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La crisi di Suez (1956): la posizione dell'Italia

Canale di Suez - Gli atteggiamenti internazionali e la posizione italiana

Numerosi Stati reagirono in modo diverso al provvedimento di nazionalizzazione, non solo tra quelli occidentali, ma anche tra quelli arabi, oltre che naturalmente l’Unione Sovietica: il grado di forza e severità delle reazioni dei vari Paesi variava sia in base al tipo di relazione che incorreva tra lo Stato in questione e il governo egiziano, sia in riferimento agli interessi che erano stati lesi dal provvedimento.
Lo Stato israeliano era continuamente attaccato dai Paesi arabi e in maniera prevalente dall’Egitto soprattutto da quando Nasser era salito al potere. Alle navi israeliane era da tempo vietato l’accesso e l’utilizzo del canale di Suez. Infatti, il provvedimento che nazionalizzò la Compagnia che lo gestiva non toccò eccessivamente il governo israeliano poiché Israele non poteva usufruirne: l’atto venne, però, considerato dal governo del neo Stato come «un'occasione per uscire dal proprio isolamento e allentare la morsa araba». Inizialmente la reazione israeliana sembrò pacata, senza nessun desiderio di intraprendere un’azione militare, nonostante l’odio della popolazione ebraica nei confronti egiziani, già ad alti livelli, fosse aumentato considerevolmente da quando il governo aveva emanato il decreto di nazionalizzazione. L’atteggiamento e la politica estera nei confronti egiziani seguì un andamento prudente e venne colta l’occasione del provvedimento per evidenziare ai loro alleati occidentali l’inaffidabilità di Nasser e del suo governo. La politica estera israeliana subì un netto cambio di rotta quando il Presidente Ben Gurion sostituì il ministro degli Esteri Moshe Sharett con Golda Meir. Infatti, venne in questo modo rimpiazzata l’attenta, prudente e moderata politica internazionale con una linea d’azione più determinata, forte e aggressiva. L’opinione pubblica e il governo condividevano l’ipotesi di un attacco armato nei confronti egiziani, sostenendo che solo un’azione di forza avrebbe potuto sconfiggere Nasser e, più in generale, il fronte arabo; questa convinzione li avrebbe portati, successivamente, a coalizzarsi con gli anglo- francesi nella Seconda guerra arabo-israeliana.

Quanto all’Unione Sovietica, il Presidente Krusciov enunciò la posizione sovietica sulla questione sostenendo che non vi era necessità di un attacco militare poiché il provvedimento adottato dal Presidente Nasser risultava essere totalmente legale. Il governo russo sostenne, inoltre, che la via migliore da seguire fossero i negoziati in modo tale da trovare una soluzione auspicabile a tutte le parti coinvolte: questa idea, che fu condivisa in ogni situazione riguardante la questione palestinese, si basava su un aspetto del leninismo, il quale confidava fortemente nella possibilità della «coesistenza fra sistemi diversi per garantire la pace». La Russia era principalmente interessata al rispetto della Convenzione di Costantinopoli, piuttosto che al gesto del provvedimento e il governo sovietico elogiò sia l’azione del governo egiziano quando si impegnò a fornire un indennizzo agli azionisti della Compagnia nazionalizzata, sia il fatto che, nei giorni immediatamente successivi all’emanazione del decreto, non vi erano stati blocchi o problemi riguardanti la navigazione del canale. Il presidente Krusciov, il 31 luglio, dichiarò che considerava «sbagliata la politica di pressioni contro l’Egitto», sostenendo che «la questione del Canale di Suez può e deve essere regolata per via pacifica». I sovietici condannarono le dure reazioni che ebbero Gran Bretagna e Francia e accettarono l’invito alla conferenza che si sarebbe tenuta in agosto a Londra, confidando in un mutamento degli atteggiamenti anglo-francesi in senso più moderato.

La maggior parte dei Paesi occidentali reagì al decreto condannando, dal punto di vista politico e non legale, la nazionalizzazione. Infatti, il fatto che la nazionalizzazione fosse legale non fece diminuire i numerosi timori dei Paesi riguardo la libertà del canale: prima del provvedimento, la Compagnia era gestita su “base internazionale”; successivamente invece i mezzi, i capitali e i tecnici sarebbero stati tutti di nazionalità egiziana ed essi, come la maggior parte degli Stati pensava e temeva, avrebbero fatto l’interesse dell’Egitto senza tenere conto delle esigenze degli altri Paesi. In aggiunta Nasser, in quel periodo, era fortemente irritato dal comportamento degli occidentali, i quali non solo spingevano affinché l’Egitto prendesse posizione in uno dei due blocchi della Guerra Fredda, ma avevano anche ritirato i finanziamenti della diga di Assuan: la possibilità che Nasser potesse "vendicarsi" dei sopracitati atteggiamenti attraverso il transito delle navi nel canale era, secondo gli occidentali, molto alta e ciò aumentò considerevolmente i timori di tali Paesi.
La nazionalizzazione venne immediatamente condannata da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Quest’ultima assunse toni fortemente duri contro lo Stato egiziano e più in generale contro la politica sia interna sia estera di Nasser. Lo Stato inglese, infatti, risultò essere il Paese più colpito dalla nazionalizzazione, non solo per il fatto che il provvedimento aveva inciso fortemente sulla borsa britannica, ma anche perché il governo inglese era in possesso di una grande percentuale delle quote azionarie (il 45%) che le fornivano la possibilità di esercitare un forte controllo sulla gestione del canale e sulla sua politica. Inoltre, la Gran Bretagna era uno dei Paesi che più utilizzava il canale, soprattutto per rifornirsi di petrolio nei territori mediorientali e la principale preoccupazione britannica era l’ipotetica chiusura del canale alle loro navi (avrebbe significato un aumento esorbitante dei costi per la ricerca del petrolio): questa, secondo le prime stime, avrebbe potuto generare una grande crisi economica e industriale nello Stato inglese e un affronto del genere «non poteva restare senza risposta». Il governo inglese percepì l’atto come «una sfida al suo ruolo nella regione del Medio Oriente» e, considerando l’opinione britannica da sempre negativa su Nasser, il quale veniva considerato come una minaccia, e le numerose ipotesi pensate a caldo dopo la nazionalizzazione, il primo ministro britannico, Anthony Eden, fece suonare l’allarme; esso fu condiviso dall’intero gabinetto britannico, nel quale, il giorno successivo al provvedimento, si ebbero varie reazioni, ma tutti concordavano sul condannare l’azione egiziana, talvolta sostenendo la possibilità di attuare un'azione di forza.
La Francia era già da tempo in lotta con una popolazione araba, per via del suo possedimento algerino. L’Algeria era dal 1830 una colonia francese; nel secondo dopoguerra era stata annessa come territorio metropolitano francese, ma nel 1952 scoppiò la cosiddetta “Guerra d’Algeria” con l’obiettivo di raggiungere l’indipendenza. Nel 1955 circa, i capi algerini si erano rifugiati in Egitto dove avevano creato il Comitato di liberazione nazionale, il quale acquistava armi egiziane e si finanziava tramite un aiuto economico fornito da Nasser, da sempre contrario al colonialismo. Guy Mollet, Presidente del Consiglio della Repubblica francese, diffuse nel territorio una propaganda contro lo Stato egiziano, portata avanti anche grazie ai giornali e ai media, cercando di far ricadere la colpa dello svantaggio militare francese in Algeria sull'Egitto; un ulteriore obiettivo francese fu quello di colpire Nasser, considerato come leader arabo, in modo da demoralizzare gli algerini, sgonfiando la loro prospettiva di vittoria. Nei primi mesi del 1956, il governo francese e l’opinione pubblica in generale, iniziò a concentrare i propri sforzi propagandistici e militari contro l’Egitto e non più contro l’Algeria: l’occupazione del canale da parte del governo egiziano, rappresentò un ottimo pretesto e giustificazione per sferrare un colpo alla politica di Nasser. L’opinione pubblica francese rimase «notevolmente scossa» dalla crisi di Suez per vari motivi: innanzitutto la Francia aveva avuto un ruolo preminente nella costruzione del canale, il che le aveva permesso di ottenere anche un numero abbastanza grande di quote azionarie e, in aggiunta, la sede della Compagnia si trovava in territorio francese, ovvero a Parigi. Oltre alla volontà francese di vincere la guerra in Algeria, vi furono reali preoccupazioni riguardo la nazionalizzazione del canale: si temeva per le conseguenze giuridiche, finanziarie ed economiche e per la libertà di passaggio delle navi attraverso la via d’acqua. Mollet, per giustificare la sua azione nei confronti dello Stato egiziano, iniziò a identificare Nasser come dittatore sostenendo che “La filosofia della rivoluzione” di Nasser sembrava un nuovo Mein Kampf.
La sera stessa della nazionalizzazione, il britannico Eden e il ministro degli Esteri francese, Christian Pineau, si parlarono al telefono esprimendo entrambi la volontà immediata di condannare l’Egitto e intraprendere un’azione militare contro tale Stato.
Nessuno dei due politici era, però, informato sulla preparazione e la disponibilità militare dei propri eserciti e inoltre nessuno aveva consultato i membri della NATO o altri Paesi interessati alla vicenda: si determinò quindi una prima ipotetica decisione «frettolosa, mal informata e irresponsabile». Il giorno seguente, Francia e Gran Bretagna si informarono circa le possibilità di intraprendere un attacco militare congiunto contro Nasser e i risultati furono negativi. A Londra venne istituita la “commissione di Suez” incaricata di valutare e analizzare la situazione, tentando di trovare una soluzione, ma la relazione finale dichiarò che non sarebbe stato possibile, per l’Inghilterra, preparare un attacco armato prima di tre o quattro mesi. A Parigi, il ministro della difesa comunicò a Mollet e Pineau la grave impreparazione dell’esercito francese. Infatti, il numero di forze terrestri era molto scarso e peggiore era la situazione navale e aerea. La disastrosa condizione militare dello Stato francese fu determinata non solo da un’impreparazione dal punto di vista sia dell’addestramento dei militari, sia della disponibilità dei mezzi, ma soprattutto dalla lunga e travagliata guerra che i francesi stavano portando avanti da anni in Algeria. Le due Potenze decisero, necessariamente, di rimandare l’attacco armato contro lo Stato egiziano, ma continuarono la loro campagna anti-Nasser e di mobilitazione nazionale: le donne e i bambini francesi residenti in Egitto ricevettero l’ordine di tornare in patria e, allo stesso modo, anche ai cittadini inglesi presenti nel territorio egiziano venne raccomandato di lasciare il Paese. Dal momento che, secondo l’interpretazione egiziana, l’Egitto non aveva violato né gli atti di concessione della Compagnia, né la Convenzione di Costantinopoli del 1888, l’unica azione che avrebbe potuto essere compiuta dagli anglo-francesi era quella di impartire allo Stato delle sanzioni economiche, come risposta all’atto ostile compiuto da Nasser: dopo un’attenta analisi, però, venne dichiarata l’impossibilità di sanzionare economicamente l’Egitto poiché ne sarebbero scaturite conseguenze finanziarie altamente negative per l’intera economia mondiale.

L’utilizzo che gli Stati Uniti facevano del canale era trascurabile. Infatti, solo il quindici per cento delle importazioni americane di petrolio passava da Suez. Di conseguenza il provvedimento egiziano non toccò particolarmente il Presidente Eisenhower; la decisione statunitense fu dunque quella di non utilizzare la forza e di non considerare il provvedimento come un’occasione per sferrare un attacco militare contro un Paese “non allineato”. Il provvedimento egiziano venne considerato «legally feasible, but politically intolerable», poiché si trattò di un’azione legale, ma che avrebbe compromesso le relazioni con i Paesi occidentali, rischiando di innescare uno scontro armato. I principali obiettivi statunitensi furono quello di mantenere stabile e libera la via d’acqua, considerata internazionale, ed evitare reazioni eccessive da parte dei Paesi maggiormente colpiti, ovvero Francia e Gran Bretagna. È possibile sostenere che gli Stati Uniti appoggiassero i governi inglese e francese solo «entro certi limiti». Infatti, «un conto è bloccare i finanziamenti per Assuan e un conto è avviare “irreparabili azioni militari” rischiando di scatenare un conflitto generale». Il governo americano decise di inviare a Londra un funzionario esperto con l’obiettivo di analizzare la situazione e scoraggiare interventi armati inglesi; il diplomatico americano Robert Murphy arrivò quindi a Londra il 28 luglio e subito si accorse dell’impossibilità dell’esercito inglese di affrontare una guerra, nonostante il grande odio che l’opinione pubblica e il governo inglese nutriva verso Nasser. Gli Stati Uniti ribadirono più volte la loro intenzione di non attaccare lo Stato egiziano e che consideravano necessaria, vista la situazione, una conferenza tra le Potenze interessate in modo tale da non fare passi affrettati e sviscerare la questione. Parallelamente, il governo inglese e francese tentavano in tutti i modi di convincere gli americani a fornire il loro aiuto e sostegno, continuando però a ricevere risposte negative. Il 2 agosto 1956, vi fu un dibattito interno alla Camera dei Comuni britannica che vide come tema centrale la questione della nazionalizzazione del canale, le sue conseguenze e le possibili reazioni occidentali. Importanti politici inglesi pronunciarono vari discorsi, nei quali Nasser veniva fortemente condannato e venne espressa la volontà inglese di ricorrere all’uso della forza coinvolgendo anche le forze ONU. Eden sostenne che «il governo non potrà accettare per il futuro uso di questa grande via marittima internazionale alcun accordo che lasci il canale sotto il libero controllo di una sola Potenza, che potrebbe come i recenti avvenimenti hanno dimostrato, servirsene semplicemente per scopi di politica internazionale.»; inoltre il Primo ministro si mostrò notevolmente preoccupato riguardo al risarcimento degli azionisti poiché, secondo le stime inglesi, sarebbero stati necessari circa settanta milioni di sterline e l’Egitto non avrebbe potuto sostenere tale cifra. Alla fine di tale dibattito, Eden comunicò la decisione di congelare tutte le attività della Compagnia presenti sul territorio inglese e di sottoporre ogni transazione tra Gran Bretagna ed Egitto a un permesso speciale; misura analoga venne adottata anche dal governo francese.
Il 3 agosto, il ministro degli Esteri francese Pineau illustrò la posizione assunta dal governo francese in occasione del dibattito interno all’Assemblea Nazionale riguardo la questione di Suez. Egli sostenne che, durante la rivolta algerina contro l’occupazione francese, Nasser aveva assicurato al governo francese che non avrebbe mai aiutato militarmente l’Algeria, ma le avrebbe solo mostrato solidarietà essendo uno dei Paesi arabi; in realtà, grazie a numerosi controlli, venne constatato che lo Stato egiziano stava istruendo militarmente numerosi algerini, determinando, quindi, un primo esempio di slealtà egiziana. Pineau affermò che Nasser, durante i loro precedenti incontri, aveva assunto un atteggiamento estremamente antisovietico e anticomunista: anche in questo caso, il comportamento di Nasser non sarebbe stato coerente con quanto dimostrato al ministro francese. Tali esempi fatti all’inizio del discorso di Pineau ebbero l’obiettivo di mostrare la scarsa fiducia che il governo francese aveva nei confronti di Nasser e dell’intero governo egiziano e, riguardo al tema della nazionalizzazione del canale di Suez, il ministro degli Esteri dichiarò che il governo francese non avrebbe potuto «tenere conto della parola d’ordine del colonnello Nasser». Successivamente al discorso di Pineau, intervenne il Presidente del Consiglio Mollet, il quale affermò: «ciò che non ammetteremo è che un dittatore commetta una grave violazione della morale internazionale, che adotti misure unilaterali in dispregio di accordi conclusi e delle norme del diritto delle genti. [...] Né politicamente, né tecnicamente il regime insensato del colonnello Nasser offre le garanzie necessarie [per il mantenimento e lo sviluppo del canale].».
Il governo statunitense cominciò allora «a irrigidirsi contro le idee anglo-francesi»: la volontà dei governi di procedere con l’uso della forza fu notevolmente ingigantita dall’enorme appoggio fornito dalla popolazione civile. Infatti, l’intera opinione pubblica era favorevole all’attacco armato poiché avevano trovato in Nasser e, più in generale nell’Egitto, un “capro espiatorio” per tutti i loro problemi interni, inoltre, l’intera questione legata al canale di Suez aveva creato numerosi problemi per gli Stati europei, sia economici che politici, risolvibili, secondo la popolazione, solo con un’operazione militare. John Foster Dulles venne dunque inviato a Londra con l’obiettivo di impedire l’intervento militare congiunto anglo-francese: il Segretario di Stato di Eisenhower cercò sia di convincere le due Potenze occidentali a ricorrere ad alcune sanzioni economiche invece che militari, sia di evitare di portare la questione davanti all’ONU. Vi erano, quindi, da un lato la volontà di Dulles (americana) di risolvere la questione tramite relazioni diplomatiche, accordi e negoziati, dall’altra vi era, invece, la volontà di Francia e Inghilterra di far cadere militarmente Nasser.
Il 2 agosto 1956 i rappresentanti di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna si riunirono e pubblicarono una nota condivisa riguardo la loro posizione nei confronti del governo egiziano: il provvedimento di nazionalizzazione venne definito come il risultato di una politica arbitraria e unilaterale e venne considerato come una misura che avrebbe messo in pericolo la sicurezza della navigabilità delle navi in un canale di estrema importanza mondiale. Nella dichiarazione tripartita veniva sostenuto che la nazionalizzazione:
«è gravissima per quanto riguarda le sue conseguenze perché è stata apertamente determinata allo scopo di permettere al governo egiziano di servirsi per le finalità puramente nazionali del governo egiziano piuttosto che per le finalità internazionali, fissate dalla convenzione del 1888. Essi, inoltre, deplorano il fatto che, in occasione di questo sequestro, il governo egiziano ha fatto ricorso a procedure che costituiscono una violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, costringendo gli impiegati della Compagnia del Canale di Suez a continuare il lavoro sotto la minaccia dell’arresto. [...] Ciò rende necessario l’adozione di misure dirette ad assicurare alle parti di detta convenzione e tutte le altre nazioni, autorizzate a godere dei suoi benefici, l’effettivo godimento di essi». [La dichiarazione tripartita di Londra, 11-18 agosto 1956, in “Relazioni Internazionali” 1956, I.S.P.I., p. 988.]

La Dichiarazione fu redatta nonostante le differenze che caratterizzavano le opinioni anglo-francesi da quelle americane: i governi inglese e francese cercarono di negare la validità dell’atto di nazionalizzazione, usando tale violazione come pretesto per attaccare; invece, il governo statunitense utilizzò un atteggiamento più moderato e cauto. In occasione della pubblicazione della nota, tutti i Paesi interessanti alla situazione di Suez furono invitati alla conferenza che si sarebbe tenuta a Londra il 16 agosto del 1956 per trovare una soluzione alla questione tramite negoziati; ad essa avrebbero partecipato tutti i Paesi firmatari della Convenzione del 1888 e che utilizzavano il canale o avevano attività commerciali ed economiche che necessitavano della via d’acqua per essere attuate. Gli obiettivi della conferenza erano, però, diversi: gli americani auspicavano alla buona riuscita dei negoziati per poter dichiarare chiusa e risolta la questione; gli anglo-francesi volevano approfittare dell’incontro per garantire l’appoggio di altre Potenze al loro piano e, se esso fosse stato rifiutato dall’Egitto, tutte le Potenze avrebbero potuto procedere con un attacco armato.

L’Italia, come già visto precedentemente, non era stata né contenta né favorevole alla decisione anglo-americana di ritirare i finanziamenti della diga di Assuan; infatti, essa aveva chiesto delucidazioni al governo statunitense attraverso uno scambio epistolare.
Diversamente, riguardo alla nazionalizzazione del canale di Suez l’ambasciatore italiano al Cairo, Giovanni Fornari, sostenne invece che essa non avrebbe intaccato grandi interessi italiani, ma che comunque l’atto avrebbe dovuto essere considerato come un attacco alle Potenze occidentali che avrebbe potuto, proseguiva l’ambasciatore Fornari al Cairo, «aumentare la “velocità” della progressiva liquidazione, già in atto, degli interessi occidentali del mondo arabo e, quindi, afroasiatico. Secondo Fornari, dunque, questo atto posto in essere dall’Egitto rafforzava, indirettamente, le posizioni neutraliste o terzaforziste».
Il governo di Antonio Segni, inizialmente, distinse il problema della nazionalizzazione dal diritto di libera navigazione e utilizzò quest’ottica per tutta la durata della prima parte della crisi di Suez. La motivazione che spinse l’Egitto ad attuare il provvedimento della nazionalizzazione (ovvero il ritiro dei finanziamenti per la costruzione della diga di Assuan) fu di poco conto rispetto all’enorme impatto che poi la nazionalizzazione produsse e, conseguentemente, per il governo italiano, la cagione non giustificava la misura egiziana. In riferimento al vero e proprio provvedimento della nazionalizzazione, l’Italia, come gli altri Stati, non poté condannarlo poiché l’Egitto aveva tutto il diritto di nazionalizzare la Compagnia. Inoltre, l’Italia confermò la validità della Convenzione di Costantinopoli del 1888 riguardo l'utilizzo del canale. Tuttavia, la conferma egiziana della Convenzione non servì a placare le preoccupazioni e i timori degli italiani, i quali avevano numerosi dubbi riguardo al transito delle navi attraverso la via d’acqua e alle conseguenti ripercussioni in ambito economico e commerciale. I principali timori riguardavano l’aumento delle tariffe di transito, il rallentamento del passaggio delle navi attraverso il canale e il conseguente, potenzialmente incalcolabile, danno economico, commerciale e finanziario per ogni Paese che usufruiva del canale: l’intero governo italiano era, quindi, convinto che «la regolarità tecnica del traffico del Canale sarebbe stata meglio garantita da un Ente gestito da europei» piuttosto che da un’organizzazione interamente egiziana. Riguardo a quest’ultimi dubbi, al ministro degli Esteri Martino venne consegnata una nota verbale dell’ambasciatore egiziano in cui si affermava che «l’Italia poteva considerare pienamente salvaguardate le sue esigenze circa la libertà e l’efficienza tecnica del Canale»: non vi era, però, nessun accenno né alla libertà di transito nel canale senza discriminazione di bandiera, né all’aumento delle tariffe di passaggio e ciò lasciò numerosi dubbi al governo italiano.
L'ambasciatore Fornari, il giorno successivo alla nazionalizzazione, consigliò al governo italiano di assumere un atteggiamento prudente ed evitare azioni che si potessero tramutare in «finti freni», peggiorando, di fatto, la situazione. Sarebbe stato necessario intraprendere azioni più forti, dure e gravose, come quelle ipotizzate, in quel periodo, dai governi anglo-francesi: esse avrebbero potuto avere conseguenze e reazioni significative per lo Stato egiziano, determinando una vera e propria azione, e probabile vittoria, occidentale congiunta. Il diplomatico italiano, però, sottolineava immediatamente la necessità di analizzare le ipotetiche ripercussioni di tali azioni, le quali avrebbero potuto essere ampiamente negative e rischiose.
Il 31 luglio 1956, l’ambasciatore inglese a Roma, Ashley Clark, chiese l’appoggio del governo italiano nella questione dichiarando che entrambi i governi avevano lo stesso interesse, ovvero quello di evitare conseguenze economiche negative che avrebbero potuto derivare dal provvedimento di nazionalizzazione. Nello stesso giorno, il ministro Martino presentò un testo con l'obiettivo di farlo approvare al Consiglio dei ministri riguardo la questione di Suez in cui sottolineò solamente le grandi preoccupazioni economiche, commerciali e di transito italiane, mantenendo un tono pacato e prudente e non accennando alla condanna dell’azione egiziana. La maggior parte del governo si identificò in questa linea cauta e controllata, mentre un’altra minima parte aveva intenzione di omologarsi alla linea d’azione anglo-francese e utilizzare toni più duri.
Quando poi il 2 agosto 1956, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti pubblicarono – come si è visto – la nota tripartita, l’Italia non venne interpellata. Roma, infatti, comunicò alle tre Potenze la sua grande insoddisfazione riguardo sia al non essere stata convocata per discutere della questione, sia alla mancata consultazione dei membri della NATO (obbligo inserito all’art.4 del Patto). In seguito a tale comunicazione, il governo americano informò il ministro Martino comunicandogli l’intenzione di far ricoprire all’Italia un ruolo significativo e adeguato, riconoscendo la sua notevole importanza nel Mediterraneo e i suoi conseguenti interessi nella zona palestinese. Il governo italiano, nonostante il rammarico per non essere stato convocato all’incontro, non avrebbe potuto, in ogni caso, firmare la dichiarazione tripartita, date le sue convinzioni sulla questione e il suo rapporto con i Paesi arabi. Inoltre, secondo l’ambasciatore Fornari, all’Italia conveniva maggiormente tenere una linea politica separata rispetto alle tre Potenze, le quali avevano un piano di azione e una strategia ambigua e, in caso di fallimento, Roma avrebbe potuto avere maggiori possibilità di fungere da mediatrice. “Le Monde”, giornale francese, identificò la politica italiana con l’aggettivo «ambigua» poiché «pencolante fra le tradizionali ottime relazioni con l’Egitto e i vincoli della solidarietà europea». Il governo italiano, nonostante i numerosi dubbi riguardo le azioni da intraprendere per trovare una soluzione alla questione del canale di Suez e la strategia proposta dalle tre Potenze occidentali, accettò l’invito alla conferenza che si sarebbe tenuta a Londra. La partecipazione italiana all’incontro aveva l’obiettivo di «svolgere in quel foro internazionale un’azione costruttiva e di moderazione cercando di evitare soluzioni di forza». Il fine era quello di svolgere, come negli anni precedenti, un’azione di moderazione per trovare un accordo che potesse essere accettato da tutte le parti interessate. L’iniziativa di moderazione italiana creò vari pensieri e ipotesi a riguardo: alcuni sostenevano che l’Italia era perfetta per ricoprire quel ruolo, altri invece evidenziavano come Roma non potesse essere uno Stato imparziale. Nonostante i differenti pensieri, il governo italiano decise di presentarsi a Londra con l’intenzione di proporsi come mediatrice. L’ambasciatore egiziano si disse fortemente sorpreso della decisione italiana di prendere parte alla conferenza poiché tra il governo italiano e il governo egiziano vi erano stati alcuni scambi scritti in cui era stata rassicurata la politica italiana riguardo le buone intenzioni di Nasser; lo sgomento arabo fu determinato anche dalla storica posizione che l’Italia aveva da sempre assunto nei confronti della questione palestinese, mantenendosi neutrale rispetto alle altre Potenze occidentali. Il principale timore egiziano era quello di vedere lo Stato italiano partecipare alla conferenza di Londra e allearsi alle linee di azione anti-egiziane proposte e condivise dagli anglo-franco- americani. L’11 agosto, all’ambasciatore Fornari venne comunicato il rifiuto che Nasser inviò in risposta all’invito di partecipazione alla conferenza. L’Egitto, dunque, rifiutava di partecipare alla conferenza.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La crisi di Suez (1956): la posizione dell'Italia

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Informazioni tesi

  Autore: Alessia Avanzi
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2021-22
  Università: Università degli Studi di Parma
  Facoltà: Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali
  Corso: Scienze politiche e delle relazioni internazionali
  Relatore: Umberto Castagnino Berlinghieri
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 160

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