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Marlow: A twentieth century man?

Giorgio Trombatore

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Giorgio Trombatore

Presentazione Ultimo Romanzo di Giorgio Trombatore, Morsi D Africa edico Verbavolant edizioni


C’è una parte di mondo che è così geograficamente e culturalmente lontana da noi da sembrare quasi inventata. Parliamo spesso di Africa, Terzo Mondo, guerre civili, forze ribelli autogestite: ma nessuno di noi immagina davvero cosa sia quella realtà, se non vi è stato di persona. Il libro di Giorgio Trombatore Morsi d’Africa. Un operatore umanitario racconta (Verba Volant Edizioni, pp. 144, € 13,00) raccoglie i suoi interventi nelle zone interessate dai grandi conflitti mondiali, spesso ignorati dai media occidentali.



«Non credo al concetto dell’uguaglianza. Ci sono esseri superiori e questa superiorità ha il marchio della ferrea volontà, della intramontabile fede nello spirito e nel cuore. […] Essere superiore vuol dire vincere sempre perché con il cuore non si perde mai». Sono la speranza, la passione per il proprio lavoro e il forte senso di giustizia che portano Trombatore in posti dimenticati, lasciati alle loro miserie morali e umane. È il rifiuto di una realtà, è lottare perché qualcosa cambi, migliori e porti sollievo a chi non ne ha mai avuto: «Ho conosciuto eroi del nostro tempo, ho visto dottori che vivevano nella giungla e servivano i più umili: da loro ho imparato il coraggio, ma non l’accettazione di quella realtà indicibile».



Borneo, Congo, Eritrea, Marocco, Somalia sono solo alcuni dei luoghi toccati dal lavoro dell’Ong per cui Trombatore opera, ma le crudeltà cui ha assistito sono state sempre le stesse e l’unica risposta possibile era accogliere le vittime e lenire le offese subite, non avendo l’autorizzazione a intervenire concretamente: «Era come se avessero la libertà di stuprare, uccidere e bruciare. Di solito il governo chiudeva sempre un occhio e incitava le Ong a fare di più, come se non bastasse il fatto che eravamo già soffocati dalle tasse».



Senza appoggio e con la sensazione bruciante di impotenza, l’autore si è trovato in molte situazioni in cui la filosofia del “porgere l’altra guancia” non sembrava la risposta più giusta: «Dal 2009 a fine 2010 ho assistito a stragi di civili, a decapitazioni, a stupri di massa che mi hanno sopraffatto e mi hanno portato a odiare l’uomo. Per la prima volta ho seriamente pensato di fronteggiare quelle violenze con la violenza. […] Io sapevo e ne sono convinto anche adesso, che l’unica soluzione era cercare ed eliminare quegli uomini».



Ma il contributo di un operatore umanitario non è portare giustizia o ripagare le vittime dei torti subiti, il suo compito maggiore è quello di ridare una speranza a chi l’ha persa. Trombatore ha trovato nell’arte, nella fede e nel senso di appartenenza al gruppo il giusto mezzo per entrare nei cuori e nelle coscienze della comunità: le basi da cui l’autore coordinava le missioni si arricchivano, in poco tempo, di affreschi religiosi e immagini della pittura italiana per mano di artisti locali, mentre i saloni ospitavano pezzi di artigianato del posto.



Fondamentale è stata anche una guida ferma e decisa, a volte apparentemente insensibile: «Una lezione dai coloni l’avevo imparata, in questi paesi bisogna comandare, se tentenni sei perduto. E io comandavo, ero lapidario, determinato, conoscevo i miei uomini uno per uno, conoscevo i nomi di ogni guardiano, di molti sapevo pure dove abitavano. Avevo organizzato feste per il mio staff locale e avevo conosciuto le loro mogli e i loro figli; avevo imparato anche a distinguere i pregi e le debolezze di ognuno di loro». Tutto questo contribuiva a formare un gruppo unito: dentro o fuori, fedeli o “traditori”. Chi rimaneva e lo meritava, aveva piena fiducia e responsabilità, veniva trattato da amico e collega, recepiva regolarmente uno stipendio per il proprio lavoro.



Trombatore si getta in pasto alle vicende che lo circondano, attraversa confini, costruisce punti di riferimento per le comunità, visita ospedali e carceri, assistendo a scene surreali: «In quel carcere non c’era grande differenza tra carcerieri e detenuti, forse anche per questo il direttore usava come guardie carcerarie gli stessi detenuti. […] Il direttore stesso sembrava un carcerato, non riceveva lo stipendio da mesi. Le guardie erano poliziotti che stavano tutto il giorno seduti sotto gli alberi. Li vedevo pranzare con noccioline, solitamente erano i poliziotti a domandare agli stessi famigliari dei detenuti in visita del cibo per andare avanti».



«In Ogaden nessuno si era mai occupato di investire un singolo dollaro in strutture. I soldi erano sempre stati spesi in armamenti e i villaggi erano privi di qualsiasi tipo di strutture». In tutto questo caos, le Ong operano come meglio possono con le risorse a loro disposizione, ma sono troppo spesso soggette ai capricci dei governanti che, con una parola, possono vietare l’installazione di una rete idrica o sabotare la costruzione di un ospedale.



Ciò che l’autore osserva e vive sulla propria pelle lo porta a riflettere e rendersi conto di quali siano i veri problemi di questi Paesi: in aggiunta allo scorretto sistema clientelare sul quale si basano, sono culturalmente ancorati ad antiche tradizioni, le quali sopravvivono anche grazie alla mancanza di istruzione. «Feci di sì con la testa ma le immagini della bambina infibulata e dei fratellini con il colera mi si presentarono con tutta la loro ferocia. Gli abitanti dell’Ogaden erano vittime non solo delle guerre ma anche di tutte quelle usanze barbare che spesso portavano alla morte di piccoli innocenti».



Le donne e i bambini sono le categorie più colpite, quelle che subiscono sempre e sempre di più: le prime violentate sistematicamente dai militari o rifiutate dai mariti per essere state stuprate mentre si recano a raccogliere la legna nel bosco; i secondi, senza colpa, subiscono i patimenti di un mondo che non hanno scelto. «Sapevo il valore che aveva per queste donne la notizia: violentate e maltrattate riscattavano la loro dignità e venivano rivalutate all’interno della comunità stessa. Una donna che guadagna e porta soldi a casa è una donna importante e nessuno fa caso se il suo passato è segnato dalla violenza».



Jessica Ingrami



Esperienze lavorative

  • Dal 2012 lavora presso Sud Sudan, Juba nel settore Ricerca e sviluppo
    Mansione: Capo Missione

    Commento personale: Capo Missione di American Refugee Commitee

  • Dal 2011 ha lavorato presso American Refugee Committee nel settore Ricerca e sviluppo
    Mansione: Siria/Giordania