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Nassiriya, novembre 2003: le strategie di comunicazione del ''Corriere della Sera'' e de ''La Repubblica''

Elaborazione del lutto della folla: le “maratone del pianto”

Un indizio importante sulla contraddittorietà della reazione della folla davanti a questo lutto è il rapporto con la morte della società italiana di oggi. Chiunque può verificare come la morte sia, ai giorni nostri, un tabù, nonostante la sovraesposizione in televisione. Pochi lasciano i propri cari morire in casa, non si sa come gestire il lutto. Infatti se anticamente la morte faceva parte del vissuto, già nel 1946 H. Thielicke scriveva: “Nell’esistenza secolare la morte non ha praticamente più alcun ruolo. La malattia, quale fenomeno di caducità, è relegata prevalentemente alle cliniche… Simbolico, per l’emarginazione della morte, è il fatto che nelle nostre città, e quindi nell’effettiva dimensione pubblica, non passano più cortei funebri che ormai si svolgono solo nei ghetti dei cimiteri”.
Di conseguenza non si parla di morte se non come finzione cinematografica, ma gli anziani, per esempio, non muoiono più in casa, e l’uomo contemporaneo rimuove in continuazione la realtà della morte:
“Oggi non avendo risposte da dare si è scelto il silenzio. Si cerca in tutti i modi che il contatto con la morte diventi minimo, indiretto e impersonale. Si pensa di eliminare la morte eliminandone il pensiero, ci si ingegna in tutti i modi di far scomparire la morte dalla società, rendendola invisibile”.
Per questo la reazione emotiva di massa che ha spinto così tante persone a manifestare il proprio lutto non è “normale” nella nostra società, dove si tende, paradossalmente, a negare il concetto di morte. Forse è proprio questo il motivo di una tale “ondata emotiva”: cercare di elaborare un lutto attraverso l’esasperazione del cordoglio, così come il continuo spettacolo della morte in tv non fa superare il tabù della morte, ma la rimuove.
Ad ogni modo, è vero che “non solo la morte di un familiare, ma anche quella di ogni essere umano che muore è parte di noi stessi e ci interpella, come dice il brano di una famosa canzone di Guccini: «son morto che ero bambino, son morto con altri cento…»”. Tuttavia, è strano che la stessa reazione non si verifichi quando muore, ad esempio, un carabiniere in patria. Questo fa capire come il lutto per le diciannove vittime rivesta significati altri che hanno portato la massa a considerare gli eroi di Nassiriya diversi dagli altri morti. Ci si potrebbe domandare come mai un popolo abbia avuto una reazione di tale intensità, mentre tende ad ignorare altri lutti.
Una delle ipotesi è quella del “senso di colpa” che avrebbe colpito gli italiani, inconsciamente consapevoli di aver mandato in guerra dei connazionali, come gli stessi giornalisti hanno più volte affermato. Il dubbio è sorto anche a Vittorio Zucconi che, su “la Repubblica”, scrive:
“Quando muore qualcuno che ci è caro, il primo pensiero che affiora dal dolore sono le cose non fatte insieme, i discorsi che non ci siamo scambiati, il tempo che non abbiamo dedicato a loro e che non abbiamo più. I fiori, le lacrime, le offerte, le preghiere, sono tanto spesso soltanto il tributo tardivo che paghiamo a noi stessi e al nostro rimorso e in questa immensa, sincera manifestazione popolare di affetto per gli uomini (possiamo evitare almeno di chiamarli "ragazzi"?) uccisi in Iraq si vede benissimo, sotto le montagne di fiori deposte sui gradini del Vittoriano, il senso di rimorso che invece trasuda dalla commozione ufficiale”.
Questa dichiarazione, una delle poche analisi lucide del novembre 2003, stride con tutte le tesi ufficiali viste finora, ma è la prova di come un certo senso di colpa fosse effettivamente presente nel “popolo del dolore”. Essendo appunto un articolo che si discosta dai toni lirico-emotivi di quel periodo, Zucconi si rifiuta di chiamare le vittime “ragazzi”: altra conferma della consapevolezza di alcuni giornalisti da un lato, ma anche della scorrettezza di un simile appellativo.
Zucconi prosegue con un’altra ipotesi che può spiegare una reazione così eclatante:
“Chi ha visto le maratone di pianti che le televisioni italiane, capaci di divenire intollerabili quando esplode il cordoglio, hanno riversato e soprattutto spremuto dagli occhi dei parenti, non può fare a meno di confrontarle con la severità, quasi la freddezza puritana, con la quale l'America della politica e dei media accoglie, ormai da otto mesi, le notizie dei propri, quotidiani sacrifici in Iraq. Sembra quasi che dall'Italia delle televisioni, l'unica Italia "reale" ormai, emerga non la paura, ma una inconfessabile voglia inconscia di un piccolo Ground Zero o di un piccolo Vietnam, il desiderio di avere anche noi, la piccola Italia, qualcosa che ci accomuni, almeno in una tragedia, alla irraggiungibile America. Soltanto con questi scherzi dell'inconscio si può spiegare la scelta che la direzione del TG1 ha fatto per accompagnare, alla fine delle sue edizioni principali della scorsa settimana, la sequenza delle foto dei caduti a Nassiriya (altro, lugubre classico del Vietnam televisivo americano). In tutto l'immenso repertorio funebre disponibile, qualcuno ha scelto proprio l'"Adagio per Archi" del compositore americano Samuel Barber, lo straziante pezzo che Oliver Stone scelse per il suo "Platoon", il film più feroce sul massacro inutile in Indocina”.
Interessante la definizione di “maratona di pianti” spremute dai parenti, ma anche dai politici.
Zucconi ipotizza “una inconfessabile voglia di Ground Zero”, e questo giustificherebbe i ripetuti richiami di giornalisti e politici al “Ground Zero italiano”, il “nostro Ground Zero”, che, altrimenti, risultano confronti fuori luogo. Forse è l’unica spiegazione possibile a questi continui parallelismi inopportuni, che avrebbero il senso di considerare gli italiani diversi dagli americani, ma “grandi” come loro. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Nassiriya, novembre 2003: le strategie di comunicazione del ''Corriere della Sera'' e de ''La Repubblica''

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Informazioni tesi

  Autore: Oriana Fasoli
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2004-05
  Università: Università degli Studi di Trieste
  Facoltà: Scienze della Formazione
  Corso: Scienze della Comunicazione
  Relatore: Livio Vanzetto
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 442

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