Cinema e videogame, una convergenza inaspettata
Contaminazioni del videogame nel cinema
L’aspetto più immediato e superficiale di contaminazione dei videogame nel cinema è la computer grafica, tra cui c’è da menzionare la grafica 3D, qualità che hanno permesso la realizzazione di effetti speciali per il mezzo cinematografico.
La cultura cinematografica, ha permesso in molti casi all’intrattenimento video-ludico di alterare il suo modo di fruizione, attraverso un invito all’immersione nel racconto senza che lo spettatore debba necessariamente trovare, o pretendere, un senso. Un cinema quindi sempre più ludico, che si esaurisce in sé stesso contemporaneamente alla fruizione e di cui rimane poca traccia, o perché si propone come mero gioco di incastri a livello narrativo, o perché richiama essenzialmente a livello emozionale lo spettatore attraverso sequenze di grande effetto ad lato contenuto di azione e di effetti speciali, proprio come in un gioco. Lo stesso Gianni Canova in un suo recente articolo, evidenzia la nascita e la stabilizzazione di un cinema, definito da lui, postmoderno, che risente delle innovazioni tecnologiche ed elettroniche e dell’esercizio acrobatico delle combinazioni narrative.
In Pulp Fiction (1994), Quentin Tarantino sperimenta un montaggio che si discosta notevolmente da quello tradizionale: Le varie sequenze risultano combinate insieme in modo apparentemente casuale in un taglia e cuci narrativo che lascia lo spettatore completamente frastornato e lo obbliga a dissezionare mentalmente il film per riuscire a trovare un senso compiuto agli eventi che gli vengono via via presentati. Le sequenze, nel loro succedersi non trovano un riscontro cronologico a livello temporale. Da questa prospettiva la struttura del film richiama fortemente quella dei videogiochi: ogni sequenza, al pari dei livelli di certi videogiochi d’azione, è caratterizzata da eventi che si succedono serratamente; inoltre, le molteplici sequenze, portanti ognuna un’unità informativa indipendente, rinviano alla non-linearità dei videogame, resa possibile dalla moltiplicazione degli ambienti, per giungere al solito obbiettivo, che possono essere percorsi dall’avatar manovrato dal giocatore e che sono autonomi l’uno dall’altro. L’azione contenuta in ciascuna sequenza si esaurisce in sé stessa e rappresenta una micronarrazione dotata di un senso e scandita da una coralità di personaggi, poco indagati psicologicamente, limitazione psicologica tipica della maggior parte dei videogiochi, che si muovono in una narrazione frammentata.
A questo livello possiamo ritrovare lo stesso desiderio che motiva un videogiocatore, cioè capire le modalità di gioco e non la psiche del personaggio, speculare nel film alla modalità di accadimento degli eventi, alle connessioni temporali e causali di enunciati narrativi combinati in modo disordinato richiedenti un processo di ridefinizione.
In Lola corre (1998) di Tom Tykwer invece, il mondo contemporaneo è dominato dalla logica dei bit. Gli individui messi in scena nel film, sono sbattuti in una società costruita per enfatizzare il loro attraversamento rapido e spettacolare in essa. Ecco perché in questo lungometraggio, più che caratterizzare introspettivamente i personaggi si tende a dotarli di abilità quali la destrezza o la prontezza di riflessi. Correre prima di pensare. Per passare ad un livello successivo, per ottenere un bonus. La finalità è nel trovare la combinazione adeguata per il buon funzionamento del sistema, altrimenti Lola può ricominciare e ritentare, con un’altra vita, per arrivare alla fine del percorso da lei battuto, il tutto come se ci passasse davanti ai nostri occhi un opera videoludica. Lola non ha un consistente spessore psicologico, somiglia più ad un personaggio simulato, con una funzione precisa, quella di arrivare in tempo, con delle location determinate, con dei punti di passaggio obbligati. Essa ha una missione ben precisa che viene dichiarata fin dall’inizio del film: deve trovare dei soldi e portarli al suo compagno, Moni, prima di mezzogiorno in un luogo prefissato. Se fallisce, Moni quasi certamente morirà. All’inizio del film sono le undici e quaranta, significa che in soli venti minuti Lola dovrà trovare il modo di procurarsi il malloppo e correre all’appuntamento, come in una sessione di gioco quando è necessario raccogliere determinati oggetti in un tempo prestabilito per proseguire nell’azione. Il film si snoda attraverso tre “partite” diverse con altrettanti finali ad effetto e non mancano certe ricorsività e passaggi obbligati che alludono al carattere ripetitivo dei videogiochi, quando si incontrano personaggi od oggetti piazzati sempre nello stesso punto, limitando in questo modo la non-linearità infinita del videogioco e le scelte del giocatore, e per cui anche la non-linearità della pellicola sopra citata. Nel film, il corpo dell’attore non serve più a rappresentare la problematicità dei meccanismi psicologici dell’agire umano in relazione al mondo esterno. Tale funzione è affidata alle cose disseminate nello spazio, investite di una funzione, come lo sono in un videogame, all’interno del quale ogni oggetto ha una funzione precisa e riveste una certa importanza nel risolvere una situazione, nel passare ad un livello superiore, nel collegare diverse ambientazioni.
Va segnalato anche Smoking – No Smoking (1993) di Alain Resnais, che scioglie la vicenda di una donna, la moglie del direttore della scuola del paese, la quale sceglie nel primo racconto di non fumare una sigaretta mentre nel secondo sì, in mezzo a dei personaggi e ad una cornice della storia rimanenti fissi, immutabili alla maniera di un videogame. Qui, il regista sceglie di erigere una scenografia palesemente artificiale creando una serie di quadretti in cui gli attori si muovono orizzontalmente, quasi come in un gioco da piattaforma. La limitata profondità di campo e la fissità degli ambienti concorrono a focalizzare l’attenzione sui caratteri dei protagonisti, che grazie a questa tecnica vengono sviscerati in tutte le loro sfaccettature.
Il film Hero (2002) di Zhang Yimou, è contraddistinto da un ambientazione storica appartenete al filone “cappa e spada” in cui si mettono in scena gli spettacolari combattimenti all’ultimo sangue dei samurai riconoscibilmente influenzati dalla cultura videoludica dei picchiaduro stile Mortal Kombat. Il film sviluppa il suo racconto attraverso la testimonianza di un samurai che viene invitato a corte al tempo in cui la Cina era divisa in sette regni che l’imperatore voleva riunire in uno solo. Il motivo della convocazione è la gratitudine dell’imperatore per essere stato liberato dal samurai dai suoi tre peggiori nemici e, fino a quel momento, invincibili guerrieri. Durante il colloquio tra i due emergono dei particolari inverosimili nel racconto del samurai e l’imperatore intuisce che probabilmente la verità è da un’altra parte. La narrazione si articola in sequenze che all’inizio lo spettatore percepisce come flashback, ma che man mano che il racconto procede, anche nella sua interazione con il punto di vista dell’imperatore, perdono di credibilità e as-sumono contorni sempre più sfocati.
Per risolvere l’arcano, in Hero abbiamo un finale che getta chiarezza sui fatti accaduti, ma solo dopo aver condotto lo spettatore nella rappresentazione di una serie di eventi continuamente messi in discussione dagli interlocutori del narratore che, a seconda del livello in cui si trova, corrispondono all’imperatore o agli altri protagonisti della vicenda i quali, nei presunti flashback del protagonista, diventano essi stessi interlocutori del samurai e destinatari di un suo racconto. In più subentrano altri testimoni ufficiali, che tradizionalmente rivestono il ruolo di detentori di una verità oggettiva in qualità di testimoni esterni, ma in questo caso proferiscono un’informazione che alla fine si scopre essere falsa nella sostanza. Tutto questo sproloquio per dire che, il film in questione possiede la struttura tipica del videogioco, in cui l’azione porta il protagonista ad avanzare nel corso del tempo per avvicinarsi sempre di più all’obbiettivo prefissato, attraverso mini-narrazioni scandite da scenari diversi, anche nella dominante cromatica. I personaggi del film esplorano, nel loro agire e nel loro essere diversamente raccontati, una varietà di comportamenti e profili diversi, allo stesso modo in cui il giocatore di un videogame seleziona vari profili del suo avatar. Da sottolineare, anche, la resa spettacolare del paesaggio e la monocromaticità delle scene che viene percepita dallo spettatore come segno di uno spazio al di fuori o ai confini del reale, rimandando a panorami virtuali della sfera videoludica.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Cinema e videogame, una convergenza inaspettata
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Informazioni tesi
Autore: | Gabriele Manca |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2012-13 |
Università: | Università degli Studi di Pisa |
Facoltà: | Civiltà e forme del sapere |
Corso: | Discipline dello spettacolo e della comunicazione |
Relatore: | Maurizio Ambrosini |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 109 |
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