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Introduzione
Nel presente studio si è inteso approfondire il fenomeno della Workplace
Incivility, ovvero un comportamento che dimostra la mancanza di considerazione
per gli altri e la messa in atto di comportamenti descritti come maleducati o
scortesi. Nello specifico, nel primo capitolo si è approfondito il costrutto della
work incivility, delineando in modo particolare la teoria di Andersson e Pearson
(1999), i quali hanno definito l’inciviltà sul posto di lavoro “…un comportamento
a bassa intensità deviante con ambiguo intento di nuocere i destinatari, violando le
norme per il reciproco rispetto sul posto di lavoro. I comportamenti incivili sono
tipicamente rudi e scortesi, mostrando una mancanza di riguardo per gli altri”
(ibidem, p. 457). Si è cercato, inoltre, di delineare i confini dell’inciviltà, in
quanto, essendo un costrutto ancora da approfondire, si può facilmente confondere
con altri atti antisociali che si verificano sul luogo di lavoro. Al fine di affrontare
con maggiore efficacia le possibili soluzioni della work incivility, infine, si è
cercato di illustrare gli antecedenti e i conseguenti. Nel presente studio, infatti,
cerchiamo di offrire una rassegna integrativa che si focalizza sugli antecedenti
(variabili che consentono, motivano e/o attivano l’inciviltà) e i conseguenti
(descrittori dell’impatto d’inciviltà) con l’intento di comprendere le possibili
cause e l’impatto dell’inciviltà sul posto di lavoro.
Nel secondo capitolo è stato approfondito lo studio di un fattore di moderazione e
di alcuni conseguenti del fenomeno della work incivility. In particolare ci si è
soffermati sul coping, considerata una variabile moderatrice, che Lazarus e
Folkman (1984) definiscono in termini di sforzi cognitivi e comportamentali volti
a gestire le richieste interne ed esterne che eccedono le risorse disponibili
dell’individuo. Abbiamo analizzato la soddisfazione lavorativa (job satisfaction),
considerata una conseguenza, definita come un sentimento di piacevolezza
derivante dalla percezione che l’attività professionale svolta consente di
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soddisfare importanti valori personali connessi al lavoro (Locke, 1967). Abbiamo
approfondito il costrutto dell’impegno organizzativo (organizational
commitment), considerato anch’esso una conseguenza e definita da Mathieu e
Zajac (1990) come forme di identificazione degli individui con l’organizzazione e
con i suoi obiettivi, insieme al desiderio di rimanere a farne parte.
Il terzo capitolo, infine, si propone di validare la scala della Customer Work
Incivility di Steve Jex che studia la percezione d’inciviltà dell’individuo causata
dai clienti/utenti dell’organizzazione di appartenenza; di validare le scale di
alcune variabili antecedenti (job security, conflitto interpersonale, constraints) e
conseguenti (disturbi psico-somatici, emozioni, soddisfazione lavorativa) e
verificare eventuali correlazioni esistenti tra quest’ultimi e la Customer Work
Incivility.
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CAPITOLO I
Work Incivility
1.1 La work incivility
Comportamenti scortesi nei luoghi di lavoro, come commenti rozzi e gesti
negativi, sono sempre più diffusi (Blau & Anderson, 2005; Andersson & Pearson,
1999; Cortina et al., 2001; Johnson & Indivik, 2001). Questa tipologia di
comportamento è nota come devianza nel lavoro, e può comportare danni sia per
gli individui che per l’organizzazione stessa (Robinson & Bennett, 1995). La
devianza sul posto di lavoro può variare da un comportamento mite, come
ignorare qualcuno, a comportamenti più gravi, come la violenza. Negli ultimi
dieci anni, gli studiosi hanno prestato un’attenzione maggiore a questi
comportamenti antisociali, in reazione alla crescente preoccupazione nazionale
della violenza sui posti di lavoro. Mentre alcuni autori si sono concentrati sulle
forme dirette di aggressione di tipo fisico con un intento palese a nuocere (Griffin,
O’Leary-Kelly, & Collins, 1998; Leather, et al., 1999; VandenBos & Bulatao,
1996), altri si sono concentrati sull’aggressione di tipo psicologico sempre di tipo
intenzionale (Baron & Neuman, 1996; Folger & Baron, 1996; Glomb, 1998;
Neuman & Baron, 1997). Un numero minore di studi, invece, ha preso in esame
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forme più lievi di maltrattamenti psicologici in cui l’intenzionalità è meno
evidente (Cortina et al., 2001).
Andersson e Pearson (1999) definiscono la work incivility (inciviltà sul luogo di
lavoro) i comportamenti devianti più sottili. Essi hanno concettualizzato tale
costrutto come una forma specifica di devianza dei membri dell’organizzazione
(Robinson & Bennett, 1995), che a sua volta rappresenta un sottoinsieme di
comportamenti antisociali dei dipendenti (Giacolone & Greenberg, 1997). Alcuni
ricercatori hanno scoperto che questo fenomeno comprende una vasta gamma di
comportamenti, da forme di inciviltà “semplici” come non restituire un sorriso, a
forme molto più gravi come ferire intenzionalmente i sentimenti delle persone
(Ambrose, et al., 2005; Brown & Sumner, 2006; Indvik, 2001). Inoltre l’inciviltà
è considerata un precursore che può condurre a comportamenti più violenti (ad
esempio, Buhler, 2003; Glendinning, 2001; Pearson, et al., 2000; Pearson, et al.,
2001; Tiberius & Flak, 1999).
Alcuni comportamenti incivili possono essere attribuiti all’ignoranza dell’autore
di inciviltà o del proprio capo, oppure possono essere attribuiti ad un’errata
interpretazione o ipersensibilità dei destinatari (Andersson & Pearson, 1999).
Spesso le persone che sono emotivamente molto reattive (sensibili agli insulti, che
si offendono facilmente, percepiscono come minacce scambi apparentemente
innocenti) hanno maggiore probabilità di essere vittime e autori di inciviltà (Blau
& Andersson, 2005). Esempi di inciviltà sul posto di lavoro comprendono:
ignorare un collega, spettegolare, scrivere e-mail irrispettose ai collaboratori o
rivolgersi a qualcuno in modo poco professionale (Bowling & Beehr, 2006;
Pearson, et al., 2001).
L’inciviltà ha dimostrato di portare ad una grande varietà di conseguenze
negative, incluso bassi livelli di benessere affettivo e livelli più elevati di
depressione (Bowling & Beehr, 2006; Pearson, et al., 2001). Keenan e Newton
(1985) hanno affermato, inoltre, che conflitti irrisolti sul posto di lavoro
rappresentano ampi costi per l’organizzazione.
Poiché l’inciviltà diventa un problema sempre maggiore (Buhler, 2003; Pearson,
et al., 2001; Pearson & Porath, 2005) sono state condotte più ricerche su tale tema
(Tepper, et al., 2006; Vickers, 2006). L’importanza degli studi sull’inciviltà è
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ulteriormente sostenuta da Cortina e colleghi che hanno affermano che “l’inciviltà
sul posto di lavoro merita una seria ricerca e un’attenzione organizzativa per i suoi
effetti nocivi sulla teoria, sulle organizzazioni e sui cittadini” (Cortina et al., 2001,
p. 65).
1.2 Definizioni e caratteristiche della work incivility
Andersson e Pearson (1999) hanno affermato che l’inciviltà sul posto di lavoro è
un comportamento evidente che dimostra la mancanza di considerazione per gli
altri e la messa in atto di comportamenti descritti come maleducati o scortesi.
L’inciviltà sul posto di lavoro è stata definita come “…comportamento a bassa
intensità deviante con ambiguo intento di nuocere i destinatari, violando le norme
per il reciproco rispetto sul posto di lavoro. I comportamenti incivili sono
tipicamente rudi e scortesi, mostrando una mancanza di riguardo per gli altri”
(Andersson & Pearson, 1999, p. 457).
Questa specifica definizione è stata utilizzata ampiamente per numerose ricerche
(Pearson, et al., 2001; Blau & Andersson, 2005; Cortina et al., 2001).
Pearson e colleghi (2001) hanno ulteriormente analizzato le tre caratteristiche di
inciviltà, ovvero:
la violazione della norma
Gli studiosi (ad esempio, Hartman, 1996) sostengono che ogni organizzazione
ha delle norme che riguardano il rispetto interpersonale e riflettono una
comprensione condivisa della moralità e della comunità del posto di lavoro. Il
comportamento incivile viola queste norme, infatti viene definito da Robinson
e Bennett come un “comportamento volontario che viola le norme
organizzative e significative, così facendo, minaccia il benessere di
un’organizzazione, i suoi membri, o entrambi” (Robinson & Bennett, 1995, p.
556).
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l’intenzione ambigua dell’autore
Nell’inciviltà nei posti di lavoro non è chiaro né il mandante, né il destinatario
né gli obiettivi nocivi o dannosi che l’autore vuole mettere in atto. Come
Pearson e al. hanno osservato “si possono attuare comportamenti incivili
avendo la volontà di danneggiare l’organizzazione, il destinatario, o per
apportare benefici a se stessi, o si possono attuare comportamenti incivili
senza intenzione” (Pearson et al., 2001, p. 1400). Nei casi in cui gli atti di
inciviltà sul luogo di lavoro hanno l’intento di nuocere, essi rientrano nella
categoria di aggressione sul posto di lavoro.
il comportamento a bassa intensità deviante
Andersson e Pearson (1999) e Pearson et al. (2001) notano una terza
caratteristica distintiva dell’inciviltà sul luogo di lavoro: la bassa intensità.
L’inciviltà, infatti, non comporta aggressioni fisiche, per cui è distinta dalla
violenza sul luogo di lavoro (Baron, 2004). Pearson et al. hanno elaborato il
concetto di bassa intensità come “minore forza, bassa carica negativa”
(Pearson et al., 2001, p.1401), ma questa definizione è alquanto nebulosa e
difficile da rendere operativa. Vickers (2006), inoltre, afferma che bisogna
stare attenti in quanto, la “bassa intensità” non deve essere confusa con
“minor” problema.
In generale possiamo notare come queste concettualizzazioni d’inciviltà sul luogo
di lavoro prendono in considerazione il contesto organizzativo (cioè, le norme), le
caratteristiche oggettive del comportamento incivile (ad esempio, la non
violenza), e gli obiettivi dell’autore (l’intento di nuocere). Ciò che ancora manca
da questo discorso concettuale è un focus dettagliato sull’esperienza soggettiva
del destinatario. La letteratura che corrisponde al bullismo (ad esempio, Keashly
& Jagatic, 2003; Zapf & Gross, 2001) e all’abuso generalizzato sul posto di lavoro
(ad esempio, Richman, et al., 2001; Rospenda, et al., 2000) hanno dimostrato
come possiamo imparare molto dal punto di vista del destinatario; ad esempio ci
permette di capire come possa rappresentare una fonte di stress cronico per la
persona. Questo aspetto, quindi, è ancora da approfondire.
Una caratteristica dell’inciviltà che più ricerche discutono è lo spiraling effect
(effetto a spirale) (Blau & Andersson, 2005; Fox & Stallworth, 2003; Pearson, et
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al., 2000). Lo spiraling effect descrive “come l’inciviltà può, dentro una
potenziale spirale, aumentare l’intensità di un comportamento incivile attraverso
un punto di partenza e un punto di ribaltamento” (p. 452). Ad esempio, lo stress
può causare in un individuo comportamenti incivili; ciò può suscitare maggior
stress, che a sua volta può attivare comportamenti con più alta intensità
d’inciviltà. Quindi non è raro per le vittime rispondere all’inciviltà diventandone
loro stessi autori. Andersson e Pearson (1999) sottolineano che la violenza sul
posto di lavoro nasce da una serie di episodi crescenti di inciviltà e non solo atti
spontanei di violenza. Infatti, delle ricerche hanno affermato come per le vittime
non era raro riferire di “rubare” comportamenti incivili dall’autore (Pearson et al.,
2000). Quando azioni iniziali di inciviltà sono viste come ingiustificate e
interpretate come più forti di quanto non fossero destinate ad essere, la vittima, a
sua volta, sceglie di impegnarsi in azioni più gravi per vendicarsi dell’autore del
reato. Se lo spiraling effect aumenta, si raggiungere quello che viene definito
“tipping point” in cui i dipendenti diventano aggressivi e violenti verso l’altro
(Andersson & Pearson, 1999). Se “spirali d’inciviltà” aumentano troppo e per
troppo tempo, possono portare a forme più gravi di devianza come la violenza sul
posto di lavoro (Andersson et al., 1999).
Bisogna considerare, infine, come le valutazioni d’inciviltà dovrebbero dipendere
non solo dalle persone coinvolte, ma anche dagli atti antisociali. Ci sono molte
dimensioni lungo le quali si distingue l’inciviltà; tre particolarmente rilevanti per
lo stress sono:
la varietà
la frequenza
la durata
Anche se un comportamento è sottile, può essere un potente fattore di stress in
quanto è costituito da forme diverse (grande varietà), si manifesta spesso (alta
frequenza), e prosegue per un lungo periodo di tempo (durata estesa) (Cortina et
al., 2001). Queste dimensioni d’inciviltà ci possono aiutare a comprendere come
un tale comportamento apparentemente banale può diventare molto dannoso. In
particolare, situazioni che implicano una maggiore varietà di comportamenti sono
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meno prevedibili e, come la vasta ricerca umana e animale ha dimostrato,
l’imprevedibilità aggrava lo stress (Lazarus & Folkman, 1984; Lazarus, 1999;
Wheaton, 1997). Inoltre, l’adattamento a fattori di stress è più difficile quando ci
sono molteplici fenomeni in continua evoluzione.
Anche i fattori temporali hanno un impatto sull’inciviltà, infatti il “tempo” è “uno
dei parametri più importanti nelle situazioni di stress” (Lazarus & Folkman, 1984,
p. 92). In questo caso ci concentriamo su due dimensioni: la durata (periodo di
tempo totale durante il quale persiste la situazione ostile) e la frequenza (quanto
spesso i comportamenti incivili avvengono entro un periodo di tempo). Secondo la
teoria, esperienze avverse che durano per molto tempo o che si ripetono con alta
frequenza sono più stressanti perché “logorano” una persona e diminuiscono la
sua capacità emotiva di gestire la situazione. Con le risorse esaurite, la persona
trova ogni manifestazione successiva stressante molto più dannosa, minatoria, o
impegnativa (ad esempio, Gottlieb, 1997a, 1997b; Lazarus & Folkman, 1984;
Lazarus, 1999). Notiamo, quindi, lo stretto legame tra stress e atti incivili.
1.3 Work incivility e costrutti affini
L’inciviltà può essere messa in relazione con molti altri comportamenti antisociali
sul lavoro, ma bisogna stare attenti a non confonderla con essi.
Nello specifico l’inciviltà è un costrutto più ampio del bullismo, che è spesso
definito come uno squilibrio di potere che si verifica almeno una volta alla
settimana per almeno 6 mesi (ad esempio, Einarsen, 1999; Einarsen, et al., 2003).
Einarsen (2000) definisce il bullismo e le molestie come tentativi ripetuti e
sistematici da parte di un individuo di nuocere a qualcuno o a un gruppo, in cui le
vittime hanno difficoltà a difendersi e in cui esiste uno squilibrio di potere tra
vittime e autori, siano essi reali o immaginari. Molte forme più lievi di bullismo e
molestie quasi sicuramente rientrano nella definizione di inciviltà sul luogo di
lavoro, mentre le forme più estreme, come aggressioni fisiche, non rientrano.