Partecipazione, cittadinanza attiva e nuovi modelli di governance. Uno studio di caso nell’area genovese
Deliberazione, votazione e negoziazione. Tre diversi metodi di decision-making
La letteratura sociologica sui conflitti può essere suddivisa a giudizio di Vitale [2005b, 2-3] in due grandi famiglie, a seconda che ci si interroghi principalmente sulle cause del conflitto o al contrario si indaghi la dinamica dello stesso, in termini relazionali e processuali. Nel primo approccio gli attori disputano a partire da interessi contrastanti fondati su posizioni inconciliabili nei valori, e nel corso del conflitto non succede nulla di diverso da quanto era previsto dovesse succedere. Si nega così il ruolo costituente e qualsiasi autonoma funzione propulsiva alle dinamiche di conflitto in termini di cambiamento sociale [Dal Lago 2005, 13]. Ciò che conta sembra essere solo ciò che viene prima, e questo è declinato
«appiccicando agli attori sociali un’identità culturale, o stabilendo per gli agenti una posizione nello spazio sociale: tutto dipenderebbe dalle relazioni che precedono il conflitto e nulla di imprevisto potrebbe accadere in esso. In questo senso, questa letteratura sospende le proprietà di incertezza dell’azione nella dinamica del conflitto e considera che tanto gli attori quanto i loro motivi siano dati».
Nel secondo approccio, il conflitto è concettualizzato invece come un processo generativo, e viene valorizzata la dimensione processuale seguendo la lezione di Simmel, l’autore che massimamente ha sottolineato la necessità, per comprendere gli esiti di un conflitto, di studiarne la dinamica, e non le condizioni da cui sorge.
È nell’opposizione fra queste due visioni che si situa l’irriducibilità della deliberazione non solo alla modalità del voto (tipica sia della democrazia rappresentativa che si propone di superare sia della democrazia diretta con la quale ha solo pochi punti di convergenza), ma anche a quella della negoziazione, con la quale viene spesso confusa. In realtà sussiste una forte discontinuità con le forme negoziali tra attori già organizzati. «Sappiamo tutti quanto sia diffusa, nel discorso pubblico, la confusione tra i due termini di ‘partecipazione’ e ‘concertazione’» afferma Allegretti [2005, 1], «e quanto rare siano le esperienze che ne leggono la complementarietà piuttosto che la reciproca competizione».
Le tre tipologie di decision-making posseggono varie similarità e differenze fra loro: la concertazione presuppone una scelta presa all’unanimità, e in essa ogni gruppo organizzato può detenere qualcosa che si avvicina a un potere di veto. Questo da un parte è incompatibile con la regola della maggioranza propria della votazione, e dall’altra non soddisfa i requisiti previsti per la democrazia deliberativa quali endogenità delle preferenze e motivazione razionale del consenso [Curini 2004]. Del resto dai processi deliberativi reali possono invece non essere esclusi, almeno nelle fasi conclusive dei processi e di fronte ad una stasi, meccanismi di votazione che restano invece inutilizzabili dalle relazioni pluralistiche della negoziazione [Cella 2003a, 3]. Mentre nella deliberazione i partecipanti si confrontano sulla base di argomenti imparziali relativi al bene comune, e tutti coloro siano toccati dalla decisione hanno accesso al processo in condizioni di parità [Elster 1998b, 8], nella votazione preferenze date si contano allo scopo di stabilire l’opzione vincente, e nella negoziazione i partecipanti si dividono una posta in gioco sulla base di posizioni precostituite.
Votare e negoziare sono tradizionalmente considerati processi antitetici che danno luogo a una serie di opposizioni del tipo regola dell’unanimità contro regola della maggioranza, accordo tra le parti contro distinzione fra vincenti e perdenti, e così via. Tuttavia, queste modalità possiedono un tratto comune che le distingue dalla deliberazione: in entrambe, infatti, le preferenze degli attori sono esogene rispetto al processo. I soggetti si presentano sulla scena con le loro opzioni precostituite, che nel caso della votazione vengono sommate, e nel caso del negoziato vengono accomodate in una soluzione comune in cui ognuno ottiene qualcosa. Nel voto, secondo Schumpeter [1942], non esiste un unico e determinato bene pubblico su cui tutti possano accordarsi: ogni individuo ha preferenze già definite, e il compito della votazione è aggregarle.
L’elettore e il negoziatore non sono tenuti a giustificare le proprie preferenze, si limitano a manifestarle. La deliberazione viceversa non ha a che fare con l’aggregazione, ma con la trasformazione delle preferenze, che vanno quindi esplicitate attraverso l’argomentazione, la persuasione e il confronto [Elster 1998c]. Nonostante Bowles [1998; 2004] dimostri come l’assunto delle preferenze esogenamente date sia inadatto a descrivere qualsivoglia situazione di scelta (preferenze adattive), ciò che distingue la deliberazione sarebbe quindi proprio il fatto che, attraverso di essa, le preferenze degli attori si trasformano. Nel corso dell’argomentazione i partecipanti apprendono gli uni dagli altri, correggono i propri punti di vista, ridefiniscono i problemi e inventano nuove opzioni. La possibilità di risolvere il conflitto dipende dal fatto che i soggetti sono in grado di fare appello a valori o interessi comuni, il che probabilmente, ma non necessariamente, implica qualche forma di identità condivisa. Il dialogo è dunque un esercizio riflessivo attraverso cui i partecipanti mettono reciprocamente in discussione i propri schemi cognitivi e i presupposti impliciti su cui si basano. [...]
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Partecipazione, cittadinanza attiva e nuovi modelli di governance. Uno studio di caso nell’area genovese
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Informazioni tesi
Autore: | Valerio Lastrico |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2006-07 |
Università: | Università degli Studi di Milano |
Facoltà: | Scienze Politiche |
Corso: | Sociologia |
Relatore: | Maurizio Ambrosini |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 263 |
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