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Il mediatore culturale nel contesto sociale e nel dibattito culturale italiano

Cittadinanza e diritti umani nell’era della globalizzazione

L’era della globalizzazione è l’era in cui le informazioni sono presenti in tempo reale al mondo intero: i mezzi di comunicazione hanno annullato le distanze. Oltre l’informazione anche il commercio è globalizzato, c’è il tentativo di rendere il mondo un mercato globale anche se è evidente che non tutti i paesi in tale mercato hanno identica forza e voce in capitolo. Per quello che invece riguarda lo spostamento delle persone si può parlare di globalizzazione a senso unico: gli occidentali possono spostarsi liberamente e concludere transazioni in quasi tutto il mondo, ma a chi proviene da paesi poveri o in via di sviluppo è negato l’accesso ai paesi ricchi. Più che di chiusura delle frontiere sarebbe esatto parlare di una selezione alle frontiere. Così la società che si definisce globalizzata mantiene vivo un forte limes: frontiere simboliche e reali difficili da oltrepassare.
La più solida delle frontiere è oggi sicuramente quella della cittadinanza. La cittadinanza crea, all’interno dello stesso territorio, due gruppi con uno status differente. All’interno degli stati occidentali che professano l’universalismo, l’egualitarismo e la libertà ci sono persone con più diritti degli altri. Ora, lo stridore di tutto questo è dato dal fatto che persone che vivono fianco a fianco, che lavorano insieme ed i cui figli frequentano le stesse scuole, non sono considerate uguali sul piano dei diritti; alcuni infatti sono cittadini ed altri no.
L’articolo 3 della Costituzione Italiana recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.» È evidente l’intento non solo ugualitario, ma universalistico di tale articolo (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche), ma il tutto si infrange nella parola cittadini. L’uguaglianza dunque c’è, ma non fra tutti perché tra i residenti alcuni sono cittadini ed altri non lo sono e non potranno diventarlo.
La cittadinanza appare oggi come un’anacronistica difesa di privilegi, nel nostro paese si acquisisce infatti secondo lo ius sanguinis, ossia attraverso la discendenza da altri cittadini italiani, e così si giunge all’assurdo di emigrati da più generazioni che conservano la cittadinanza italiana (e che per il nostro paese contribuiscono con il proprio ricordo e poco altro) e di figli di immigrati privi della cittadinanza. Si tratta di persone che vivono in Italia a volte fin dalla nascita, che hanno condiviso ogni grado di istruzione con gli altri bambini e ragazzi italiani, che pagano le tasse contribuendo in modo determinante al benessere dell’Italia, ma che sono privi della cittadinanza. Ciò significa che periodicamente devono rinnovare il permesso di soggiorno per poter rimanere nel paese, che non vedono tutelati i propri diritti come tutti coloro che sono cittadini e che, in particolare, sono esposti al rischio di espulsione in caso di perdita del lavoro o di infrazioni alle regole della nostra società. Difficile dire quale stato psicologico possa favorire questa prassi in coloro che, nati in Italia, non hanno un altro paese dove andare nel quale abbiano contatti o del quale conoscano la lingua. Più che di rimpatrio in molti casi si potrebbe parlare di deportazione.
Probabilmente una società-mondo con una mobilità umana elevata avrebbe bisogno di una cittadinanza più elastica, legata né al sangue, né al luogo di nascita (ius soli), quanto al luogo di effettiva residenza e lavoro. È infatti assurdo che chi con la propria fatica collabora al bene di un paese sia discriminato: non possa collaborare alla scelta dei governanti, non abbia strumenti di pressione per far emergere le proprie esigenze e far valere i propri diritti, anzi sia privo di molti diritti. In questo modo si verrebbe ad evitare la situazione di residenti in maniera continuativa che non sono cittadini, ossia di persone che, facendo parte di una società, non possono però collaborare pienamente alla sua costruzione, mentre contribuiscono in maniera determinante allo stato di benessere del paese. La proposta di concedere almeno il diritto di voto amministrativo agli immigrati è un timido passo in questa direzione: risulterebbe decisamente insufficiente, ma potrebbe rappresentare un valido punto di partenza. Il condizionale è d’obbligo, visto che la proposta non è stata seguita né da iniziative concrete, né da un serio dibattito politico in proposito.
Quando si affrontano temi legati ai diritti degli immigrati spesso viene contrapposta la questione della reciprocità. Quando i cittadini italiani potranno godere della piena libertà e autonomia nei paesi di provenienza degli immigrati presenti in Italia, solo allora sarà giusto e possibile concedere altrettanto. La questione della reciprocità è una questione politica che sicuramente va affrontata con i governi che impongono particolari limitazioni agli stranieri che soggiornano nei propri territori, ma non ha molto a che vedere con le situazioni di disparità mantenute vive all’interno del nostro paese. Qui si ha infatti a che fare con individui e famiglie che non possono essere considerati singolarmente responsabili delle scelte dei propri governanti. Inoltre il problema è anzitutto interno all’Occidente: rinnegare o assecondare i valori universalistici che sono a proprio fondamento. O l’occidente rinuncia al proprio sogno fondativo (ai valori di uguaglianza, democrazia, giustizia, libertà…), oppure è costretto al dialogo nella parità uscendo dal paradigma dominatore/dominato.
Forse può far riflettere il passo della Fattoria degli animali di Orwell, dove «tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri».

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il mediatore culturale nel contesto sociale e nel dibattito culturale italiano

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Informazioni tesi

  Autore: Luca Fantini
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2004-05
  Università: Università degli Studi di Urbino
  Facoltà: Sociologia
  Corso: Scienze delle religioni
  Relatore: Luigi Alfieri
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 106

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