L'elefante di pietra. Iconografia, iconologia e simbologia della Torre dell'Elefante di Cagliari
Dalla torre sull'elefante all'elefante sulla torre: iconografia, iconologia e interpretazioni simboliche
Dopo i vari temi sin ora analizzati, tutti fortemente correlati all’oggetto di questo studio, indispensabili e inevitabilmente corposi per la miglior comprensione dell’iconografia zoomorfa relativa alla torre dell’Elefante di Cagliari, il presente capitolo rappresenta il vero nocciolo dell’intero approfondimento, su cui convergeranno tutte le tematiche esaminate per cercare di comprendere le modalità, le motivazioni e i dettami che concorsero alle scelte artistiche e, soprattutto, ideologiche e simboliche che identificarono intrinsecamente ed estrinsecamente il baluardo cagliaritano.
La difficoltà oggettiva che si presenta nell’indagine inerente alla specifica simbologia dell’elefante della torre omonima di Cagliari è dovuta al fatto che, anche dai vari approfondimenti operati, non si sono riscontrati esempi formali uguali o che potessero direttamente compararsi con essa. A ragione di ciò, in precedenza si è cercato di vagliare tutto l’insieme di “segni” appartenenti al passato che concordassero anche minimamente con l’oggetto di questo studio, per individuare, attraverso criteri di verosimiglianza, i nessi significativi idonei a stabilire una trama convergente di dati sulla quale fondare delle ipotesi che, confrontate tra loro, potessero indicare la maggiore probabilità di lettura veritiera. Le ipotesi che di seguito saranno esposte si basano su questo metodo indiziario e hanno proprio il fine suddetto.
Addentrandoci, perciò, in siffatta indagine, innanzitutto appare utile prendere in considerazione qualsiasi elemento antecedente alla torre in esame e strettamente pertinente ad essa che possa aver influito sulla scelta del nome conferitole; è il caso della strada o “ruga” adiacente alla torre in esame e ad essa preesistente. Come già esposto, si pensa che il nome della porta e della torre dell’Elefante possano derivare dal nome della via omonima detta ruga leofantis in cui risiedevano, come nelle altre rughe del nucleo coloniale, i cittadini pisani di Castel di Castro. Confrontando tale termine con il nome delle altre rughe dell’insediamento, dette ruga mercatorum, ruga marinariorium, ruga fabrorum, ruga communale, appare singolare che solo quella in esame indicava un animale.
Quindi possono essere prese in considerazione diverse ipotesi che potrebbero spiegare l’origine del termine in esame: o esso derivava dall’appellativo di un ipotetico residente (o gruppo di residenti aggregati nelle societates rugarum aventi questa denominazione come quelle dei mercanti Gambacorta e dei Bonconti con le omonime rughe) che possedeva questo nome, oppure, come per le altre vie, esso stava ad indicare, in modo simbolico, il tipo di attività, o di merce o di manufatto trattati dagli operatori risiedenti in quella via. La prima ipotesi potrebbe avere qualche fondamento se si esamina l’onomastica altomedioevale latino-cristiana, la quale, alla predilezione di nomi degli apostoli e dei martiri, di aggettivi che indicano l’attaccamento a Dio (Adeodatus, Domenicus) oppure di virtù preminenti del vero cristiano (Modestus, Bonus, Mansuetus), di nomi etnici e di tradizione greca ed orientale, si affiancavano anche nomi propri di origine orientale come Leo, Leopardus, Tigris e, a sostegno della nostra tesi, Elephantus, i cui referenti non erano endemici nel mondo occidentale, ma è da ritenere verosimilmente che la loro diffusione sia principiata dalle antiche province cristiane dell’Africa. Ovviamente questi nomi evocavano forza, scaltrezza, coraggio, intelligenza, tutte peculiarità insite negli animali corrispondenti e che si volevano trasmettere alla persona a cui venivano imposti. In ogni caso, la possibilità che il nome di un operatore economico quale Elephantus o Leofantus o di un gruppo di operatori nominati in tal modo abbia potuto influenzare la denominazione di una strada appare però solo una vaga ipotesi in quanto le fonti del tempo relative a nomi simili di societates rugarum e/o di operatori relativamente potenti, attivi nella colonia pisana, tacciono del tutto. La seconda ipotesi potrebbe apparire più ammissibile, se si ipotizza l’appartenenza del termine ad una societas economica e se si considera l’estensione della fitta rete commerciale, soprattutto marittima, che i mercanti pisani intesserono lungo le coste del Mediterraneo e, in particolare, in quelle africane e mediorientali; le merci esotiche come spezie, perle, pietre preziose, gemme, corallo, oro e avorio, commerciate dai mercanti ipoteticamente residenti nella ruga leofantis, avrebbero, perciò, potuto originare il particolare appellativo della via in questione. In primis l’avorio delle lunghe zanne dell’elefante, da cui si ricavavano oggetti particolarmente preziosi riservati solo ai ceti elitari, importato dalle regioni africane ma anche proveniente dalle zone mediorientali in cui erano attivi i mercanti pisani.
Il forte legame con il mondo orientale e, soprattutto, arabo, come già approfonditamente visto nel capitolo 2.1, si esplica non solo sul versante economico e commerciale, ma oltremodo nel vivo interesse da parte di Pisa per la scienza, la tecnica, la letteratura, l’arte e la cultura musulmana, del resto fiorite straordinariamente dal XII secolo a Béjaïa, città sita nella costa magrebina con cui il Comune toscano ebbe profonde relazioni economico-culturali.
In questo fervente clima di reciproca conoscenza è da evidenziare un altro punto di contatto tra Pisa e il mondo arabo inerente all’elefante e alla natura eburnea delle sue zanne.
Come abbondantemente visto nel capitolo 3.1, gli arabi introdussero in Occidente il gioco degli scacchi e parrebbe improbabile che l’interscambio culturale instauratosi tra Pisa e il Magreb musulmano dalla fine del XII secolo alla prima metà del XIV non abbia incluso anche la conoscenza del famoso gioco di strategia. Come già esposto in precedenza, l’elefante era anticamente un pezzo degli scacchi e la stessa terminologia araba fīl, dal persiano pīl (elefante), fu oggetto del prestito italiano che lo tradusse in alfino (‘elefante degli scacchi’, detto anche alfido), poi sostituito dall’odierno alfiere ‘cavaliere’, pure di origine araba. Perciò il moderno alfiere degli scacchi era in origine un elefante, simbolo delle truppe montate sul suo dorso.
L’affinità degli scacchi con l’oggetto del presente studio appare ancor più valida se si tiene conto del fatto che il materiale con cui i pezzi del gioco venivano fabbricati era l’avorio, lo stesso delle zanne dell’elefante. Esistono esemplari d’osso, come i suddetti pezzi di Venafro, o in cristallo di rocca, come i pezzi di Ager, ma la maggior parte dei pezzi islamici sono d’intaglio eburneo.
Esaminando per un momento l’etimologia stessa del termine “elefante”, è sorprendente notare come esso indichi sia l’animale che la natura delle sue caratteristiche zanne. La massima parte delle denominazioni europee si fondano sul greco έλέφας –αντος ‘avorio’ e ‘elefante’. Si tratta per altro di esotismo che al pari del latino ebur ‘avorio’ richiama nella seconda parte l’egiziano āb(u), copto εβ(ο)υ ‘elefante’ e ‘avorio’ e il sanscrito ibha – ‘elefante’. La sillaba iniziale si ritrova in camitico, tramite l’egiziano, con l’articolo preposto p-, p – il, si avrebbe il persiano pīl e l’arabo fīl. Ed è ancora più sorprendente come nel gioco degli scacchi, il pezzo che contraddistingue l’elefante, essendo per la maggior parte dei casi realizzato in avorio, rifletta totalmente la dualità significante caratterizzata dall’etimologia del termine.
La quasi totalità delle riproduzioni pervenuteci dei pezzi degli scacchi arabi sono stilizzate; l’elefante-alfiere appare geometricamente caratterizzato dalla forma a tronco di cono e nelle due protuberanze aggettanti alla stessa altezza situate nella parte superiore del pezzo si è individuata la stilizzazione delle zanne dell’elefante [figg. 84, 88, 90].
Si hanno anche esempi eburnei raffigurati in modo decisamente più naturalistico, come l’elefante chiaramente individuabile e dimensionalmente proporzionato che tiene sul dorso una sorta di torretta occupata da militi provvisti di scudi e guidato dal cornac, conservato presso gli Staatlichen Museums für Islamische Kunst di Berlino e indicativamente datato all’VIII secolo, in cui anche i più piccoli dettagli, come le pieghe delle carni o i motivi decorativi della bardatura, delineano una tecnica d’intaglio accurata e realistica [figg. 94, 95], oppure il pezzo dalle linee più stilizzate ma decisamente riconducibili alle fattezze elefantine conservato al Museo Nazionale del Bargello di Firenze, presumibilmente databile al X secolo e proveniente dall’Iraq, alto 6,9 centimetri, il cui dorso è sprovvisto di cavaliere ma è cesellato in maniera eccellente con motivi decorativi islamici [fig. 93].
Ovviamente queste connessioni non spiegano il perché della scelta del nome che indica l’antica ruga leofantis. Supponendo che essa fosse la sede di operatori che preferibilmente commerciavano in zone del Mediterraneo in cui pervenivano merci esotiche, il silenzio delle fonti a riguardo tende a considerare quest’ipotesi solo come tale.
Esiste un altro versante che potrebbe far luce su questa scelta insolita: l’aspetto simbolico insito nell’animale in oggetto. Già nel capitolo 3.2 si è cercato di decifrare alcuni aspetti simbolici relativi all’elefante, ma prima di entrare totalmente in questo discorso appare interessante soffermarci su alcuni casi in cui l’animale in carne ed ossa, nella penisola italiana, poté essere ammirato come il simbolo del prestigio imperiale. Sia a Carlo Magno che a Federico II vennero dati in dono da dei principi musulmani degli elefanti il cui possesso era prerogativa dell’imperatore. Pisa stessa vide nell’801 lo sbarco degli ambasciatori musulmani che recavano in dono l’animale a Carlo, proveniente dall’India perché da quella regione si importavano i pachidermi addomesticati, e sempre Pisa, alleata imperiale, non fu indifferente all’esemplare sconfitta del Comune di Milano del 1237 inferta da Federico II il quale fece trascinare il carroccio, supremo simbolo dell’autorità cittadina, e tutti i trofei di guerra dal suo elefante sino a Cremona.
I Pisani, quindi, ebbero modo di osservare direttamente la possanza del pachiderma e non poterono che associarlo al prestigio imperiale. Del resto già nella magnificenza della Roma imperiale, a cui lo stesso Federico II si ispirò durante tutto il suo regno, l’elefante e la sua rappresentazione era connessa al simbolismo trionfale e alla figura dell’imperatore divinizzato, come già detto nel capitolo 3.2. La raffigurazione del sesterzio di Domiziano del I secolo d. C. in cui sono effigiate due quadrighe di elefanti poste a coronamento di un arco [fig. 104], interpretato come la Porta Trionfale da cui passava l’imperatore vittorioso, conferma la prestigiosa simbologia riferita all’elefante in periodo imperiale e sostanzialmente appare come un’antica consuetudine ripresa da Federico II in seno ad un revival classicista di celebrazione dei fasti imperiali.
È possibile quindi che la scelta del nome della ruga suddetta possa avere avuto qualche attinenza con lo status di qualche personaggio legato al prestigio imperiale o anche solo simbolicamente in relazione ad esso? Anche qui siamo nel campo del vago perché le fonti, a riguardo, tacciono totalmente. Ma considerando che la ruga leofantis è sempre stata adiacente alla porta omonima è sorprendente la corrispondenza, anche se in toni estremamente ridimensionati, con gli elefanti della Porta Trionfale di epoca imperiale. La Porta e l’elefante, considerati oggettivamente, paiono assimilabili perfettamente al nome della porta di Castel di Castro e alla decorazione zoomorfa della seriore torre dell’Elefante.
Si deve prendere in considerazione, inoltre, che la costruzione della torre pisana rientrava in una politica autocelebrativa, oltre che difensiva, del Comune toscano che, come visto precedentemente, faceva della tradizione classica l’elemento che poteva conferirle autorità e prestigio. Il raffronto, quindi, con l’antico esempio imperiale non è fuori luogo, anzi plausibile, e in linea con la politica autocelebrativa di matrice classica di Federico II, da cui Pisa non poteva che assorbirne il fascino ed adattarla ai suoi fini.
Ancor più se si considera il forte legame politico sempre intercorso tra l’Impero e Pisa. Come già detto nel capitolo 2.1, Federico II rinnovò i vecchi privilegi elargiti dagli Svevi suoi predecessori al Comune ghibellino e la denominazione di una porta di Castel di Castro di Cagliari chiamata dell’Elefante da parte di Pisa poteva indirettamente ritenersi come una sorta di atto di lealtà verso il potere imperiale; come nella pompa circensis di epoca romana gli elefanti trainavano dei carri sui quali venivano poste le effigi degli imperatori divinizzati, così simbolicamente Pisa omaggiava l’alleato imperiale dedicando una porta “trionfale” all’unico animale atto ad esaltarne il potere. Ovviamente celebrare in questo modo un alleato non significava ledere l’autonomia che il Comune toscano si era guadagnato in secoli di lotte, anzi, la vicinanza all’autorità del potere imperiale poteva essere letta come un’occasione per esaltare e rendere ancor più importante agli occhi dei nemici il prestigio pisano.
Anche questa lettura appare solo ipotizzabile in quanto niente di esplicito ci è pervenuto dalle fonti. Ma, in conformità a tutte queste ipotesi, è ammissibile supporre che la Porta dell’Elefante di Castel di Castro potrebbe aver avuto una tale denominazione perché era ritenuta una porta “speciale”, una via d’accesso preferenziale […]
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L'elefante di pietra. Iconografia, iconologia e simbologia della Torre dell'Elefante di Cagliari
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Informazioni tesi
Autore: | Cristiano Perra |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2009-10 |
Università: | Università degli Studi di Cagliari |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Lettere |
Relatore: | Roberto Coroneo |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 276 |
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