando la ragazza si sveglia non ricorda niente e solo il ricordo del sogno profetico le permette di avere qualche informazione65. Nel sogno le è caduta la fascia di lana, simbolo della perdita della verginità, e ne sono nate due palme, di cui una arriva a ricoprire il mondo, chiaro simbolo dei gemelli; le due palme sono poi in effetti minacciate da Amulio e difese dal picchio e dalla lupa, animali sacri a Marte. Anche il sogno della ragazza è certamente un’importante introduzione ovidiana rispetto alla trattazione del mito di Marte e Rea Silvia, seppur esista il precedente di Ennio66 e quindi non sia una completa novità. Già nel testo enniano Rea Silvia sogna di esser rapita da un uomo, che la porta in luoghi sconosciuti. La novità di Ovidio sta però soprattutto nel modo in cui la ragazza si relaziona all’evento. L’episodio non è costruito in modo tale da suscitare pietà o da mostrare Rea Silvia completamente sottomessa al volere divino, come avviene piuttosto nel passo di Ennio, che fa intervenire il padre Enea per spiegarle che dovrà ancora soffrire prima che giunga la fortuna. Il fine di Ovidio, piuttosto che ottenere una scena patetica, è mostrare e celebrare l’origine di Romolo.
Il racconto dell’unione tra il dio e Rea Silvia è funzionale ad invocare il sostegno di Marte stesso, un Marte pacificato però, che abbia messo da parte lo scudo e la lancia. Certamente un racconto del genere offre spazio ad una narrazione dal carattere celebrativo e nazionalistico ed è inevitabile la ripresa del modello enniano, che contribuisce a dare all’episodio una patina epica, anche se, in effetti, il dio Marte rappresentato non è quello proprio della tradizione epica. Il passo è dunque molto interessante: uno stupro in piena regola in un contesto del tutto antiepico, ma narrato con una patina epica di matrice enniana.
La collocazione dell’episodio non doveva essere affatto una sorpresa per i lettori del tempo. Naturalmente la figura di Marte era strettamente legata alla dea Venere e, come il primo è padre di Romolo, così la seconda è progenitrice della gens Iulia. Non a caso il libro III dedicato a Marte si apre con un diretto riferimento al dio bellice67, il IV dedicato a Venere invece con un diretto riferimento alla dea alma mater amorum68. Come ricorda Barchiesi69, proprio nel foro di Augusto si poteva trovare una statua di Romolo trionfante con un’iscrizione70 che celebrava la prima grande vittoria della città, collocata appunto a marzo, sui Ceninensi. Per quanto tale legame sia scomodo, giacché qui associato ad una vicenda di stupro, merita di esser ricordato, addirittura in una delle opere architettoniche e artistiche dal maggior valore propagandistico, il foro di Augusto.
Di grande interesse potrebbe essere anche un confronto con un altro grande modello, da cui Ovidio forse non vuole, evidentemente non può prescindere: Virgilio. Nell’Eneide si trovano solo degli accenni alle vicende relative alla generazione dei gemelli, che Virgilio evita di raccontare nei dettagli proprio in virtù del fatto che poteva risultare un racconto non consono alla celebrazione di Roma e delle sue origini. Nella profezia di Giove Ilia è semplicemente Marte gravis71. Qualche libro dopo viene descritta come mixta deo mulier72, donna unita ad un dio. Il medesimo silenzio adoperato da Virgilio ricorre anche nelle Metamorfosi di Ovidio. Livio forse, con un approccio che potremmo definire razionalistico, supera il silenzio, mettendo addirittura in dubbio la paternità di Marte:

[…]seu ita rata, seu quia deus auctor culpae honestior erat, Martae incertae stirpis patrem nuncupat73.

Il racconto ovidiano continua, riportando anche le vicende successive: la nascita dei gemelli, mentre la statua della dea Vesta si copre gli occhi, la scoperta e la rabbia di Amulio, l’ordine di abbandonare i bambini nel fiume Tevere. Ovidio tratta in maniera molto sommaria queste vicende nel libro III, poiché in realtà erano già state trattate più ampiamente pochi versi prima, alla fine del libro II. La tradizione dell’abbandono e del salvataggio da parte della lupa era stata fissata da Fabio Pittore74 e così era stata ripresa da molti autori, come Dionigi75, Plutarco76, Livio77, seppur con piccole differenze. Anche in questo caso però viene introdotta una interessante novità da Ovidio, la descrizione patetica dei ministri di Amulio, che, riluttanti, portano a compimento gli iussa lacrimosa78 con gli occhi bagnati dalle lacrime. Nuovamente Ovidio cerca di trattare come materia epica una scena di carattere antiepico, di contenuto elegiaco.
In entrambi i libri si passa poi a narrare l’incontro con la lupa; nel libro III viene introdotto anche il picchio79. In realtà questa è l’unica scena relativa a queste vicende che viene raccontata per sommi capi. Ovidio stesso dice che non vuole tralasciare tutto ciò, soprattutto l’intervento di Faustolo e di Larenzia, che però doveva esser raccontato nel dettaglio successivamente: vester honos veniet, cum Larentalia dicam80. Il loro ricordo sarebbe stato inserito quindi nella trattazione dei Larentalia, una festività di dicembre che quindi avrebbe dovuto trovarsi nei libri finali. Non possiamo saperlo con certezza, ma probabilmente Ovidio avrebbe voluto descrivere qui la povera capanna in cui furono accolti Romolo e Remo.
Il racconto della generazione e dell’abbandono dei gemelli è dunque scomodo per molti elementi, ma non si può evitare di recuperarlo, soprattutto in un testo come i Fasti. L’impegno di Ovidio è perciò rivolto al tentativo di edulcorarlo: Marte viene reso meno violento rispetto alla tradizione e Rea Silvia meno succube, si punta l’attenzione sugli aspetti più crudi e patetici, si sottolineano le umili origini di Roma, naturalmente per celebrarne lo splendore e lo straordinario potere che ne sarebbero poi nati.



59 Si veda HEINZE 2010, p. XIX-XX
60 OV. fast. 3, 2
61 Si veda URSINI 2008, p.LXXV
62 DION. HAL. Ant. Rom. 1, 77
63 OV. fast. 3, 19-21
64 OV. fast. 3, 22
65 Per ipotesi su una correlazione tra l’assenza di ricordo e il sua divina furta fefellit ope si veda URSINI 2008, p. CVII
66 ENN. Ann. 35-36 V
67 OV. fast. 3, 1
68 OV. fast. 4, 1
69 Si veda BARCHIESI 1994, p. LIV-LV
70 CIL X 809
71 VERG. Aen. 1, 274
72 VERG. Aen. 7, 661
73 LIV. 1, 4
74 Si veda HEINZE 2010, p. XX
75 DION. HAL. Ant. Rom. 68-70
76 PLUT. Rom. 3
77 LIV. 1, 4
78 OV. fast. 2, 387
79 OV. fast. 3, 54
80 OV. fast. 3, 57

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Il regno romuleo nei Fasti di Ovidio. L'eredità di una tradizione scomoda

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Informazioni tesi

  Autore: Matteo Cappelli
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2019-20
  Università: Università degli Studi di Firenze
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Storia romana e letteratura latina
  Relatore: Barbara  Del Giovane
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 126

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