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Ti racconto ò tumore. Un'indagine etnografica condotta presso il dipartimento di oncologia addominale dell'istituto Nazionale Tumore di Napoli

Chemioterapia e rapporto con la malattia

«FAM: […] Io non credo che la chemioterapia faccia tutti gli effetti che i medici promettono. Tutte le persone che conosco che so che l'hanno fatta non hanno avuto grandi risultati, non è efficace al cento per cento» (Figlia di una paziente).

A differenza dell'atto chirurgico, l'azione farmacologica contro il cancro non è circoscritta alla massa tumorale, ma coinvolge l'intero organismo. Il mix di farmaci somministrati durante il trattamento chemioterapico, infatti, danneggia sia le cellule neoplastiche che le cellule sane, provocando con diversi gradi di intensità e tollerabilità sintomi quali: stanchezza cronica, nausea, vomito, dolore e caduta dei capelli. Si tratta di effetti in grado di incidere in maniera significativa sulla qualità della vita dei pazienti, determinando il loro modo di vivere e di affrontare la malattia.

La maggior parte dei pazienti intervistati ha dichiarato (prima di sottoporsi al trattamento) di sentirsi dubbioso sulla reale efficacia della terapia e di temere gli effetti collaterali più della malattia stessa. Nonostante i farmaci moderni siano più efficaci e molto meno tossici rispetto a quelli adoperati in passato, i malati da me intervistati considerano la chemioterapia un rimedio ancora troppo incerto, faticoso e debilitante.

Le attuali possibilità di cura non permettono di guarire in modo definitivo, ma soltanto di cronicizzare la malattia, di stabilizzarla. Il risultato auspicato è quello di prolungare la sopravvivenza dell'ammalato impedendo al tumore di progredire. Inoltre, grazie alla sperimentazione di molecole sempre più selettive e specifiche per le cellule tumorali, oggi si è in grado di ridurre notevolmente gli effetti collaterali causati dall'azione negativa dei farmaci sulle cellule sane, garantendo ai pazienti una migliore qualità di vita.

«Medico: […] I progressi ci sono stati. Prima o poi, non se tra dieci anni, trenta o cinquanta ma di tumore non si morirà più, questo è poco ma è sicuro! Io ho chiesto la tesi in oncologia nel duemila, quindi erano fine anni Novanta che ho cominciato a interessarmi di oncologia, ricordo che all'epoca l'aspettativa media di vita di un paziente con metastasi epatica del tumore del colon era di sei mesi, oggi la sopravvivenza è arrivata a trenta mesi. Portare questi pazienti a diventare dei lungo-sopravviventi è il primo passo per raggiungere la guarigione definitiva. La ricerca scientifica per forza di cose procede step by step, la bacchetta magica non ce l'ha nessuno, non esiste il coniglio che esce dal cilindro e risolviamo tutti i problemi dalla sera alla mattina»
(Oncologo, 40 anni).

Il senso del cancro dunque è la sua persistenza nel tempo. Avere un tumore significa nella maggior parte dei casi riorganizzare la propria vita sociale e personale intorno alla consapevolezza di uno stato permanente. Le attuali opzioni terapeutiche sospendono l'esistenza della persona sofferente, costringendola a vivere in un limbo. Il paziente si ritrova imprigionato in un intervallo temporale dalla durata indefinita che non è né quello della guarigione né quello del pericolo di morte nell'immediato. Sul piano psicologico ciò si traduce in un atteggiamento di lotta perpetua, durante la quale gli individui oscillano tra la speranza della guarigione e l'incertezza di non riuscire a sopravvivere. In altre parole chi vive una condizione di malattia cronica come quella della malattia neoplastica non abbandonerà mai il suo status di malato: la paura di un ritorno della malattia, le conseguenze sul proprio fisico, i controlli periodici, le visite e gli esami a cui i pazienti si sottopongono anche dopo il completamento della terapia, costituiscono tutte situazioni in cui la malattia rivendica la sua presenza.

D'altra parte il tempo stesso svolge anche un'importante azione terapeutica per almeno quattro buone ragioni:

1. Col tempo il trauma iniziale provocato dalla comunicazione della diagnosi si attenua e avere un tumore entra a far parte della propria quotidianità.

2. La necessità di convivere con la cronicità che caratterizza la malattia permette al paziente di sviluppare con essa una relazione più intima e di riformulare le immagini che in genere vengono associate al cancro, il quale non viene più percepito come qualcosa di estraneo, ma come parte di sé.

3. I tempi lunghi del trattamento permettono un'incorporazione graduale della malattia, favorendo l'accettazione della propria condizione e la costruzione di un rapporto di convivenza con essa.

4. Il tempo permette di definire nuovi obiettivi di vita, stimolando un atteggiamento di lotta.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Ti racconto ò tumore. Un'indagine etnografica condotta presso il dipartimento di oncologia addominale dell'istituto Nazionale Tumore di Napoli

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Informazioni tesi

  Autore: Tommaso Maglione
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2017-18
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Antropologia culturale ed etnologia
  Relatore: Alessandro Lupo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 81

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Parole chiave

cancro
malattia
tumore
biopolitica
antropologia medica
narrazione della malattia
medicine non convenzionali
disordine del corpo
dimensione sociale della malattia

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