Essere padri. Affettività e genitorialità in carcere
Esercitare la paternità
Per sentirsi padri in carcere, per poter conservare il legame con i figli, è necessario poter esercitare la paternità anche all'esterno dell'Istituto Penitenziario, attraverso una serie di condizioni materiali e di gesti visibili che rendono concreto e riconoscibile il ruolo paterno.
Il rapporto padre-figlio deve essere vissuto, condiviso, accettato anche nel rifiuto o nella sospensione.
I figli e il contesto familiare devono rappresentare un'occasione di crescita, motivo di soddisfazione e di realizzazione affettività per i papà detenuti.
E. Goffman scrive "le istituzioni totali sono incompatibili con un elemento fondamentale della nostra società, la famiglia" (Goffman,1968, p.2), ma poter vivere la paternità non è una concessione bensì un diritto. Questo può avvenire attraverso la possibilità di incontrarsi e di ricominciare a conoscersi.
La distanza forzata ed il silenzio possono avere evidenti ripercussioni sulle possibilità di recupero del detenuto, ma possono anche influire negativamente sulla vita dei figli, rischiando di sviluppare un comportamento deviante e ricalcando così le orme dei padri.
All'interno delle istituzioni carcerarie si perde la dimensione sentimentale, si allentano i legami con tutta la rete parentale a partire dai figli, si annullano le relazioni amicali, che vengono poi sostituite forzatamente dalla frequentazione dei compagni di detenzione.
I bambini purtroppo sono coloro che più subiscono le restrizioni imposte al genitore. Queste condizioni di oppressione provocano inquietudine e disagio nei figli, tanto da spingerli ad opporsi all'incontro con il padre o ad affrontarlo con ostilità preventiva.
La perdita di vivacità degli scambi che le alterazioni diversificate consentono può provocare come conseguenza a reazioni di sfida, ribellione, provocazioni e accanimenti da parte dei detenuti.
Un papà detenuto riguardo alle visite dei suoi figli: "Non sono venuti e non penso che vengano, ma neanche a me farebbe piacere che venissero qua. […] Qua è una brutta situazione, non mi piace farli venire in carcere."
Tra le mura carcerarie i detenuti vivono in una condizione incerta e indefinita circa il proprio futuro, senza chiarezza o risposte precise in merito al tempo a venire, essi denunciano di patire attese infinite per avere soddisfazione anche delle più piccole cose, come le risposte alle domandine, e di perdere così la possibilità di progettazione di sé.
I detenuti restano così come in un limbo.
In questa condizione di “immobilità” vengono a trovarsi anche i rapporti con i figli, a cui viene sottratta la possibilità di una pianificazione, della previsione di un incontro, o di un eventuale ricongiungimento.
Quest'ombra calata sul futuro della sfera degli affetti suscita sentimenti ambivalenti: paura, attrazione, repulsione, desiderio, preoccupazioni, ma anche disorientamento per una situazione avvertita come sconosciuta.
Goffman sostiene che due sono le minacce che adombrano il ritorno alla normalità del detenuto: la “disculturazione” e la “stigmatizzazione” (Goffman, 2001, p.100) che potremmo ricondurre alla mancanza di conoscenza necessarie per riprendere la relazione padre-figlio e alla vergogna, sentimento che rischia di intaccare il rapporto, provocando distanza ed estraneità.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Essere padri. Affettività e genitorialità in carcere
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Informazioni tesi
Autore: | Rossella Galbignani |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2016-17 |
Università: | Università degli Studi di Parma |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Servizio Sociale |
Relatore: | Chiara Scivoletto |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 60 |
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