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l’intrecciarsi di una molteplicità di fibre, ovvero una molteplicità di temi tra loro
inestricabili, se non con un atto arbitrario, che noi guarderemo attraverso il prisma
dell’immagine.
Guardare-attraverso l’immagine. Questa affermazione, introdotta, sopra, senza
alcuna specificazione, si offre pian piano alla nostra riflessione e la sorregge,
presentandosi ad un tempo come la linea direttiva ed l’obiettivo, del nostro lavoro.
Insomma, il nostro problema sarà quello della proposizione come immagine, vale a
dire il nodo centrale del Tractatus, ed in un certo senso il nodo centrale di tutta la
filosofia wittgensteiniana. Ma questa ultima affermazione richiede ancora una volta
un chiarimento. Se per immagine si intende il concetto da Wittgenstein
brillantemente definito nel Tractatus essa e palesemente falsa. D’altra parte, se per
immagine si intende un concetto dai contorni sfumati, il cui significato slitta
costantemente lungo tutto il corso della filosofia wittgensteiniana, e per questo
bisognoso di una costante messa a fuoco, l’affermazione e a nostro parere corretta,
pur restando da chiarire, e sarà questo il nostro compito, i modi e le ragioni di
questo slittamento.
Interrogarsi sull’immagine vorrà dire, come sopra abbiamo osservato, interrogarsi
sul senso e sulla comprensione. Nel Tractatus la condizione del senso viene
identificata con una ineffabile struttura logica nella quale segno e designato si
identificano, la comprensione di conseguenza consiste nella capacita di cogliere
questa struttura universale e necessaria, che ogni proposizione mostra, senza per
altro essere in grado di dire.
Questa identità di forma logica tra segno e designato, comporta però una
ineliminabile differenza tra i due. L’analisi della proposizione come immagine dei
fatti ci porterà, dunque, al riconoscimento dell’ineliminabile distanza
dell’immagine dal fatto. A partire da questa osservazione il nostro discorso giunge
ad un primo incrocio fondamentale, dal quale poi tanti altri possibili percorsi di
ricerca si diramano. Il Tractatus, infatti, ponendo come condizione di senso
l’identità di forma logica di segno e designato rimuoveva proprio l’aspetto
fondamentale della loro differenza. Tematizzare il problema della differenza
avrebbe voluto dire riconoscere qualcosa di più fondamentale della logica, ma per il
Wittgenstein del Tractatus ciò e inammissibile. La logica copre tutta l’area del
dicibile, essa dice tutto quello che può accadere, dunque se vi fosse qualcosa più
fondamentale della logica, questo qualcosa dovrebbe pur essere dicibile, ovvero
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dicibile logicamente, e rientrerebbe quindi nel suo dominio. Ma se la logica esprime
ogni fatto possibile ciò che non può esprimere e la possibilità di questa possibilità,
ovvero l’accadimento, il che del fatto. La logica dice il come del fatto non il suo
che, ed e proprio il che dell’immagine (in quanto fatto), il suo accadere, a fendere
l’omogeneo tessuto della logica. Si tratta di un danno irreparabile, una strappo che
Wittgenstein non poteva ricucire, da qui il silenzio del Tractatus. La rimozione di
questa differenza, costringerà l’autore del Tractatus a rilegare nell’ambito
dell’ineffabile tutto quello che le nostre proposizioni non possono logicamente,
(sensatamente) esprimere. Non a caso proprio le proposizioni dell’etica e
dell’estetica, che in questa distanza dimorano, vengono relegate nella sfera
dell’indicibile. Ma in questo modo lo stesso Tractatus quale pretesa di parlare su
ciò di cui non si può parlare deve essere riconosciuto insensato.
Solo tra il 1929 e il 1935 Wittgenstein considererà la differenza come un aspetto
fondamentale della rappresentazione dei fatti da parte dei segni. Il riconoscimento
della differenza comporterà l’abbandono del punto di vista logico, essendo essa,
qualcosa di ancor più fondamentale, una condizione di possibilità del nostro dire
che solo ora Wittgenstein faticosamente si appresta a riconoscere. Sara la l’indagine
sull’aspettativa e sull’intenzionalità che rappresenterà per Wittgenstein l’occasione
per riconoscere e tematizzare per la prima volta il problema della distanza
dell’immagine dal fatto.
Le Ricerche filosofiche rappresentano, infine, la radicalizzazione di questa
riflessione sulla differenza. La condizione della comprensione, e del senso, viene
calata essa stessa nel contingente. Il senso e la comprensione di una proposizione si
danno solo nell’effettiva prassi del nostro linguaggio.
La comprensione si configura a questo punto come in afferrare di colpo, come
l’improvviso balenare di un aspetto, insomma come un evento contingente.
La capacità di padroneggiare un linguaggio è la condizione del nostro comprendere,
ma questa capacità, che ogni individuo possiede, è, al tempo stesso, una capacità da
acquisire, da costruire attraverso l’apprendimento e l’esercizio. Giungeremo così,
attraverso un percorso totalmente differente, a quella connessione tra etica ed
estetica che già il Tractatus riconosceva, e che ora si presenta come il problema
stesso del senso.
Il senso si rivela infatti un compito rischioso, non solo perché la sua condizione di
possibilità non può essere mai esplicitata fino in fondo, ma anche, e
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paradossalmente, perché questa condizione si radica e fa corto circuito con il
contingente. Nelle Ricerche e nelle opere successive abbiamo, dunque, non tanto il
riconoscimento di questo rischio, da Wittgenstein già riconosciuto a partire dalle
lezioni a Cambridge nel 30/32 quanto il suo elevamento a potenza. Ma e questo un
rischio che non possiamo non correre che dobbiamo correre.
Se si è seguito il discorso si qui sarà di certo sorto un dubbio, ovvero: cosa ha a che
fare l’immagine con tutto ciò?
Nella risposta a tale domanda e racchiuso l’obbiettivo principale di questo lavoro.
Cercheremo di mostrare, come Wittgenstein per altro ci suggerisce in alcuni
passaggi fondamentali delle Ricerche filosofiche, che questo cortocircuito è esibito
in maniera esemplare proprio sull’occasione di quelle immagini che chiamiamo
immagini estetiche.
Non a caso, partendo dalla considerazione di queste immagini Wittgenstein risalirà
ad una condizione ancora più originaria della comprensione e del senso. Una
condizione estetica. Per questo nelle R.F. si affermerà: <<Comprendere una
proposizione e molto più affine al comprendere un tema musicale di quanto non si
creda>>(R.F. ).
In definitiva, Wittgenstein continua ad interrogarsi sull’immagine, sia essa un
immagine logica o un immagine estetica, la posta in gioco è sempre la stessa, si
tratta cioè di comprendere e ricomprendere l’enigma del rinvio, la sua
paradossalità e la possibilità del suo senso.
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C A P I T O L O P R I M O
Il Tractatus e il paradosso dell’immagine
1.1) Appare l’immagine
Che l’interrogazione sull’immagine abbia rappresentato un tema filosofico
fondamentale nella riflessione wittgensteiniana, sembra essere fuori discussione,
almeno per quello che viene solitamente definito il primo Wittgenstein. Del resto,
il giovane filosofo austriaco ne era ben consapevole e le numerose annotazioni
dei Quaderni lo testimoniano.
Tutto il mio compito consiste nello spiegar l’essenza della proposizione.
Vale a dire, nel dar l’essenza di tutti i fatti la cui immagine è la proposizione.
Nel dar l’essenza di ogni essere. (TB 22.1.15)
Il Tractatus, d’altra parte, può essere considerato un libro sull’immagine, non
solo per l’ampiezza della trattazione dell’argomento, ma anche perché, un corretto
approccio alla teoria dell’immagine rappresenta la chiave di volta per la
comprensione dell’intero testo.
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Individuare questa problematica nella riflessione giovanile wittgensteiniana è sin
troppo facile, più difficile è invece risalire alle ragioni di un simile
interessamento, ovvero, cercare di capire cosa spinse Wittgenstein a formulare
una teoria, se di teoria si tratta, dell’immagine. Sarà dunque questo il compito che
cercheremo di svolgere preliminarmente, in modo tale da disporre di un valido
punto di partenza per tutta la nostra ricerca.
La prima riflessione sull’immagine che incontriamo nel Tractatus è la 2.0212:
Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mondo (vera o falsa).
Si tratta di un corollario alla proposizione precedente, l’importantissima 2.0211
in cui Wittgenstein afferma la necessità della sostanza del mondo:
Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso
dipenderebbe allora dall’essere un’altra proposizione vera.
Non possiamo per il momento soffermarci nel commento di questa fondamentale
affermazione, l’abbiamo voluta citare solo per specificare il contesto in cui
compare la 2.0212, con la quale fa la sua irruzione nel Tractatus la parola
“immagine”. Un corollario, come abbiamo detto, della proposizione precedente,
ma anche l’apertura di un difficilissimo interrogativo sulla natura dell’immagine.
E’ stato osservato che il Tractatus rappresenterebbe solo la cima di un iceberg la
cui parte sommersa sarebbero i Quaderni. Le proposizioni “oracolari” del
Tractatus, sono infatti il risultato di una lunga ricerca sempre rosa dal dubbio, ed è
sorprendente constatare come gli interrogativi assillanti dei Quaderni, divengano
poi, i “dogmi” del Tractatus.
21
E’ dunque opportuno circoscrivere, almeno in parte, l’orizzonte teorico nel quale
Wittgenstein si muoveva, così da individuare i problemi che egli pensava di
dover risolvere e gli interlocutori ai quali si rivolgeva, primo fra tutti,
naturalmente, Russell.
1.2) La Theory of Knowledge di Russell
1
Nella Teoria del Giudizio del 1910, Russell affermava che quando un soggetto S
giudica che aRb, possa far ciò in quanto ha conoscenza diretta (acquaintance) di
a R e b. In una proposizione del genere il giudizio implica quattro termini: Il
soggetto e i tre costituenti della proposizione. Si tratta di un accorgimento di
notevole valore. Se la teoria avesse trattato il giudizio come una relazione
concernente due soli termini, S e il complesso a-in-relazione-R- con-b, sarebbe
venuta meno la possibilità del giudizio falso.
In questo modo Russell spiega la possibilità che un soggetto S, giudichi che aRb
anche quando la proposizione, in realtà, è falsa, perché i tre costituenti possono
stare tra loro, diversamente da come essa dichiara.
Ma le carenze della teoria non sono marginali. Essa non spiega perché si giudica
che la relazione subordinata R metta in relazione a e b, né perché R debba essere
il tipo di relazione in grado di connettere oggetti come a e b. Infine, la trattazione
delle relazioni asimmetriche rappresenta un problema difficilmente superabile.
I difetti principali derivano dalla mancata considerazione della relazione
primaria tra S e la proposizione aRb, cioè il problema della comprensione da parte
di un soggetto. Affinché un soggetto S possa comprendere questa proposizione, è
1
Per un’analisi più dettagliata della Theory of Knowledge di Russell cfr. D.Pears 1979.
22
necessario che abbia conoscenza diretta dei suoi tre costituenti, ma non è certo
sufficiente. Con la Theory of Knowledge del 1913, Russell cerca di porre rimedio
a questo problema facendo affidamento solo sulle risorse della conoscenza diretta
(acquaitance). Così ritiene che quel che occorre d’altro, è l’aver conoscenza
diretta della forma della proposizione che egli chiama: la sua <<estrema
generalizzazione>>. Ad esempio, la forma pura di aRb è xχ y, nella quale
ciascuno dei tre nomi è stato sostituito con una variabile. Sostenere che chiunque
comprende aRb, conosce direttamente, non solo a R e b, ma anche questa forma,
sembra implicare che essa sia un quarto costituente della proposizione. Russell
tiene a precisare che essa è un oggetto logico, non una “cosa”, né un costituente
della proposizione, perché se la forma pura fosse un costituente, dovrebbe esserci
un modo nuovo in cui essa e gli altri costituenti sono messi insieme, ma anche
questo ulteriore modo sarebbe a questo punto un costituente, e ci imbarcheremmo
in un regresso all’infinito.
Spiegare la conoscenza diretta della forma pura e, di conseguenza, degli oggetti
logici, è comunque un compito assai difficile, Russell ne parlerà come della
conoscenza del fatto che “qualcosa è in relazione duale con qualcosa”. Egli non
vedeva alcuna differenza tra il comprendere, e l’aver conoscenza della forma pura
che <<qualcosa ha una qualche relazione con qualcosa>>. Nella teoria russelliana
questo punto è di cruciale importanza, perchè la comprensione diviene, in questo
caso, una relazione diretta del soggetto con un oggetto singolo, quindi non
sussiste la possibilità del non-vero, come avviene invece quando la comprensione
è una relazione multipla. La comprensione della forma pura è posta in relazione
con l’autoevidenza della verità logica.
Ora, non solo la proposizione <<qualcosa è in relazione duale con qualcosa>> è
una verità logica, ma essa determina la comprensione delle nostre proposizioni
23
ordinarie. Non potremmo comprendere una proposizione della forma aRb, se non
avessimo compresa e riconosciuta, nella sua autoevidenza, la verità logica
appropriata.
Nella sua visione platonizzante, Russell considera le forme come complessi
completamente generali, atomici, e quando si acquista conoscenza diretta di un
complesso, si acquista anche conoscenza diretta di un fatto, ciò significa anche
che non si potrebbe comprendere una proposizione ordinaria, come aRb, se non si
fosse già compresa e accettata la verità logica appropriata.
Wittgenstein, come scrisse lo stesso Russell
2
, fu assai critico verso questa nuova
teoria tanto da stroncarla sul nascere.
I Quaderni e le Notes on Logic, rappresentano, al tempo stesso, la confutazione
e l’alternativa ad una simile posizione, sebbene lungo un percorso assai tortuoso,
che vedrà proprio sull’occasione di tali questioni, la nascita della cosiddetta teoria
dell’immagine.
1.3) Wittgenstein vs. Russell
La posizione russelliana fu aspramente criticata da Wittgenstein il quale diceva
di aver già messo alla prova una soluzione di questo tipo ed aver constatato le sue
carenze.
Egli contestava a Russell la presenza di oggetti logici autonomi e indipendenti,
la conoscenza dei quali, avrebbe reso possibile la comprensione delle
proposizioni ordinarie: << “oggetti logici” non vi sono>> (T 4.441). Inoltre, le
proposizioni logiche, non dovevano essere considerate delle conoscenze
2
Cfr. Ronald W. Clark, The life of B. Russell, London -New York 1976, pp.204-205.
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antecedenti alla formazione e alla comprensione delle proposizioni reali, ma
proposizioni ottenibili come casi limite delle proposizioni ordinarie.
In particolare, il punto che egli trovava inammissibile, riguardava il modo in cui
la proposizione avrebbe comunicato la sua forma.
Wittgenstein non riteneva corretto separare logica e proposizioni reali in due
regni distinti e riuniva i due mondi, nel mondo unico delle proposizioni reali e
significanti di cui la logica traccia i casi limite.
E’ chiaro che tutto ciò che può dirsi in anticipo sopra la forma di tutte le
proposizioni deve potersi dire in una sola volta. Già nella proposizione elementare
sono contenute tutte le operazioni logiche. Infatti <<Fa>> dice lo stesso che
<<( ∃x). Fx. x = a>>.
Ov’è complessità, ivi è argomento e funzione; e ove questi sono, sono già tutte le
costanti logiche. (T 5.47)
Non v’è un senso plausibile secondo il quale si possa dire che gli enunciati logici
sono oggetti di conoscenza. La logica non può dipendere da qualsiasi tipo di fatto.
Se l’esistenza della proposizione non mostra quanto è necessario, questo allora
potrebbe essere mostrato solo dall’esistenza d’un qualunque fatto particolare di
quella forma. E la conoscenza di un tale fatto non può essere essenziale per la
logica. (TB 4.9.14)
La nozione dell’autoevidenza dell’esperienza logica, che Russell nella Theory of
Knowledge considerava il paradigma della conoscenza logica, era confutata alla
radice. Se la correttezza della logica non può dipendere dall’esperienza di un fatto,
è nella sintassi logica del linguaggio che sussistono le condizioni che proteggono
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dall’errore, e non nella presunta conoscenza di qualche fatto empirico, o di
qualche forma ideale di tipo platonico.
L’evidenza, della quale Russell parlò tanto, può divenir dispensabile nella logica
solo in quanto il linguaggio stesso impedisca ogni sbaglio logico, - che la logica sia
a priori consiste in questo, che non si può pensare illogicamente. (T 5.4731)
La logica per Wittgenstein non può dipendere da alcuna esperienza, nè da alcun
fatto empirico o ideale perché, se tale esperienza o fatto fossero diversi, la verità
logica risulterebbe contingente anziché necessaria ed essenziale.
Che qualcosa sia, che esista un mondo, questo è tutto ciò che Wittgenstein
riconosce visto che << La logica non è una dottrina, ma un’ immagine speculare
del mondo>> (T 6.13). Lo statuto trascendentale della logica, gli consente di
considerare le proposizioni logiche come casi limite delle proposizioni ordinarie,
le quali sono raffigurazioni di quel mondo che diciamo esistere, ma la logica
non può dipendere da come è il mondo.
L’<<esperienza>>, che ci serve per la comprensione della logica, è non
l’esperienza che qualcosa è così e così, ma l’esperienza che qualcosa è: Ma ciò
non è un esperienza.
La logica è prima di ogni esperienza - d’ogni esperienza che qualcosa è così.
Essa è prima del Come non del Che Cosa. (T 5.552)
Con ciò Wittgenstein confutava la teoria russelliana della conoscenza, ma si
accollava un compito assai difficile, vale a dire, dar conto del senso di una
proposizione indipendentemente dalla sua verità, e senza il ricorso alle risorse di
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un mondo trascendente. Un obbiettivo che, come vedremo, lo porterà molto più in
là della Theory of Knoweledge di Russell.
1.4) Dalla Theory of Knowledge alla teoria dell’immagine
3
Nei Quaderni Wittgenstein confessa spesso i suoi fallimenti e le sue grandi
difficoltà. Il 21 ottobre 1914 egli riconosce un suo grave errore.
Io pensavo che la possibilità della verità d’una proposizione ϕ(a) fosse legata al
fatto che (∃x, ϕ). ϕx. Ma non si riesce a vedere perché ϕa debba essere possibile
solo se v’è un’altra proposizione della sua stesa forma. ϕa non ha certo bisogno
d’un precedente. (Supposto infatti che vi siano solo due proposizioni elementari
<<ϕa>> e <<ψa>> e ϕa sia falsa, perché questa proposizione dovrebbe avere un
senso solo se <<ψa>> è vera?!).
Dunque, inizialmente Wittgenstein si rifiutava di ricorrere alle forme logiche
pure russelliane, e riteneva che il senso di una proposizione elementare,
dipendesse dalla verità di un’altra proposizione della stessa forma, ma un teoria di
questo genere non poteva che rivelarsi aporetica.
Il 29 ottobre 1914, egli aveva ormai ben chiare le difficoltà che doveva
superare. Se la forma logica di una proposizione p non dipende dall’esperienza, o
dalla conoscenza di un fatto, o da una struttura formale trascendente, come può
sussistere la forma logica in questione, se il fatto corrispondente a quella forma
logica non sussiste? Per Russell, come si è visto, tale forma sussisteva nei
3
Per un confronto tra la Theory of knowledge di Russell e la teoria dell’immagine di Wittgenstein cfr. D.
Pears 1979.
27
termini della struttura logica astratta di un complesso, la cui esperienza logica
precede la conoscenza della proposizione p.
Nel novembre del 1914, Wittgenstein respingeva la teoria russelliana e
perveniva alla dottrina che avrebbe costituito il fondamento della possibilità
logica delle proposizioni e del loro potere di raffigurazione della realtà.
La realtà che corrisponde al senso della proposizione certo non può essere altro
che le parti costitutive di essa, poiché tutto l’altro non lo conosciamo. Se la realtà
consiste in qualcos’altro ancora in ogni caso questo non può essere né designato
né espresso: infatti nel primo caso ciò sarebbe un’ulteriore parte costitutiva; nel
secondo l’espressione sarebbe una proposizione per la quale si riproporrebbe lo
stesso problema che per quella originale. (TB 20.11.14.)
Wittgenstein poneva così le fondamenta sulle quali edificare la sua teoria
dell’immagine. Respingeva le forme trascendenti platonizzanti della dottrina di
Russell, restituendo la condizione di possibilità del significato delle proposizioni,
agli elementi costitutivi immanenti alla proposizione stessa.
Se la proposizione Rabc deve contenere un costituente α che designa la forma
della proposizione, e la distingue da Rbac , Rcab ecc., essa dovrebbe divenire
allora Rabcα, ma a questo punto, osserva Wittgenstein, sarebbe una diversa
proposizione. Egli riuniva in un solo mondo, quello della proposizione, ciò che
Russell poneva in due mondi. I nomi riflettono tutte le loro possibilità di entrare
nelle proposizioni, le quali, a loro volta, secondo l’isomorfismo di logica e realtà
del Tractatus, mostrano le possibilità di ciascun oggetto corrispondente, di
entrare in uno stato di cose. I costituenti della proposizione, cioè i nomi, sono
combinabili solo nei modi corrispondenti con la combinabilità degli oggetti in
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stati di cose. La proposizione diviene così la raffigurazione di un fatto della realtà
<<di sua testa>>(TB 5.11.14).
Wittgenstein trovava in questo modo il contatto tra proposizione e fatti, le
antenne con le quali i nomi toccano la realtà. La forma della realtà è immanente
alla forma del simbolismo linguistico, se questo è significante.
Quel precedente cui ci si vorrebbe sempre appellare deve essere già nel simbolo
stesso. (T 5.525)
La forma deve essere mostrata, esibita dalla proposizione. Come una fotografia
mostra la struttura della situazione che essa raffigura, allo stesso modo la
proposizione mostra la struttura di ciò che asserisce.
La proposizione enuncia qualcosa solo nella misura in cui è un immagine!
(TB 3-10-14)
1.5) <<La forma è la possibilità della struttura>>
La proposizione, rappresentando di sua testa i fatti, non può esibire al tempo
stesso come possa a ciò riuscire, qualsiasi immagine che tentasse di raffigurare la
condizione di possibilità della raffigurazione, non farebbe altro che presupporla,
ed è evidente che ogni tentativo in questa direzione è destinato a fallire. Non v’è
infatti la possibilità di un metalinguaggio che ci consenta di dire, logicamente,
quell’aspetto fondamentale ed enigmatico della proposizione che per
Wittgenstein è consegnato al mistico, all’ineffabile.
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Ma a questo punto non possiamo più rimandare la nostra domanda
fondamentale, e dare ad essa una risposta seppur parziale. Che cos’è l’immagine?
<<L’immagine è un fatto>> (T 2.141). Grazie a questa importantissima
intuizione Wittgenstein si libera di ogni concezione <<psicologica>> e
<<metafisica>> dell’immagine, ed è difficile dire fino a che punto egli fosse
consapevole delle profonde conseguenze che una tale posizione comportava.
L’immagine è un fatto, vale a dire l’accadere di uno stato di cose che ne
rappresenta un altro. Ma, <<lo stato di cose è un nesso d’oggetti>> (T.2.01),
dunque, l’immagine è un nesso d’oggetti. Affinché l’immagine possa
rappresentare un fatto, è necessario che gli elementi che compongono l’immagine
stiano tra loro in una “relazione determinata”. Questa “relazione determinata” o
“struttura dell’immagine”, è resa possibile dalla “forma della raffigurazione
dell’immagine”. <<La possibilità della struttura>> sarà chiamata <<forma della
raffigurazione dell’immagine>>.
La forma della raffigurazione è la possibilità che le cose siano l’una all’altra
nella stessa relazione che gli elementi dell’immagine. (T 2.151)
Nella forma della raffigurazione sta la possibilità per l’immagine di rapportarsi
ad altro, <<L’immagine è così legata con la realtà; giunge ad essa.>>(T 2.1511)
Secondo questa concezione, appartiene dunque all’immagine pure la relazione di
raffigurazione che ne fa un’immagine.(T 2.1513)
La relazione di raffigurazione non è posta da Wittgenstein nella mente, o in un
mondo ultrasensibile, bensì nell’immagine stessa. La forma che Russell aveva
considerato come un costituente della proposizione, diventa qui una possibilità di