2
ha influito negativamente sulla ricezione delle sue opere
maggiori, le quali meritano un’attenzione più accurata da
parte della critica e un posto di maggiore spicco nella
letteratura anglo-americana, a dispetto anche di quanto
affermava Bierce sulla parola “famoso”: “Famous, adj.
Conspicuously miserable.”.4
Comunque, molti suoi aforismi sono entrati a far
parte del linguaggio comune statunitense e, ogni
qualvolta si voglia definire un aspetto della vita in
maniera ironica e arguta, capita di sentirsi citare
questo autore, come ci conferma Roy Morris, Jr.:
Today, with the possible exceptions of
Dorothy Parker and Oscar Wilde, he is
probably the world’s most frequently quoted
wit.5
La famiglia di Bierce partecipò all’ondata
migratoria verso Ovest del diciannovesimo secolo,
conducendo, in questo modo, un’esistenza tipicamente di
frontiera.
All’età di 17 anni Bierce lasciò la famiglia alla
ricerca di una propria indipendenza da essa e di un posto
nel mondo.
4
A. Bierce, The Enlarged Devil’s Dictionary, E. J. Hopkins (ed.),
London, Penguin Books, 2001 (1967), p. 121.
5
R. Morris Jr., “Introduction”, in A. Bierce, The Devil’s
Dictionary, New York, Oxford University Press, 1999, pp. VII-XXX, p.
XXX.
3
Dopo aver frequentato, grazie a un suo zio, il
Kentucky Military Institute per il breve periodo di un
anno, egli svolse diversi lavori umili, fino a quando non
gli si presentò l’avvenimento che più di tutti influenzò
la sua vita e il suo pensiero futuri: lo scoppio della
Guerra Civile americana nel 1861.
Bierce si arruolò subito volontario e sopravvisse
agli orrori del conflitto per tutta la sua durata di
quattro anni.
Poi, dopo un breve periodo durante il quale lavorò
per il Governo Federale nella gestione del cotone del Sud
confiscato, Bierce partecipò, assieme al Generale Hazen,
suo ammirato superiore durante la guerra, a una
spedizione di ricognizione e scoperta che lo portò fino
all’estremo Ovest degli Stati Uniti, nella città di San
Francisco.
Qui Bierce cessò ogni rapporto con qualsiasi
istituzione militare e iniziò una carriera giornalistica
straordinaria che culminò in più di quaranta anni di
articoli invettivi contro tutti gli aspetti negativi
della società americana e umana in genere.
All’età di 71 anni, Bierce partì verso un Messico
afflitto dalla guerra civile, dove le sue tracce si
persero per sempre, apparentemente svanendo dal mondo e
lasciando incompiuta la biografia del suo ultimo periodo
di vita.
4
Oltre all’attività giornalistica, Bierce fu autore
di poesie di valore artistico non elevato, ma trattò con
maestrìa tre generi di short tales: di guerra,
dell’orrore e i fantasiosi tall tales.
Parte del suo giornalismo fu anche la pubblicazione,
nelle sue colonne in vari periodici e fino al 1906, di
alcune voci del dizionario comune da lui rivoluzionate in
definizioni satiriche, che pubblicò parzialmente (solo le
parole che iniziavano per A-L) nel 1906 in una prima
raccolta intitolata The Cynic’s Word Book. Nel 1911 egli
ripubblicò queste definizioni e le altre mancanti nel
settimo volume del suo Collected Works of Ambrose Bierce,
una raccolta di vari suoi scritti che egli riprese e
pubblicò in dodici volumi dal 1909 al 1912. In questa
occasione egli potè utilizzare il titolo che preferiva,
The Devil’s Dictionary.
Questa seconda pubblicazione conteneva 998 voci, ma
anch’essa era incompleta. Non sappiamo per quale motivo,
ma Bierce stesso omise tante definizioni risalenti a
prima del 1881, da lui stesso riconosciuto come la data
di partenza delle pubblicazioni.6
Solo nel 1967 il Professor Ernest Jerome Hopkins
pubblicò un Devil’s Dictionary7 con 851 voci aggiunte, il
6
A. Bierce, Prefazione a “The Devil’s Dictionary”, in The Collected
Works of Ambrose Bierce, 12 vols, New York, Gordian Press, 1966;
vol. VII.
7
A. Bierce, The Enlarged Devil’s Dictionary, cit.
5
risultato di una sua approfondita ricerca in tutti gli
articoli bierciani.
Quest’ultima edizione è la base di partenza del mio
lavoro, nel quale analizzerò e confronterò le definizioni
del Devil’s Dictionary con gli aforismi di Oscar Wilde.
La scelta di Wilde (1854-1900) come autore di
confronto è arbitraria, in quanto tra i due autori ci
sono tali differenze nella loro formazione, nel loro
contesto socio-culturale (l’uno americano, l’altro
inglese), nel loro pensiero estetico-letterario e nella
loro produzione, che, a un primo giudizio, sembra che
nulla abbiano in comune.
Tuttavia, il risultato di un’analisi accurata
dimostra come i due autori fossero accomunati da diverse
teorie e, soprattutto, dall’uso che essi fecero del
linguaggio: il loro è, infatti, un codice che fa
sorridere o ridere (la differenza sarà trattata nel
secondo capitolo), ma, allo stesso tempo, è altamente
critico e sovversivo della società vittoriana del loro
tempo.
Roy Morris ha, d’altronde, definito Bierce, nella
sua biografia, “Wilde’s closest American counterpart in
the near-lethal practice of aphorism and retort”8.
8
R. Morris Jr., Ambrose Bierce, Alone in Bad Company, New York,
Oxford University Press, 1995, p. 5.
6
Come ho anticipato qui sopra, punto di partenza
della mia tesi sarà il Devil’s Dictionary, ma mi avvalerò
per questa discussione anche delle altre opere di Bierce,
dai racconti ai saggi, agli articoli giornalistici, alle
poesie.
Anche di Wilde utilizzerò l’intera opera, in quanto
i suoi aforismi si trovano sparsi in essa; inoltre, anche
per lui, come per Bierce, è molto utile avvalersi di
tutti gli scritti per meglio comprenderne il pensiero.
7
1. TEORIA DEL LINGUAGGIO
Secondo Hopkins, l’idea di un Comic Dictionary venne a
Bierce a Londra, dove egli soggiornò con la famiglia dal
1872 al 1875 nel tentativo, quasi del tutto fallito, di
crearsi una certa fama nell’ambiente letterario inglese.1
Guido Almansi ci informa, tuttavia, che alcune voci
del Devil’s Dictionary risalgono già al 1865, dunque al
periodo precedente il soggiorno londinese e durante il
quale Bierce lavorò per alcuni giornali di San
Francisco.2
Nel 1881, quando assunse la carica di redattore del
periodico di San Francisco Wasp, Bierce pubblicò
regolarmente queste voci nella sua colonna, intitolata
“The Devil’s Dictionary”.
Wiggins sottolinea, nella sua biografia, il
carattere delle definizioni bierciane: “Bierce’s
definitions are […] pessimistic in their view of human
nature, sardonic and savagely satirical.”3
In effetti, Bierce era e si considerava uno
scrittore satirico: “Satirico si badi bene, non
1
E. J. Hopkins, “Introduction”, in A. Bierce, The Enlarged Devil’s
Dictionary, cit., p. 20, passim.
2
G. Almansi, “Una antropologia qualunquista”, in A. Bierce,
Dizionario del Diavolo, Milano, Editori Associati S.p.A., 1998
(1993), p. 17, passim.
3
R. A. Wiggins, Ambrose Bierce, Minneapolis, University of Minnesota
Press, 1964, p. 18.
8
umoristico o ironico.”4, in quanto egli vedeva nella
satira quella forma letteraria depositaria del wit, lo
strumento linguistico di sovversione sociale che lui
cercava negli scritti altrui e che perseguiva nei suoi:
Satire, n. An obsolete kind of literary
composition in which the vices and follies of
the author’s enemies were expounded with
imperfect tenderness. In this country satire
never had more than a sickly and uncertain
existence, for the soul of it is wit, wherein
we are dolefully deficient, the humor that we
mistake for it, like all humor, being
tolerant and sympathetic.5
Questa voce del Devil’s Dictionary ci conduce
direttamente al nucleo del pensiero estetico-letterario
di Bierce; infatti, già qui notiamo la preferenza di
Bierce per il wit rispetto allo humor, che per lui era
poi la contrapposizione tra il romance e il novel, cioè
tra una corrente letteraria di tipo estetico-romantico e
il realismo. Nei capitoli secondo e terzo approfondirò
questo aspetto del suo pensiero letterario.
In questo luogo, invece, vorrei sottolineare come la
satira sia in Bierce elemento unificante dell’intera sua
4
G. Pilo, “Ambrose Bierce, maestro dell’orrore breve”, in A. Bierce,
I racconti dell’oltretomba, Roma, Newton Compton Editori, 1993, p.
7.
5
A. Bierce, The Enlarged Devil’s Dictionary, cit., p. 283.
9
opera6 e non solo, quindi, il segno qualificativo del
Devil’s Dictionary.
L’adozione della satira da parte del nostro risale,
innanzitutto, alla sua formazione letteraria, che
tratterò nel secondo capitolo. Inoltre, egli vide in
questo registro lo strumento linguistico sovversivo per
eccellenza, in grado di aprire delle fratture nelle
convenzioni perbeniste della società occidentale, un
elemento di disturbo e di spinta alla riflessione.
Le definizioni del Devil’s Dictionary, tuttavia,
sono, nella loro concisione e nel loro carattere
aforistico, tra i migliori esempi dell’uso che Bierce
fece della satira.
Nell’analizzare l’uso bierciano di questo genere,
James Milton Highsmith sostiene che Bierce volle
perfezionare, attraverso le sue definizioni, le diferse
forme satiriche, quali l’eroicomico, la parodìa, la
farsa, per l’umorismo americano.7 Inoltre, egli
sottolinea come in tante definizioni bierciane sia
riscontrabile un importante strumento della satira, cioè
la parodìa di un soggetto attraverso il contrasto tra la
forma della polemica e il soggetto stesso trattato8:
6
S. T. Joshi, “Ambrose Bierce: Horror as Satire”, in S. T. Joshi,
The Weird Tale, Austin, University of Texas Press, 1990, pp. 143-67,
p. 164, passim.
7
J. M. Highsmith, “The Forms of Burlesque in the Devil’s
Dictionary”, in C. N. Davidson, Critical Essays…, cit., pp. 123-35,
pp. 124-25.
8
Ibid., p. 126.
10
diverse definizioni del Devil’s Dictionary usano una
forma, uno stile “alti” nel trattare un soggetto
ridicolo, oppure si definiscono soggetti nobili con uno
stile “basso”, irriverente. A esempio: “Abdomen, n. The
temple of the god Stomach, in whose worship, with
sacrificial rights, all true men engage.”.9
Highsmith suggerisce, in questo, una similarità di
Bierce con Luciano di Samosata:
In a group of travesties that cite the
celebrated figures of myth and religion, we
are reminded of Lucian’s treatment of the
gods and their votaries as ever so human in
their attitudes and activities.10
Riprendendo il discorso sul carattere aforistico
delle definizioni del Devil’s Dictionary, tale forma
linguistica porta a una considerazione importante che
accomuna Bierce a Wilde.
Nella sua analisi sull’uso dell’aforisma nel secondo
Ottocento inglese, Franco Marucci ci informa come la
cultura “alta” di quel periodo ritornò a studiare certi
filosofi aforisti appartenenti alla cultura classica,
come Empedocle, Eraclito, Epicuro, Marco Aurelio e gli
Stoici. Inoltre, questi aforisti erano anche, spesso, gli
espositori di una filosofia della rinuncia e dello
scetticismo, e come tali i suggeritori di una temperie,
9
A. Bierce, The Enlarged Devil’s Dictionary, cit., p. 35.
10
J. M. Highsmith, op. cit., p. 132.
11
come quella vittoriana, che esplorava accanitamente il
dubbio religioso.11
La traduzione di George Long dei Ricordi di Marco
Aurelio (1861) venne letta, a esempio, da Walter Pater
(1839-1894)12, amato maestro di Wilde e scrittore
ammirato anche da Bierce. Pater, d’altronde, privilegiava
uno stile stringato e privo di tutto il superfluo:
Pater, avverso […] alle teorie romantiche e
vittoriane dell’ispirazione inconscia,
riteneva che alla forma accudiva l’artista
con controllo vigile e consapevole, di un
tipo dorico-apollineo che era tale da
asciugarla di ogni sovrappiù, da renderla
classicamente stringata.13
Dunque, non è difficile ricollegare sia Bierce sia
Wilde a quella corrente culturale vittoriana che stava
valorizzando il linguaggio aforistico come modello di
scrittura classica e pura.
Hopkins ci informa che le uscite periodiche delle
definizioni bierciane ebbero immediato successo, in
quanto:
Here was a satirical feature, lacking in the
element of personal attack, that subtly
twisted the meanings of people’s primary
concepts by defining their words […] with the
purpose of making the reader uncertain of the
11
F. Marucci, “L’aforisma nel secondo Ottocento inglese: Arnold,
Pater e Wilde”, Annali di Ca’ Foscari, n. 36, 1997, pp. 135-145, p.
138, passim.
12
Ibid., p. 139, passim.
13
Ibid., p. 144.
12
validity of his own thinking, while intrigued
by apparently harmless wit.14
Questa affermazione può essere il punto di partenza di
diverse considerazioni.
Innanzitutto, essa sottolinea come Bierce si
rivolgeva al lettore con atteggiamento provocatorio:
[…] he wrote, purposely, to shock. And those
he most wanted to upset by shocking were the
smug and self-certain, the dogmatic and
authoritative, or, at the other extreme, the
stupid, illogical, brainless, and imitative,
his pet aversion.15
Alla base di questo atteggiamento ci sarebbe quella
che Almansi ha definito una “antropologia qualunquista”
bierciana
[…] basata sulla fede in una legge universale
di brutale semplicità: l’uomo conosce solo
l’interesse personale, e tutte le sue azioni
sono dominate da questa passione esclusiva.
L’«io» diventa perciò la misura di tutte le
cose […].16
Bierce notò come il linguaggio fosse specchio
dell’«io», lo strumento utilizzato dall’uomo, di natura
egocentrica (“Egotist, n. A person of low taste, more
14
E. J. Hopkins, op. cit., p. 23.
15
Breve introduzione di E. J. Hopkins, in The Ambrose Bierce Satanic
Reader: Selections from the Invective Journalism of the Great
Satirist, E. J. Hopkins (ed.), Garden City, Doubleday & Company,
1968, p. 11.
16
G. Almansi, op. cit., p. 12.
13
interested in himself than in me.”17), nella sua corsa
d’avida ricerca per soddisfare unicamente le proprie
richieste: “Language, n. The music with which we charm
the serpents guarding another’s treasure.”.18
Bierce rimarca l’egoismo dell’uomo con la centralità
che egli infonde al proprio «io»:
I is the first letter of the alphabet, the
first word of the language, the first thought
of the mind, the first object of affection.
[…]19
O ancora:
Me, pron. The objectionable case of I. The
personal pronoun in English has three cases,
the dominative, the objectionable and the
oppressive. Each is all three.20
Il rapporto tra «io» e linguaggio è talmente
personale, singolo, da non aver più un linguaggio
collettivo, nel senso di un linguaggio che, attraverso lo
scambio, serve gli interessi di un popolo:
Conversation, n. A fair for the display of
the minor mental commodities, each exhibitor
being too intent upon the arrangement of his
own wares to observe those of his neighbor.21
17
A. Bierce, The Enlarged Devil’s Dictionary, cit., p. 106.
18
Ibid, p. 203.
19
Ibid., p. 170 (corsivi miei).
20
Ibid., p. 222.
21
Ibid., p. 78.
14
Qui il linguaggio è monouso, cioè è al servizio
della persona che lo emette e chi lo riceve può essere,
conseguentemente, abbindolato e manipolato.
Infatti, per l’interesse personale, i politici e i
potenti statunitensi portarono il paese (e un Bierce
adolescente pieno di ideali) in una guerra parenticida,
convincendo il popolo americano, attraverso discorsi
declamatori falsamente morali, che si andava a combattere
in difesa di valori “giusti”. Il linguaggio venne usato a
scopi propagandistici, ma esso era falso, in quanto ciò
che affermava apertamente non era quello che significava
intrinsecamente.
Bierce, colpito in prima persona da questo
linguaggio opportunista e cadutone vittima - “Bierce
early made the pragmatist’s discovery that truth was
instrumental, and did not consist in a set of
principles.”22 - maturò la sua sfiducia nell’uomo e nelle
istituzioni da lui create. Col giornalismo egli colse
l’opportunità per scrivere una produzione satirica
imponente, col fine di scuotere l’uomo intelligente dal
torpore di una morale malata, il prodotto della
manipolazione linguistica e del falso significato dato
alle parole e, quindi, al linguaggio (“Hell, n. The
residence of the late Dr Noah Webster, dictionary-
22
J. Martin, “Ambrose Bierce”, in C. N. Davidson, Critical Essays…,
cit., pp. 114-22, p. 116.
15
maker.”23); come Morris scrive, nella sua introduzione a
un’edizione del Devil’s Dictionary: “The Devil’s
Dictionary was one of his most effective teaching
tools.”.24
Con le sue definizioni, Bierce volle scuotere la
lingua dall’interno, in quanto la parola subisce
un’alterazione di significato, anzi, un vero e proprio
rovesciamento semantico. Ciò vuol dire che la verità
della parola, data per scontata, può essere messa in
dubbio; la conseguenza di questa opinabilità è la
mancanza di certezza nel significato della realtà che ci
circonda. Se la lingua stessa, il linguaggio e la sua
semantica possono essere messi in discussione,
altrettanto può, a questo punto, avvenire per la società
che li ha creati.
E’ attraverso questo rovesciamento del linguaggio
che Bierce volle dimostrare come l’accezione comune di
una parola sia stata fissata da una morale perbenista e
menzognera: “Congratulation, n. The civility of envy.”.25
Almansi sottolinea la genesi di quest’opera, che
nasce come:
[…] opera lessicografica di una lingua della
menzogna […]. Sia pure nella sua veste
satirica, sbarazzina, paradossale, cinica,
23
A. Bierce, The Enlarged Devil’s Dictionary, cit., p. 162.
24
R. Morris Jr., “Introduction”, cit., p. VII.
25
A. Bierce, The Enlarged Devil’s Dictionary, cit., p. 76.