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L'evoluzione del rapporto tra Fisco e impresa in Italia

Claudio Melillo

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L'argomento "tributario" è un tema difficile e talvolta scomodo, il cui rilievo sociale e politico nella vita e nell’azione di tutti gli Stati lo pone tra le priorità da risolvere. E’ in quest’ottica che, in questi ultimi anni, la politica fiscale nel nostro paese è divenuta oggetto di un dibattito molto acceso.
Da varie parti arrivano proposte risolutive ai “mali che affliggono il Fisco”. In ogni caso, se la soluzione appare tutt’altro che semplice ed immediata, si avverte la necessità di creare un dialogo costruttivo e duraturo tra Fisco e impresa.
Il settore delle obbligazioni tributarie ha tradizionalmente rivelato nel nostro Paese una certa difficoltà ad evolversi con i tempi e ad adeguarsi con tempestività alle modificazioni del tessuto economico-sociale sul quale l’imposizione incide.
Il sistema tributario italiano è stato storicamente caratterizzato da un insieme disorganico di tributi e forme varie di sovrimposizione ed addizionali, che si sono col tempo lentamente contrapposte senza rispondere ad una logica univoca né a precisi e concordanti criteri direttivi di base. Questo ha comportato una iniqua distribuzione del carico tributario, l’annullamento da parte di alcune forme di imposizione degli effetti di altre, alcune duplicazioni di imposta, elevati costi di gestione e, in definitiva, una forte accentuazione del fenomeno dell’evasione, resa possibile dalla confusione e dal difetto di coordinamento tra i diversi livelli e strumenti d’imposizione.
Le suddette disfunzioni sono alla base dell’elevato grado di “sfiducia reciproca” che caratterizza oggi il rapporto tra Fisco e contribuente: un problema che riguarda in particolare le piccole e medie imprese, ossia quella vasta platea di artigiani, commercianti, piccoli imprenditori e professionisti, che caratterizzano la realtà economica del nostro Paese. Il Fisco, infatti, incontra notevoli difficoltà proprio nell’accertamento dei redditi prodotti da tali categorie di soggetti.
Un’analisi obiettiva delle evoluzioni che hanno caratterizzato questi ultimi anni evidenzia come il sistema tributario stia cambiando sensibilmente. Non soltanto, infatti, comincia a cambiare il quadro di riferimento dei singoli tributi, ma - soprattutto all’interno dei tributi tradizionali - si innestano regole nuove in ordine alla commisurazione della prestazione tributaria. In particolare nella disciplina del reddito di impresa e di lavoro autonomo il metodo analitico di determinazione della base imponibile lascia il campo alla nuova metodologia improntata sugli studi di settore. Al posto del reddito “effettivo” subentra il reddito “normale”, determinato cioè attraverso una stima della redditività media ed ordinaria.
Sollecitato da queste considerazioni, in questo lavoro si ripercorrono le diverse fasi che hanno segnato l’evoluzione dei metodi di valutazione del reddito imponibile delle imprese ai fini dell’imposizione diretta diversi da quello analitico-contabile e si indaga, in particolar modo, il “fenomeno” studi di settore che, negli ultimi anni, ha assunto un’importanza sempre crescente.
La presente trattazione ha, dunque, l’obiettivo di sviscerare i contenuti principali della materia, privilegiandone gli aspetti economici e tributari.
Nel primo capitolo si analizzano le ragioni dell’inadeguatezza ed i presupposti per l’evoluzione del rapporto tra Fisco e impresa, con riferimento ai metodi di indagine fiscale sia per le piccole che per le grandi imprese. Si esaminano i principali meccanismi evasivi delle imprese, in relazione alla dimensione, e le strategie per contrastarli nonché le cause dell’evasione fiscale in Italia. Si analizzano, inoltre, le differenze tra l’accertamento extracontabile e quello contabile per concludere con una descrizione delle caratteristiche del “vecchio” Fisco, della sua inefficienza e dei vincoli alla semplificazione del sistema fiscale.
Il secondo capitolo è dedicato all’esame dell’evoluzione dei metodi di accertamento extracontabili prima e dopo la riforma degli anni ’70. Si evidenzia, a tal proposito, che già alla fine dell’ottocento la più acuta dottrina poneva il problema dei metodi da adottare nelle procedure di accertamento, ritenendo che il successo di un’imposta dipenda anche dalla bontà dei sistemi seguiti per la determinazione della materia imponibile e come fra questi trovi un posto non di secondo piano il sistema “indiziario”.
L’esistenza di criteri alternativi di accertamento è stata consacrata per la prima volta dalla giurisprudenza con riguardo alla determinazione del reddito dei cosiddetti soggetti tassabili in base al bilancio, per i quali fu sancita la necessità di accertamento analitico sulla base delle scritture contabili. Questo accadeva nel quadro delle prime espressioni di legislazione post-unitaria che prevedevano accertamenti indiziari, induttivi, per medie o classi, nei confronti di tutti i soggetti. La distinzione che venne così a delinearsi tra metodo induttivo e metodo analitico e la conseguente problematica dei “presupposti” dei singoli metodi, ha caratterizzato da allora la legislazione in materia di accertamento, permanendo anche con la riforma tributaria del 1971/73.
Si evidenziano i motivi che hanno spinto il legislatore fiscale a considerare i metodi induttivi come ipotesi marginali o sanzionatorie, in un nuovo quadro di esaltazione e valorizzazione del metodo analitico su basi documentali e contabili.
La riforma tributaria degli anni settanta, estendendo gli obblighi contabili a tutti i redditi derivanti dall'esercizio di imprese commerciali e dall’esercizio di arti e professioni, e corrispondentemente prevedendo la metodologia analitica di accertamento come “regola base”, puntava a sottoporre anche le categorie del lavoro autonomo e della piccola impresa alla tassazione del reddito effettivo. L'aspirazione di creare un rapporto di collaborazione tra Fisco e contribuenti, sulla base del quale i soggetti dichiarano analiticamente i redditi conseguiti (si “autotassano” in sostanza), e all’Amministrazione spetta il compito di controllare approfonditamente un numero limitato di contribuenti, si è però infranta sin dagli anni immediatamente successivi alla riforma.
Il terzo capitolo propone una sintetica analisi dei motivi che hanno determinato il “fallimento” della riforma degli anni settanta partendo dalla crisi del sistema basato sull’accertamento analitico-contabile fino a esaminare i vari metodi induttivi di accertamento messi a punto nel periodo post-riforma. Da un lato, dunque, le categorie della piccola impresa “accusavano” l’impostazione della riforma, attenta alla grande impresa e al lavoro dipendente ma non al mondo del lavoro autonomo, dall'altro, l'assenza di una specifica e precisa politica fiscale contribuiva a diffondere l'opinione comune circa l'elevato tasso di evasione fiscale di tali categorie. In questo contesto (per certi aspetti ancora attuale) si è passati nel corso degli anni ottanta e per parte degli anni novanta attraverso due opposte fasi: la prima, nella logica dei principi ispiratori della riforma tributaria, ha portato a strumenti di controllo “selettivo”, all’inasprimento delle sanzioni penali per reati tributari ( ), all’introduzione di ulteriori obblighi strumentali posti a carico dei contribuenti (bolla di accompagnamento, ricevute e scontrini fiscali); la seconda, caratterizzata da modelli di tassazione e di accertamento fondati sul concetto del reddito normale.
A seguito della “crisi” di questa nuova impostazione si vagliano le prime parziali inversioni di tendenza, unitamente alle disposizioni che fino ad oggi, con la svolta decisiva degli “studi di settore”, hanno inserito nella normativa, in modo sempre più marcato, la possibilità di modificare il reddito d’impresa risultante dalle scritture contabili con presunzioni di ricavi o di redditi, minimi imponibili, forfetizzazioni, ecc..
Si inseriscono in questo contesto quei provvedimenti che hanno portato, nel corso degli ultimi due decenni, al progressivo abbandono del metodo analitico di accertamento, prevedendo prima un regime forfetario di determinazione del reddito delle imprese e dei professionisti (“Visentini-ter”), poi l'utilizzo di “parametri economici” in sede di accertamento induttivo (dai coefficienti di congruità ai coefficienti presuntivi di reddito fino ai “parametri” del cosiddetto “ricavometro”), e perfino all'introduzione di uno “zoccolo duro”, al di sotto del quale il reddito dichiarato dal contribuente non poteva comunque scendere (il cosiddetto contributo diretto lavorativo o minimum tax).
Il quarto capitolo pone l’attenzione sugli sviluppi recenti della fiscalità delle piccole e medie imprese che si caratterizzano per il ritorno, sia pure in forma più aggiornata, degli studi di settore, istituto ( ) di diffusa applicazione prima della riforma tributaria degli anni settanta e soppresso in seguito all’introduzione della stessa. Si analizzano gli articoli 62 bis e 62 sexies della Legge n. 427/2993 e si ripercorrono le tappe che hanno caratterizzato l’elaborazione e l’affermazione degli studi di settore come strumento innovativo di accertamento dei redditi. Si vagliano le cause di esclusione e di inapplicabilità di tale strumento e si fa un raffronto con i metodi analoghi utilizzati in altri Paesi.
Il quinto ed ultimo capitolo è dedicato all’analisi dell’applicazione concreta degli studi di settore e alla loro possibile evoluzione. Si esaminano, a tal fine, i concetti di congruità reddituale e di coerenza economica, gli effetti dell’adeguamento spontaneo del contribuente e il rapporto tra le varie metodologie operative di controllo e gli studi. Si espongono, altresì, le relazioni tra gli studi di settore e il condono fiscale e si analizza il ruolo degli Osservatori provinciali, rimarcando la necessità che essi entrino presto in funzione in tutta Italia. Si esamina, inoltre, la fase di “evoluzione” che ha riguardato recentemente alcuni studi di settore e la procedura di raccolta dei dati per l’aggiornamento degli altri studi. Per concludere, si forniscono alcuni dati sui risultati conseguiti mediante l’applicazione di questo strumento nella fase di accertamento.

Studi

  • Laurea in Economia Aziendale
    conseguita presso Università Carlo Cattaneo - LIUC nell'anno 2002-03
    con una votazione di 100 su 110
  • Laurea in Scienze dell'Amministrazione
    conseguita presso Università degli Studi di Torino nell'anno 2007
    con una votazione di 105 su 110

    Commento personale: Pubblicazioni sul sito: www.economiaediritto.it

  • Diploma di maturità conseguito presso il Liceo scientifico

Altri titoli di studio

  • Scuola di Alta Formazione dell'Ordine Dottori Commercialisti di Milano - gen 2005/nov 2006
    conseguito presso Università Commerciale Bocconi nell'anno 2006

Esperienze lavorative

  • Dal 2007 lavora presso II Università di Napoli - Facoltà di Economia nel settore Ricerca e sviluppo
    Mansione: Dottorando di Ricerca - Visiting Scholar presso CERTI - BOCCONI

    Commento personale: Attività di ricerca nel settore economico-giuridico e tributario

  • Dal 2006 ha lavorato presso Amministrazione finanziaria di Milano nel settore Enti Pubblici
    Mansione: Dipendente della Pubblica Amministrazione
  • Dal 1996 ha lavorato presso Amministrazione finanziaria di Legnano (MI) nel settore Enti Pubblici
    Mansione: Dipendente della Pubblica Amministrazione
  • Dal 1994 ha lavorato presso Scuola di formazione dell'Amm.ne Finanziaria nel settore Enti Pubblici
    Mansione: Dipendente della Pubblica Amministrazione

Lingue straniere

  • Inglese parlato e scritto: buono
  • Spagnolo parlato e scritto: buono

Conoscenze informatiche

  • Livello ottimo