Appetito cannibale: enigmi del gusto e ritualità impazzita
Esocannibalismo
Tale termine definisce quella pratica cannibalica che prevede il consumo di carne umana proveniente da membri al di fuori della comunità tribale che lo esercita. Questa forma di cannibalismo è solitamente associata alla credenza dei membri della tribù praticante di poter acquisire, tramite il consumo della carne della vittima, speciali poteri tribali, oltre all’anima e alle qualità del nemico stesso, anche se talvolta tale costume aveva lo scopo di scoraggiare possibili invasioni nemiche.
Questa usanza definisce la forma più comune e diffusa di cannibalismo e, ovviamente, la carne destinata al banchetto antropofago veniva ottenuta con la forza, trattandosi specialmente di cadaveri dei nemici caduti sul campo di battaglia, a seguito in altre parole di un qualche conflitto armato. Qualora ci fosse stata la volontà di praticare il cannibalismo su corpi ottenuti con la forza, tali corpi dovevano categoricamente provenire da individui socialmente distanti, cioè da stranieri o da nemici dichiarati. Non era consentito in alcun modo il consumo, con queste modalità, della carne di un appartenente al gruppo, difatti, sanzioni drastiche vietavano ai membri adulti dei villaggi di uccidersi e mangiarsi reciprocamente, l’uccisione violenta di un componente della tribù ad opera di un membro del villaggio stesso era considerata tabù e moralmente inaccettabile.
Dobbiamo una delle prime e più particolareggiate testimonianze oculari del cannibalismo di guerra ad Hans Staden, un naufrago tedesco fatto prigioniero dai Tupinamba, una tribù di Indios brasiliani. Nel 1554 Staden trascorse ben nove mesi in un villaggio tupinamba nei quali ebbe appunto occasione di veder con i propri occhi i prigionieri venir cucinati e poi mangiati:
“ Non appena portano a casa un prigioniero […] lo adornano con delle piume grigie, gli rasano le sopracciglia e prendono a danzargli intorno, dopo averlo accuratamente legato in modo che non possa fuggire. Gli assegnano quindi una donna che si prende cura di lui. […] Nutrono il prigioniero molto bene e lo intrattengono mentre preparano le scodelle nelle quali versano le loro bevande. Quando tutto è pronto, stabiliscono il giorno della sua morte e invitano a presenziarvi i selvaggi dei villaggi vicini. Una volta riuniti gli ospiti, il capo villaggio porge loro il benvenuto e esprime il desiderio che aiutino lui e la sua gente a mangiare il nemico […] dopo di che una donna reca la clava […] lanciando urli di gioia e correndo su e giù davanti al prigioniero in modo che questi possa ben vederla. […] Quindi il boia impugna la clava, lo colpisce da dietro e lo accoppa. Le donne s’impadroniscono del corpo all’istante e lo portano verso il fuoco dove lo scuoiano, scoprendo la carne viva e chiudendogli bene le natiche con un pezzo di legno in modo che nulla vada perduto.”
Questa testimonianza diretta diede un enorme contributo allo studio dei rituali utilizzati dai Tupinamba durante il banchetto antropofago. Lo smembramento del corpo dei prigionieri destinati al banchetto antropofago avveniva secondo tre grandi divisioni che comprendevano: le parti periferiche (arti e testa), quelle centrali (tronco) e quelle interne (cuore ed intestini). Le prime venivano separate dal resto della persona per mezzo di una lama di pietra, più volte descritta da Staden nella sua opera, successivamente il tronco della vittima veniva tagliato a metà, lungo la colonna vertebrale, per poi estrarre le parti interne. Seguivano due differenti modi di cottura della carne, le parti centrali venivano arrostite dagli uomini e offerte per primi agli ospiti o ai componenti più socialmente elevati del villaggio, mentre le parti interne venivano bollite, insieme alla testa, dalle donne che ne bevevano poi il brodo ottenuto (chiamato Mingao) insieme ai bambini. Gli arti, secondo le testimonianze di cui disponiamo, venivano arrostiti e consumati per intero, salvo una delle mani della vittima, generalmente la sinistra perché era quella con la quale i guerrieri erano soliti impugnare l’arco, che veniva riservata sempre ad un bambino di sesso maschile di modo che acquisisse, con la sua ingestione, la forza e il coraggio del nemico ucciso.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Appetito cannibale: enigmi del gusto e ritualità impazzita
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Informazioni tesi
Autore: | Sara Sirri |
Tipo: | Diploma di Laurea |
Anno: | 2009-10 |
Università: | Università degli Studi di Perugia |
Facoltà: | Scienze della Formazione |
Corso: | Scienze per l'investigazione e la sicurezza |
Relatore: | Alvaro Paolacci |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 67 |
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