II
geografia linguistica o la scuola idealistica di K. Vossler; d’altronde non
s’interessò mai realmente di questioni teoriche (1925:VII) mantenendo una
spiccata tendenza per l’eccletismo. Il suo più grande merito consiste nella
elaborazione di grammatiche e dizionari assai accessibili, di cui ancora oggi
gli studenti di romanistica non possono fare a meno. Ancora insuperati sono
il suo Dizionario Etimologico Romanzo (1935) e la sua grammatica storica di
tutte le potenziali varietà romanze (1890-1902), che, diversamente dagli altri
lavori dei Neogrammatici, non riguarda solo la fonetica e la morfologia ma
include l’unica sintassi storica esauriente mai tentata nella linguistica
romanza.Ma anche quei manuali che sono stati rimpiazzati da più recenti
lavori, come la Grammatica Storica dell’Italiano anglo-tedesca (1890) e del
francese (1909/21): la parte concernente la formazione delle parole fu
aggiornata per una nuova edizione nel 1966 da J. Peal perché sarebbe stato
impossibile sostituirla, contiene ancora materiale utile, di facile comprensione
e utilizzo per via della sua chiarezza e della presentazione razionale. Oltre
ad aver pubblicato manuali di tal genere, fu anche un prolifico scrittore di
monografie (170, senza contare le riviste specializzate: Battisti 1937)
concernenti tutte le lingue romanze, ma anche greco, celtico, albanese,
basco, lituano (per una completa bibliografia vedi: Moldenhauer 1938). E’
grazie all’autorevolezza dell’insegnamento di Meyer-Lübke che il Catalano
(1925) e il Sardo (1902) furono riconosciuti come lingue indipendenti.
La scoperta del Condaghe di S. Pietro di Silki ebbe una grandissima
importanza per la conoscenza del sardo antico; questo “Condaghe” è, come
quelli che sono venuti di volta in volta alla luce, una collezione di atti di dono,
acquisti, lasciti, permute, che formano la consistenza patrimoniale delle
chiese e dei monasteri, in questo caso del monastero di San Pietro di Silki in
Sassari. Sono testi che vanno dal secolo XI al XIII, sono della più grande
importanza per il sardo antico e in particolare per la conoscenza del
logudorese antico, fino allora conosciuto soltanto attraverso testi molto più
recenti e poco degni di fede, specialmente relativamente alla veste fonetica.
III
Nel 1900, la pubblicazione in un’eccellente edizione del Condaghe di
S.Pietro di Silki, per opera di Giuliano Bonazzi, diede occasione a Wilhelm
Meyer-Lübke di scrivere il suo saggio Zur Kenntniss des Altlogudoresischen
nella serie dei Sitzungsberichte der kaiserlichen Akademie der
Wissenschaften di Vienna.
La materia del saggio si distribuisce in un’introduzione e in quattro capitoli.
Il primo capitolo prende in esame la fonetica, in cui si affrontano il vocalismo
ed il consonantismo; il secondo capitolo si occupa della morfologia con
riferimento alla flessione e ai suffissi; il terzo capitolo esamina la sintassi e il
quarto la lessicologia, quindi i sostantivi, gli aggettivi, i verbi, gli avverbi, le
preposizioni e le congiunzioni.
Agli occhi della maggior parte dei suoi contemporanei, Meyer-Lübke non fu
semplicemente un romanista, ma l’incarnazione stessa della linguistica
romanza (Richter 1936:209).
Oggi le sue lacune sono più visibili: mancanza di supporto teorico,
conservatorismo metodologico, approccio meccanico verso i vari fenomeni
linguistici, innumerevoli errori nei dettagli, imperfetta padronanza pratica delle
lingue romanze, ecc (Malkiel 1977:581). Tuttavia, il contributo degli studi di
Meyer-Lübke segna il culmine della scuola Neogrammatica e della sua
influenza sulla filologia romanza.
PREMESSA
Lo statuto di Sassari dell�anno 1316, edito da Tola nel X� volume degli
Historiae Patriae Monumenta (Torino, 1861) e recentemente da P.E.
Guarnerio in Archivio Glottologico italiano, volume XIII 1-103, ha costituito,
sino ad ora, la nostra pi� ampia fonte di conoscenza del sardo antico; la sua
importanza fu gi� riconosciuta da N. Delius, il quale nel 1868, in una
dissertazione accademica dell�Universit� di Bonn, intitolata: Il dialetto sardo
del XIII� secolo, riun� ed evidenzi� una serie di caratteristiche linguistiche
molto importanti. La fonetica e la morfologia furono in seguito trattate con
approccio sistematico e conforme alle esigenze odierne, tenendo conto in
maniera esaustiva anche dei moderni dialetti, dalla dissertazione di G.
Hofmann, Die logudoresische und campidanesische Mundart (Strassburg,
1885), cui P.E. Guarnerio, op. cit., pp. 104-115, ha fornito delle aggiunte,
importanti anche per la descrizione degli aspetti lessicali.
Documenti provenienti da altre regioni e di et� anteriore sono, invece,
rari. Alcuni di questi, provenienti dal giudicato di Torres, probabilmente pi�
antichi, si ritrovano nell�Ortografia sarda, II, 85 sgg. dello stesso Spano e in
Tola, op. cit. Per la loro utilizzazione � necessaria tuttavia grande
circospezione perch� anche il Tola, pur essendo un editore di testi esperto e
attento, si � lasciato ingannare in qualche caso dai falsificatori. Autentica e
antica � una �carta sarda anteriore al 1086�, pubblicata ultimamente dal
Monaci, Crestomazia italiana de primi secoli I nr. 3; poi vi � una carta del
1173 ibidem nr. 8; una terza carta del 1212 ibidem nr. 16; infine, un�altra
importantissima scritta in lettere greche, pubblicata da Blancard e Wescher in
Biblioth�que de l��cole des chartes, vol. 35 (1874), pp. 255-257, cfr.
O.Schultz-Gora, Zs. XVIII 138-158, ove � passata al vaglio di una critica
profonda l�antichit� e l�autenticit� anche di altri documenti sardi antichi.
Negli ultimi tempi questi esigui materiali hanno avuto un assai
rilevante incremento. Gi� da tempo erano conosciuti degli estratti di una
raccolta di documenti logudoresi che non furono presi in considerazione n�
da Delius n� da Hofmann, n� da Schultz-Gora, essendo del resto troppo
piccoli per essere esaurienti. Ora per�, il tutto � pubblicato in un�eccellente
edizione con il titolo: Il Condaghe di San Pietro di Silki: Testo logudorese dei
secoli XI-XIII, pubblicato dal Dr. Giuliano Bonazzi, Sassari-Cagliari, 1900.
L�editore del testo logudorese, che � formato da 443 schede, a p. XLII,
osserva quanto segue sull�et� e sulla composizione dell�opera: �La
composizione attuale risale forse al secolo XIV, ma originariamente costituiva
diverse parti separate, vale a dire:
I. Tre quaderni dei quali mancando ora i primi due e la prima carta del
terzo, non si pu� dire cosa costituissero in origine. Forse erano frammenti e
carte disperse che non avendo trovato posto nei condaghi fatti rinnovare
dalla badessa Massimilla, furono ricopiati e messi in testa al codice quando
gli si diede la forma attuale di volume.
II. Copia del vecchio condaghe di S.Pietro, eseguita verso il 1150. Da
c. XXV
V
a LXXXVIII
V
presenta un carattere uniforme ed accurato, salvo
leggere sfumature di mano e d�inchiostro. A queste 64 carte, formanti otto
quaderni numerati progressivamente nel margine inferiore dell�ultimo foglio
per mano dello stesso copista, vanno aggiunte altre quattro carte, che nella
composizione attuale del volume sono state spostate dopo la c. CXV, forse
perch� si credette supplire alla c. CXVI mancante.
III. Copia del condaghe di S.Quirico de Sauren eseguita nello stesso
torno.
IV. Copia del condaghe di S.Maria di Codrongianos.
V. Nuovo condaghe di S.Pietro cominciato dalla badessa Massimilla
nel 1180, e protratto fin dopo la met� del secolo XIII. Da CVIII a CXXVI
V
la
scrittura � uniforme e accuratissima, da questo punto al fine variano
frequentemente le mani e le tinte, e talvolta la grafia � cos� affrettata e
negletta che presenta il carattere di registrazione originale�.
Conformemente al lungo periodo in cui si colloca la scrittura dei
documenti, si possono distinguere diversi scrivani; a tal proposito l�editore, p.
XLIV, osserva: �Il carattere della scrittura rivela molteplici mani nei secoli XII
e XIII, circa una trentina; ma le principali non sono che due, o se pi�, di una
grande affinit��. La diversit�, inoltre, non � solo calligrafica ma anche
ortografica; l�editore, p. XLV, osserva che lo scrivano delle schede 427 e 428
ha una predilezione per qu: cfr. Quoquone, qum, anquilla, quoiuvanthia,
biquaniu, Quotronianu, Querqui, Quoque accanto a Silchi, carta, coiuvanthia,
ecusta, cun, cuia, fekit, Comita, comporai, berbeki; lat. li � spesso reso come
i, solo 347-373 si presenta li, cfr. muliere filiu, filia ecc. Alternano anche th e
z e tz, cfr. p. XLV dell�edizione e al �17. In 441 e 442 spesso appare �m
anche a sproposito: per issa grathia de deum, fecherun servum de Ginithu
bonum, confessait cam fuit maritu suo, de toctu su cumbentum, armentariu
de sigillum, lassait unam fiia 441, fatho recordationem kam furun anchillas,
coiuvait cum servum 411, cos� come qui appare la forma latinizzante fornicait
al posto della forma pi� comune forricait 15.
Nel complesso, gli errori di scrittura sono rari ma non del tutto esclusi;
oltre ad alcuni gi� corretti dall�editore ed altri su cui si dovr� tornare pi� avanti
vorrei evidenziare: in Dominica mi desti a scu. Migali de Kerki, na in Janne
no nos desti 111, dove � da leggere ma anzich� na, ed et ego naraili ca
emmo, a bila posit et corte et domos et binia, in cui probabilmente � da porre
ca per a. Anche thancas kervinas kositas 222, kositas, significa, come indica
l�editore, �cotto�, non pu� essere altro che un errore di scrittura per kokitas
ecc.
Da p. 165 si pu� desumere che le ricchezze dei documenti linguistici
in sardo antico non sono ancora esaurite, e vi � solo da augurarsi che anche
quanto fino a adesso � rimasto inedito sia reso accessibile al pi� presto
possibile in maniera altrettanto inappuntabile. Anche per gli altri dialetti sardi
rimane ancora molto da fare; cos� meriterebbe un�analisi linguistica lo statuto
di Castelsardo, della fine del XIV o inizi del XV secolo, che � stato pubblicato
da E. Besta in Archivio Giuridico Serafini LXII, nuova serie III, pp. 305-332.
Particolarmente auspicabili sarebbero, com�� ovvio, antichi testi dal sud.
I. FONETICA.
a) Vocalismo
� 1. Le vocali toniche sono naturalmente rimaste invariate, visto che �
a parte alcune diversit� di suono riguardanti la e e la o che non compaiono
nella scrittura (Spano, Ortografia Sarda, I, p. 5, Rom. Gramm. I �81, 129),
fino ad oggi hanno conservato la loro forma latina. Soltanto au si �
trasformato in a; a tal proposito il nostro testo offre come attestazioni pi�
importanti casa 107, 351 da causa, paperu 34, 37 ecc. da pauperu, termine,
quest�ultimo, abbastanza singolare, usato per gli appartenenti alla famiglia
reale e il suo seguito, caso di cui l�editore riferisce in modo esauriente a p.
156. Secondo l�esempio di Ascoli (Arch. Glott. II 139) fino ad ora si � ritenuto
in generale che il dittongo au sia diventato a soltanto se seguito da una u,
altrimenti � rimasto invariato, perci� si tratterebbe di un fenomeno di
dissimilazione, cfr. Hofmann p. 25, Rom. Gramm. I � 288, Ital. Gramm. �102,
T. Zanardelli, Appunti lessicali e toponomastici, I, 16, solo che Hofmann si
esprime in maniera poco chiara quando definisce incondizionatamente la
derivazione di a da au, come �originaria sarda� e definisce immediatamente
dopo l�interpretazione di Ascoli come �degna di essere presa in
considerazione�. Il suo materiale gli offriva pacu paca, pasu, laru (lauru) e
trau (tauru), la sua posizione perci� � comprensibile. Di fronte agli esempi
del nostro testo, ogni dubbio scompare e non si esiter� a definire, fraude,
laude, pauso cos� come, cosa, frodu e via di seguito, come non ereditari.
D�altro canto ora si spiega quella a di cui Spano dice, Voc. sard.-it. p.1:
�riempitiva in principio di dimanda di chi interroga, e questa curiosa particola
svegliativa usasi in sardo in tutti i dialetti: a partis, a lu faghes, �partite, lo
fate?�. Anche in mezzo: amigu, a mi conservas un�anzone?�. Questa a, che
� molto usata come particella interrogativa nel rumeno e in italiano, vd. Rom.
Gramm. III, pp. 557-558., non � altro che il lat. aut. Un altro esempio �
kama, �calura di mezzogiorno�, che ora Nigra, Arch. glott. XV 483 riconduce a
cauma, premettendo tuttavia che bisognerebbe trovare altri esempi del
passaggio au>a, davanti ad a e quindi incondizionato, premessa ora
superata. Sorprende il sardo merid. izorrogu, �raucedine�, izorrogai,
�diventare rauco�, izorrogau, �rauco�, accanto a sarragai, log. surragare,
sarragare, sarragosu, �rauco�, sarragu, �raucedine�, anche il camp. arragai,
sass. surrag�. Nelle forme con la a radicale si riconosce facilmente
subraucare (subraucus � documentato) ovvero una formazione romanza
dall�aggettivo con il prefisso a, e ci� � stato riconosciuto anche dal Guarnerio,
Arch. glott. XIV 405 e Zanardelli op. cit. 15, per forme sa- con l�assimilazione
della vocale del prefisso alla vocale radicale
1
. Le forme in o mostrano
evidentemente l�assimilazione inversa. Da notare, infine, sono anche il log.
arrugire, arrugidu, arrugimentu, sardo settentr. arrug�, nei quali, giacch� au
non diventa u n� prima n� dopo l�accento, sono da considerare gi� una
forma latina, nella quale, secondo la regola latina, il dittongo au del verbo
nella formazione con prefisso diventa u (claudere - includere). Non si pu�
per� postulare come forma di partenza adrucire � giacch� il latino dagli
aggettivi con ad non forma ancora verbi in ire, ma utilizza in questi casi in �
ire bens� il documentato inraucire nella forma foneticamente pi� corretta
inrucire.
Il mutamento incondizionato di au in a non � presente soltanto nel
sardo, ma lo stesso processo si trova anche nel dialetto di SanFratello (Arch.
glott., VIII 309, 414, Rom. Gramm., I � 287) per� non in quelli di Nicosia
(Gregorio, Studi glott. it., I, 232) e di Piazza Armerina, dove si dice ok, pok,
povr (Roccella, Vocabolario della lingua parlata in Piazza Armerina), in una
1
Spano d� anche serragare, quindi dissimilazione di a-a ad e-a.
parte della Bassa Engadina e nella Val Monastero (Arch. glott., I, 235, 248,
Rom. Gramm. op. cit, Pult, Le parler de Sent, p. 60: le son provenant d�au
varie presque de village en village, Schuls a d�j� a, plus haut que Schuls on
trouve au et o) e nella Val Bregaglia (Zs. VIII 178). Non si pu� pensare ad
un collegamento di questi processi in zone cos� geograficamente lontane.
Morosi (Arch. glott., VIII, 414), solleva la questione se la a in San Fratello
non sia derivata da o, e, di fatto, si potr� rispondere affermativamente a
questa domanda. A San Fratello, infatti, la o antica, se non dittonga in uo,
diventa a, rimane invece o a Nicosia e a Piazza Armerina la corrispondenza
� quindi totale. Nella Val Monastero ecc., vi � invece quasi sicuramente una
riduzione piuttosto sicura di au in a, come nel sardo, eppure vi � una
diversit� nel fatto che pauca qui suona paga, l� paka, paka. Ci� significa
che, mentre sul continente e naturalmente anche a San Fratello, dove si dice
ugualmente paka, c rimane dopo au come nell�italiano, provenzale,
spagnolo, portoghese e non � trattata come una c intervocalica, nel sardo �
equiparata alla c intervocalica, come nel francese settentrionale; con altre
parole, in alcune zone; l�addolcimento della tenue � pi� antico e in altre zone
� pi� recente della monottongazione di au. Tuttavia si potrebbe confrontare
il sardo pagu paga al singolare toscano antico pogo poga (Ital. Gramm. p.
121), ma le forme succitate di raucus, mostrano in modo evidente che auc +
voc. e ac + voc. hanno lo stesso sviluppo. Purtroppo sembrano mancare
altri esempi giacch� occa, occa, �oca�, � sicuramente un prestito dal
continente e forme di fautus plauta e simili non si trovano in Spano e Porru.
Sorprendente e contraddittorio � attunzu, �autunno�, che, se considerato in
senso stretto, non dovrebbe comparire qui visto che si tratta di un au atono,
in questa sede per� � bene trattarlo a causa della consonante. La parola
presenta molteplici irregolarit�. Il latino mn diventa normalmente nn: donnu,
iscannu; la a derivata da au si pu� s� porre sullo stesso piano di quella del
latino agustus, ma a maggior ragione in tal caso ci si aspetterebbe ad�; - ma
anche se si vede in quella a uno sviluppo sardo corrispondente
all�evoluzione di au accentata - sviluppo per il quale Nigra op. cit. apporta
ulteriori esempi -, rimane pur sempre la domanda perch� la t non sia
diventata d e perch� mn sia diventata nz. Considerando che anche l�ital.
autunno e il franc. automne, non sono popolari e che nello spagn. oto�o con
� come due�a da domna, esca�o da scamnu l�esito di mn coincide con
quello di ny, che in sardo d� nz, cfr. spagn. vi�a, sardo binza, dal lat. Vinea,
non si esiter� a vedere nel sardo atunzu un�analogia dello spagnolo oto�o,
escludendo una diretta relazione di a-, in qualsiasi modo si sia formata, con il
lat.au.
Giacch� il mutamento di au in a si � gi� realizzato nei documenti
raccolti nel condaghe, rimane in dubbio se si possa vedere in lauros 19, 403,
lat. lauros, sardo mod. laros, �alloro�, e se Mabrikellu 79 rappresenta
Mauricellus, si tratta di pronuncia greca.
� 2. Come gi� detto non c�� nulla da osservare riguardo alle vocali e, i,
o, u. Tuttavia vorremmo qui parlare di due parole riguardo alle quali si pu�
essere in dubbio circa le vocali cui esse devono essere riferite, cio� i
rappresentanti del lat. ilex e dell� ital. puledro con la sua famiglia.
Il latino īlex appare come ilike 257, 430, 436, come elike 145, 186,
187, 311 tre volte. Spano registra il log. elige, camp. ili�i, e anche Porru d� il
camp. ili�i, mentre, secondo Guarnerio, Arch. glott. XIII 139, a Sassari � di
uso eli�i. Probabilmente in ili�i si presenta un�influenza siciliana testimoniata
altre volte dal sardo meridionale
2
, e non la conservazione del lat. ilex mentre
forme in i del nostro testo sono grafie latineggianti. Non si pu� pensare che
2
Avevo considerato, Rom. Gramm. I � 605, la forma del sardo meridionale figau come un
altro esempio di tale influsso e G.Paris si chiede ora il motivo di questa supposizione
(Miscellanea linguistica in onore di G.J. Ascoli, p. 55, 15). E� il seguente: gli altri dialetti sardi
richiedono f�catum, log. fidigu, gallur. figgadu. Eppure G.Paris op. cit p. 42 pone fig�u e visto
che Spano non segna alcun accento, si potrebbe rimanere nel dubbio, ma la forma
secondaria fietu risulta pi� comprensibile postulando l�accentazione della i piuttosto che
quella della a, visto che la a accentata nel gallurese non diventa e. Del resto,
ogni dubbio � dissipato dalle indicazioni precise di Guarnerio, Arch. glott. XIV 186, f�ggadu.
elige sia toscaneggiante, considerando l�et� antica del testo e il genere di
termini documentati (si tratta di toponimi), giacch� i pochi prestiti toscani (�
74) appartengono a ambiti concettuali completamente diversi. Ci� � di
grande importanza per la valutazione dell�ital. elce, prov. euze, franc. yeuse.
Negli ultimi anni, se non mi � sfuggito niente, sono stati fatti cinque tentativi
di conciliare la base romanza įlice con il latino īlice. D�Ovidio (Grundriss, I,
507) sostiene che �elce pu� essere stato influenzato gi� nel latino volgare
da sĭlice e fĭlice, le uniche parole nel latino e nell�italiano con le quali pu�
essere messo in relazione�. Naturalmente le forme sarde non gli erano
sconosciute, le nomina a nota, ma non d� ad esse nessun�importanza,
poich� �i dizionari sardi sono molto confusi�. Nei confronti del nostro testo
vengono a cadere, naturalmente, i dubbi sull�attendibilit� di Spano e la sua
stessa spiegazione. Altrettanto erronea appare anche la soluzione di J.
Ulrich che postula un ĭllex da īlex (Zs. XIX, 576), non solo per via della
vocale ma anche per via della consonante, giacch� ĭllice nel sardo dovrebbe
suonare id d ige. Una strada del tutto diversa l�ha intrapresa H. Suchier,
supponendo che alla base stia helice nel senso di ilice (Grundriss, I, 664).
Helix designa un tipo di edera, e bisognerebbe supporre quindi che il nome
del leccio sia stato mutato riprendendo quello di una pianta che si arrampica
su di esso. Se un tale cambiamento di significato non � del tutto impossibile
vista la grande somiglianza formale delle due parole, lo rendono per� poco
probabile tre fatti: 1) ilex � antico termine latino, mentre helix � un recente
prestito dal greco, cosicch� ci si potrebbe in realt� aspettare un�influenza
inversa. 2) Un tale collegamento di helix proprio con ĭlex, e non con altri tipi
di alberi, oppure di ilex con helix e non con altri tipi di edera non �
dimostrato; 3) le forme romanze: ẹlce, prov. euze hanno come base ẹlice,
mentre hĕlix avrebbe prodotto in un primo momento ęlice, ed effettivamente
secondo Mistral si trovano nel provenzale moderno uno accanto all�altro
ẹuze, �yeuse�, da įlex e ęuse, �lierre�, da hęlix. Si avvicina a una corretta
interpretazione F. Mohl, il quale pone come base ēlice, quindi la forma che
per il sardo � l�unica possibile. Ma ci� che dice riguardo alla relazione tra
*ēlex e īlex non ha fondamento. Nei suoi �tudes sur le lexique du latin
vulgaire, p.143 sgg. egli parla del mutamento del lat. ē in ī dovuto ad � i - e
scrive tra l�altro �l�explication est la m�me d�apr�s nous pour īlice, franc.
yeuse � c�t� de ēlice, toscan ẹlce, ital. du nord ẹlse, esp. encina, logudor.
ilighe et elighe, lequel prouve que le romanistes ont tort d�admettre dans ce
mot un simple abr�gement de ịlice en įlice W. Meyer-L�bke, Rom. Gramm. I
� 44; la racine nous para�t �tre la m�me que dans le slav. jedlĭ, �sapin g�ant�,
lat. ezlic-, ēlic- īlic�. E� opportuno innanzitutto fare alcune correzioni. Il
franc. yeuse o pi� precisamente la sua base nordprovenzale deriva da ẹlice
e non da ęlice, come avevo erroneamente ipotizzato in op. cit., poich� allora
non erano a mia conoscenza le forme provenzali moderne raccolte da
Mistral. La i deriva probabilmente da li euze, dove li � la forma femminile
dell�articolo (Rom. Gramm. II, p. 127). Inoltre si potr� dubitare della
correttezza o meglio della forza dimostrativa del sardo ilighe, giacch� Spano
lo d� solo nella prima parte e non nella seconda, e anche l� solo accanto ad
elighe e con esplicito rinvio a quest�ultimo. Alla fine � ascritta ai romanisti
una spiegazione che non � possibile leggere n� al punto citato n�, per quel
che ne so, da qualsiasi altra parte e che in ogni caso dopo i tre tentativi di
spiegazione qui presentati e un altro di cui si discuter� pi� avanti, sarebbero
dovuti essere attribuiti solo ai loro singoli autori. Che ĭlice di Gr�ber, Arch.
lat. lex. III 742, non implichi necessariamente ĭ, ma possa significare anche į
lo insegna lo stesso Gr�ber in op. cit. I 218, VIII 451. Ma anche contro
l�interpretazione di Mohl c�� parecchio da obiettare. Che dl nel latino diventi l
passando per zl � una tesi arbitraria, confutata in modo evidente da grallae,
lapillus ecc., cfr. Stolz, Hist gramm. I, p. 312, Lindsay, Die lat. Sprache p.
325, e per la quale non sar� possibile apportare degli esempi sicuri visto che
scālae si riferisce a scand-slae. Se dal punto di vista del latino si potrebbe
accettare edslec-, e se lo slav. jedlĭ potrebbe essere derivato da jedslĭ cos�
come črĭnŭ , �nero�, passando per *čirnu da čĭrsno, cfr. pruss. kirsna-, sanscr.
krs n � (Brugmann, Grundriss I
2
� 630), tuttavia il lit. egle, pruss. addle che
corrisponde allo slav. jedlĭ dimostrano che la forma base slavo-lettone
possedeva �dl- e non �dsl-. Anche il vocalismo d�altronde non � di semplice
trattazione, poich� accanto alla e delle parole lituane e slave il prussiano ha
a, cui corrisponde il pol. jodla e il lit. ėglius, �ontano�, che fa parte della
famiglia, mostra per� di nuovo un�altra vocale. Ma anche se si volesse
postulare una forma base ēlice dalla quale, attraverso la metafonia si sia
generata īlice, come filius da *fēlius e subtīlis da*subtelis, Mohl per� non si
pronuncia riguardo alla questione pi� importante, e cio� la derivazione della
forma delle lingue romanze che non ha subito il trattamento della metafonia.
E� vero che dice, p. 115, che anche il falisco mostri anch�esso questa
metafonia, �du moins filio est attest� un nombre consid�rable de fois par
l��pigraphique falisque sans un seul exemple de felio comme dans tant
d�autres r�gions de l�Italie�, queste molte zone si limitano per� a pochi casi:
sulle tavole umbre compare una volta feliuf, �quelli che succhiano�, una volta
filiuf, e in una iscrizione proveniente da Ostia (C. I. L. XIV 101), compare una
volta felius per filius. Si pu� evidenziare quindi che tutta la teoria della
metafonia nella concezione di Mohl non � attendibile. Con grande
attenzione F. Solmsen ha ricercato le condizioni necessarie per l�evoluzione
della ē in i nel latino, vd. Zs. f. vergl. Sprachf. XXIV 1-18, e anche se l�uno o
l�altro particolare dovr� essere modificato, in ogni modo � dimostrato alla
luce dei casi tramandatici, che *ēlex non pu� essere paragonato a nessuno
di questi casi. Quindi non rimane che un�ultima possibilit�. La forma base �
eilex, da cui il lat. īlex, umbro, volsco, peligno, marrucino *ēlex (cfr. v. Planta,
Grammatik der oskisch-umbrischen Dialekte, I, 144), cosicch� avremmo qui
una di quelle forme dialettali come speca e altre documentate da Varro, una
possibilit� che gi� d�Ovidio op.cit. aveva preso in considerazione, ma che
aveva fatto cadere giudicandola �meno probabile�. Per dimostrare
definitivamente questa teoria, ci manca la prova di forme dalle lingue
imparentate con il latino che rimandino a ei e non a ī, eppure per ora sembra
non sia stato trovata per īlex alcun altro testimonianza all�infuori dell�Italia.
Merita inoltre una particolare attenzione pulletru 155, 251, oggi
pud d edru. Tosc. polẹdro, pulẹdro, sicil. pud d itru, richiedono *pullįtru, come
Ascoli afferma Arch. glott. I 18, 1, in una nota che avrebbe meritato di essere
accolta da K�rting. A questo naturalmente non si pu� ricollegare il sardo
pud d edru ma a tutte e tre le forme basterebbe *pullẹtru. Accanto alle forme
suddette si trovano soprasilv. puliedr, ven. puliero, grigion. puleder, che
indussero Gr�ber, Arch. lat. lex IV 445, a porre come base pullętru, al quale
a sua volta corrisponderebbe il sardo pud d edru. Ascoli parla di una
�alterazione terziaria� in puliedr ma con ci� naturalmente non � detto nulla.
Nel Dictionaire g�n�ral viene posto *pullitrus. Schuchardt, �ber einige F�lle
bedingten Lautwandels p. 38 si limit� a dire che: �ē diventa ie in pulieder,
medio lat. pulletrus�, Huonder scrive, p. 38, in Der Vokalismus der Mundart
von Dissentis, che la ie di pulieder non pu� derivare da ẹ a meno che la
parola non sia stata importata tardi. Comune a tutti � quindi la base �e, Diez
e Ascoli ancora pi� precisamente pongono i, infatti il primo pensa al greco �
ίδιον e il secondo vi rimanda esplicitamente. Di opposto parere, J. Storm,
Rom V 181, che in un passo citato da Scheler nell�appendice a Diez, ma
stranamente non considerata da K�rting, ha pensato a *pullĕtra secondo
porcetra spiegando la doppia forma della vocale tonica col fatto che
*p�lletrus � diventato pull�trus attraverso p�llitrus, oppure �l�ĕ de pulletrus
pouvait, par effet de la position, devenir irr�guli�rement ouvert, puis prendre
l�accent et devenir ie en roman�, dove per� l�espressione �irr�guli�rement�
significa la rinuncia ad una spiegazione. Tuttavia mi pare che Storm abbia
imboccato la via giusta ma con gli strumenti degli anni �70 non poteva
spiegare ogni incogruenza.
I fatti che sono a disposizione per la spiegazione e che necessitano di
un chiarimento sono i seguenti.
Nelle lingue romanze abbiamo tre forme: ital. poltro, fr. poutre da
p�lliter, retorom.-ven. pulieder, puliedro, sardo pud d edru da pullętru, tosc.
pulẹdro, nap. pollitro, femm. polletra (Ambra), sicil. pud d itru, che rimandano
a pullįtru. Gr�ber definisce come prestiti dal francese lo spagn. potro e il
port. potro, Arch. lat. lex. IV 445, infatti, in analogia allo spagn. buitre, port.
abutre da vulture, ci si aspetterebbe piuttosto spagn.*puitro e il port.*putro
come � stato evidenziato in Rom. Gramm. I 480. Le tre forme romanze ora
possono essere riunite senza grosse difficolt�, se sul modello ager agri ecc.,
supponiamo per il periodo latino una flessione p�lliter p�lletri, fem. p�lletra,
cfr. funebris, da preferire al genetrix o tenebrae utilizzato da Storm, perch� in
queste ultime ci potrebbe essere un�assimilazione alla vocale accentata.
Giacch� secondo tonitus dove ci si aspettava *tonetrus � invece subentrato
tonitrus, o come *alicer ha generato *alicris (ital. allẹgro), cos�, accanto a
pullę́tru, secondo l�accentazione popolare, poteva subentrare pullįtru. Non si
riesce invece a collocare l�engad. puleder, puledra, poich� vetere compare
come veider, veidra, vitru come vaider, ma oggettivamente non si pu�
escludere che la parola derivi dalla Bassa Engadina, dove la e � corretta, cfr.
bassoengad. veder, vedra. � Per quanto queste spiegazioni riguardo alle
diverse e nel romanzo possano sembrare semplici, bisogna tuttavia indicare
anche una obiezione rilevante. Le forme sarde si allontanano da quelle
siciliane ad esse vicine e si uniscono con quelle dell�italiano del nord.
Secondo Guarnerio, Arch. glott. XIV 131 sg., accanto al log. pod d edru si
pongono il sass. puddrẹd d u da pud d eddru, che per� non dimostra nulla,
poich� attraverso la metatesi delle consonanti, � entrato nella classe delle
parole in �ellu, poi il gallur. pud d etru, che segue lo schema di darẹtu da
deretro (Arch. glott. XIII 137), mentre �itru sarebbe diventato itru, cfr. littara,
kaprittu e altri (Arch. glott. XIV 132); il corso pulletru, infine, non dimostra
niente poich� segue sia lo schema di vetru sia quello di deretu. Il log.
pud d edru e il gallur. pud d ẹtru invece si sostengono quindi reciprocamente e