4
Ho cercato di ricostruire una “cronotopografia” dell’attività italiana di Furtwängler nelle
quattro principali città in cui il direttore ha più frequentemente diretto. Ho scritto alla
vedova del direttore, per avere ulteriori indicazioni sulle date dei concerti; mi ha risposto,
lieta per questo mio lavoro, fornendomi preziose informazioni. Per un’ulteriore verifica e
per un approfondimento dell’intera attività musicale e direttoriale del direttore tedesco,
fondamentali si sono rivelate la concertografia e la discografia, a cura di René Trémine,
pubblicate dalle francesi edizioni Tahra.
Furtwängler è stato tra l’altro anche a Genova, Bologna, Venezia, Trieste e Napoli, ho
però voluto soffermare la mia attenzione su Milano, Torino, Firenze e Roma; mi è infatti
sembrato che in queste ultime quattro città il direttore abbia concentrato più intensamente e
con opere altamente significative la sua attività italiana: oltre ai numerosi concerti svolti in
ciascuna città, Roma e Torino hanno visto la collaborazione intensa e produttiva con la RAI,
Milano con la Scala è stata sede della rappresentazione dei principali drammi wagneriani, il
Maggio Musicale di Firenze accolse nel 1939 l’unica Passione secondo san Matteo
realizzata da Furtwängler in Italia.
Per la stesura, mi è sembrato opportuno far precedere la trattazione analitica dell’attività
concertistica e operistica, da un capitolo di analisi della tradizione tedesca nella direzione
d’orchestra, seguito da una presentazione del Furtwängler musicista e direttore.
Per il primo capitolo ho cercato di tracciare le linee storiche e descrivere le più importanti
personalità attraverso cui si è giunti alla moderna direzione, riferendomi all’area
austrotedesca. Ho preso come guida il libro di Andrea Della Corte L’interpretazione
musicale e gli interpreti del 1951, importante per la trattazione analitica della direzione
d’orchestra dalle origini fino alla metà del Novecento e fondamentale per l’abbondanza
delle testimonianze citate dall’autore altrimenti difficilmente reperibili. All’opera del Della
Corte ho affiancato il più moderno lavoro di Michelangelo Zurletti La Direzione
d’Orchestra (1985), altrettanto utile per l’analisi dei “pionieri” della moderna direzione. Ho
fatto anche uso del Dizionario Enciclopedico della Musica e dei Musicisti (DEUMM) della
UTET.
5
Nell’illustrare i principi estetici del “musicista e direttore”, mi sono valso degli scritti del
Maestro, iniziando dai Dialoghi sulla musica, ho proseguito attingendo abbondantemente
dalla raccolta di saggi Suono e Parola, dai Quaderni e dal Ricordo di Furtwängler di
Elisabeth Furtwängler. Allo scopo si sono rivelati inaspettatamente utili i “libretti”
esplicativi del materiale discografico, nonché alcuni documenti visivi che hanno integrato
efficacemente con testimonianze e riflessioni molti aspetti già delineati da Furtwängler
stesso.
Nell’analisi dell’attività concertistica e operistica, i temi trattati organicamente nel
capitolo apposito sono emersi anche nelle recensioni dei quotidiani e dei settimanali, nonché
in alcune riviste musicali: in modo particolare faccio riferimento al Quinto Concerto
Brandeburghese presentato nella tournée con la Filarmonica di Berlino nel 1941. La critica
in questo senso oltrepassa la semplice recensione giornalistica e interessa più direttamente il
problema della realizzazione moderna delle musiche antiche; al riguardo gli interventi di
Andrea Della Corte sono significativi di una posizione per certi versi opposta a quella di
Furtwängler, l’una “storicistica”, l’altra “ non dichiaratamente tale”. Ho cercato di registrare
e testimoniare queste due posizioni, consapevole dei limiti imposti al presente lavoro, che
non si propone come specifico studio d’estetica musicale e interpretativa.
Per la parte “cronistorica”, indispensabili sono state le consultazioni dei quotidiani e
settimanali nelle emeroteche delle varie città, oltre che delle riviste musicali specializzate
dell’epoca (Rivista Musicale e Rassegna Musicale); prezioso in modo particolare per le
registrazioni di Furtwängler, il libro di John Ardoin, The Furtwängler Record. Ho cercato di
fornire testimonianze le più ampie possibili sul programma dei vari avvenimenti artistici,
indicandone i nomi degli interpreti e dei solisti, il luogo e, quando è stato possibile, anche
l’ora. Nel riferire le recensioni ho dato conto non solo di quelle “del giorno dopo”, ma anche
degli articoli che, talvolta, nei vari quotidiani “preparano” l’arrivo del direttore, sia come
ospite dell’istituzione musicale locale o più spesso alla testa della Filarmonica berlinese.
Infine non ho trascurato di riportare contributi posteriori anche di alcuni anni, come ad
esempio quello di Giorgio Vigolo del 1959 sulla Settima Sinfonia di Bruckner eseguita a
Roma nel 1951.
6
Per concludere, ho preferito dare il massimo spazio ai testimoni diretti, che nei quotidiani
e nei periodici commentarono gli eventi musicali di cui furono partecipi e spettatori; a
distanza di tanti anni e in quasi assoluta mancanza di documenti sonori (almeno fino al
1950), queste testimonianze si rivelano indispensabili per avere un quadro generale dei
giudizi e delle impressioni suscitate in Italia da Furtwängler e dalle sue interpretazioni, in un
arco di tempo superiore ai trent’anni.
Sono stati rilevati particolarmente i commenti e le osservazioni che, in modo più o meno
cosciente, hanno colto di Furtwängler lo stile direttoriale, interpretativo e quindi estetico.
7
LA SCUOLA TEDESCA
NELLA DIREZIONE D’ORCHESTRA
La direzione d’orchestra come la conosciamo noi oggi nasce al principio del secolo
scorso, quando per l’esecuzione di sinfonie e di opere teatrali piuttosto articolate nella
struttura e nella strumentazione, viene avvertita la crescente necessità nell’ambito
dell’orchestra di un musicista che, abbandonato il suo strumento, fosse preposto unicamente
alla coordinazione dell’esecuzione.
L’esigenza di disporre, coordinare e disciplinare il complesso degli strumentisti e/o dei
cantanti prima e durante un concerto o una rappresentazione teatrale, era sorta ben prima
dell’epoca romantica: nell’antica Grecia era il corifeo a guidare i cori della tragedia
scandendo pesantemente il ritmo col passo, in epoca medievale il primicerio indicava con i
gesti della mano le curve della melopea, tenendo unite le voci della SCHOLA CANTORUM
nell’esecuzione del Canto Gregoriano.
Nel Rinascimento, complessi corali e concerti strumentali erano abitualmente guidati da
un præcentor o da un maestro dei concerti (detti nei paesi tedeschi koncertmeister) per
mezzo di movimenti della mano, da percussioni date con una verga sul leggio o sul
pavimento col piede o col bastone. E c’era persino chi usava un fazzoletto fissato in cima ad
un’asta, chi una chiave e chi batteva le mani
1
.
Battuta rumorosa e battuta silenziosa: contro la prima si scagliarono per almeno tre secoli
teorici e musicisti indignati per questa pratica così barbara; è noto che Jean Baptiste Lully
nel 1687, dirigendo con un bastone si colpì il piede che per una cancrena in due mesi lo
portò alla morte. Se l’uso del bastone in Francia rimase in vigore per tutto il Settecento,
nonostante le vibranti proteste di personaggi come J. J. Rousseau, in Italia e in altri paesi
europei le cose non andavano meglio e si dovrà aspettare l’Ottocento inoltrato perché l’uso
della bacchetta si affermi definitivamente in tutta Europa.
1
A. Della Corte, L’interpretazione musicale e gli interpreti, Torino, UTET 1951, pag. 76.
8
In epoca barocca la necessità di armonizzare il basso continuo determinò l’inclusione di
un clavicembalo nell’orchestra, il maestro al cembalo quindi in forza della sua
responsabilità nell’armonia assunse anche la funzione di direttore stando alla tastiera; d’altra
parte la crescente importanza acquisita dagli strumenti ad arco evidenziò la figura del primo
violino. Ecco dunque entrare in uso la doppia direzione che vedeva il maestro al cembalo
attento all’insieme dell’esecuzione con particolare riguardo alla parte vocale, il primo
violino vigile sugli strumentisti.
In Francia il primo violino finì col prevalere in questa funzione “protodirettoriale”,
accennando con l’archetto agli attacchi degli strumentisti e di tanto in tanto alla battuta;
negli altri paesi europei le maggiori responsabilità si concentrarono sul maestro al cembalo
(spesso coincidente col compositore), incaricato di armonizzare il basso continuo, di
coordinare i vari attacchi, nonché di sostenere durante i melodrammi i cantanti nei recitativi
secchi, sempre facendo parte integrante dell’esecuzione.
Al Teatro alla Scala fino alla metà dell’Ottocento vengono distinti il capo d’orchestra e
primo violino per l’opera o per i balli e il maestro al cembalo, l’ultimo dei quali (un certo
Cesare Domeniceti) viene sostituito assieme al primo violino (Eugenio Cavallini) nel 1854
dal Maestro Concertatore e Direttore per le Opere, Alberto Mazzucato
2
.
Per rimanere ai due massimi compositori del secondo Settecento, F. J. Haydn diresse le
sue Sinfonie Londinesi (1795) seguendo un’orchestra di una settantina di elementi al
cembalo, pur non essendo stata scritta nessuna parte per questo strumento. W. A. Mozart
dirigeva alla tastiera opere, sinfonie, concerti per pianoforte che lo vedevano nella duplice
veste di direttore e di solista.
La prassi di dirigere suonando si spense - ma mai del tutto e ovunque - con la prima metà
del secolo XIX; nel Novecento però abbiamo casi, certamente episodici ma curiosi e in
qualche modo significativi, di direttori che nelle esecuzioni sostengono anche la parte
solistica. L’elenco dei direttori - interpreti (anche occasionali) sarebbe molto lungo, ma vale
la pena di fare alcuni esempi: Bruno Walter direttore e pianista dei concerti mozartiani
(anche su disco per il K. 466), D. Mitropoulos versatile sia come direttore che come pianista
(da Bach a Prokofiev e Kreňek), W. Furtwängler alla tastiera per il Quinto Concerto
Brandeburghese e per altri concerti bachiani e mozartiani, A. Busch, primo violino e
2
Giampiero Tintori, Cronologia della Scala: opere balletti concerti 1778 - 1977, Grafica Gutemberg, Gorle, Bergamo 1978.
9
direttore degli “Adolph Busch Chamber Player”, G. Anda pianista e direttore dell’Orchestra
da Camera del Mozarteum di Salisburgo con la quale ha inciso l’integrale dei Concerti di
Mozart, I MUSICI, fondati nel 1952 e sotto la direzione del primo violino dediti al repertorio
barocco italiano.
In tempi più recenti, caratterizzati da recuperi filologici e edizioni originali, R. Goebel è
il “koncertmeister” del complesso di sua fondazione MUSICA ANTIQUA KÖLN, K. Richter
suona la parte del cembalo dirigendo il Quinto Brandeburghese, poi J. E. Gardiner,
T. Koopman, D. Baremboin, T. Pinnock con repertori diversi ma compresi tra la seconda
metà del Seicento e la prima dell’Ottocento si uniscono volentieri all’orchestra
nell’esecuzione. Chiudo questa rassegna con un caso che ripropone la doppia direzione: le
Sinfonie K. 550 e K. 551 vengono proposte dalla ACADEMY OF ANCIENT MUSIC su
strumenti originali (e con tutti i ritornelli ripetuti), sotto la direzione del primo violino Jaap
Schröder con l’accompagnamento di Christopher Hogwood che al fortepiano realizza il
basso continuo.
Entro la prima metà dell’Ottocento dunque, alla figura del primo violino e a quella del
maestro al cembalo (spesso anche compositore e quindi presentatore di opere proprie) venne
gradatamente sostituendosi quella del maestro concertatore di opere proprie e/o altrui, il
quale senza suonare alcun strumento fosse totalmente impegnato nella direzione
dell’orchestra, in modo assai simile a come noi oggi intendiamo tale attività. Durante questo
secolo vediamo la figura del compositore e del direttore iniziare a differenziarsi: se
numerosi sono ancora i compositori-direttori (e ancora fino nel Novecento, con G. Mahler e
R. Strauss), altri musicisti non si impegnano direttamente nella presentazione delle loro
opere - e spesso quando lo fanno rivelano la loro inadeguatezza come direttori anche
(e soprattutto) di se stessi - affidandola a direttori di professione (e magari anche
compositori occasionali) quasi totalmente dediti alla concertazione ed esecuzione di opere
altrui.
Per avviare un discorso sulla moderna direzione, non è possibile prescindere da chi non
dimostrò che scarse doti per questa attività ma scrisse composizioni tali per cui si rese
necessaria una guida agli strumentisti: Ludwig van Beethoven.
10
Il compositore tedesco diede un grande sviluppo alla scrittura sinfonica e corale (le
Sinfonie, le Ouvertures, la Missa Solemnis) di una tale ricchezza e complessità formale e
strutturale, per cui la direzione di opere come la “Pastorale” o addirittura la “Corale”
difficilmente sarebbero state alla portata di un primo violino o maestro al cembalo, se non
altro per l’accresciuto numero di orchestrali. L’esecuzione di tali opere richiedevano al
direttore una maggior coscienza e responsabilità nella concertazione durante le prove e nella
guida durante l’esecuzione.
Parlare diffusamente del Beethoven direttore comporterebbe il cadere in una serie di tristi
aneddoti, basti sapere che la sua inadeguatezza al compito (aggravata con gli anni dalla
crescente sordità) non lo dissuase dal dirigere in prima esecuzione tutte le sue sinfonie, fino
all’ultima sua apparizione in pubblico nel 1824 al Teatro di Porta Carinzia a Vienna, per la
presentazione della Nona Sinfonia e di alcuni brani della Missa: mentre il compositore
gesticolava, gli orchestrali seguivano il primo violino Joseph Böhm
3
.
Di ben altra tempra e di maggiori doti si rivelò il marchigiano Gaspare Spontini il quale,
nato nel 1774 e morto nel 1851 a Maiolati, nei pressi di Ancona, si guadagna a buon diritto
un posto nella tradizione tedesca della direzione d’orchestra per aver operato per oltre
vent’anni nei paesi germanici. Dal 1803 al 1820 a Parigi e dal 1820 al 1840 a Berlino come
Generalmusikdirector su invito del re di Prussia Federico Guglielmo III, fu direttore di
opere sue e altrui, cogliendo molti successi e anche diversi dissensi. Accanto alle sue
principali e più famose opere (Vestale e Fernando Cortez), che a Parigi avevano goduto di
alti consensi presentò sulle scene tedesche Mozart (soprattutto il Don Giovanni), Rossini,
Gluck, Bellini e altri contemporanei. Nei concerti presentò oratori di Händel e Haydn e
pagine sinfoniche di Beethoven. Di carattere tutt’altro che conciliante, anzi prepotente,
vanitoso e superbo non ebbe vita facile a Berlino, ma riuscì a fornire esecuzioni di notevole
accuratezza e spessore, mirando alla fusione dell’elemento vocale con quello strumentale
finalizzato ad un esito drammatico che fosse il più efficace possibile, guadagnandosi a poco
a poco i favori del pubblico e dei musicisti.
3
A. Della Corte, op. cit., pag. 93.
11
Wagner, grande ammiratore dell’artista italiano, lo ricorda a Dresda durante la
concertazione della Vestale. Spontini gli chiese “una bacchetta d’ebano, di lunghezza e
grossezza inusitate...aggiungendo che ai due capi dovevano essere infisse due palle
d’avorio.” Il giorno dopo Spontini “prese il bastone...non lo teneva per un’estremità, ma
l’impugnava quasi a mezzo, e l’agitava in tal modo che evidentemente quello era per lui
come un bastone da maresciallo, buono non per battere il tempo, ma per comandare...”
Trapela, nei ricordi del giovane, Richard una grande ammirazione per la “straordinaria
energia colla quale il musicista italiano cercava e manteneva nell’arte teatrale una dignità
quasi dimenticata.”
4
In effetti con Spontini ci troviamo di fronte a una grande personalità, un po’ eccentrica e
bizzarra, ma pienamente consapevole e capace di svolgere il compito affidatogli, tra il quale
l’organizzazione e la direzione di opere e concerti. In questo senso troviamo una figura
analoga nel compositore tedesco Carl Maria von Weber.
Nato nei pressi di Lubecca nel 1786 e lontano parente della moglie di Mozart, Costanze
Weber, all’attività compositiva e pianistica affiancò quella direttoriale, molto spesso
favorendo la presentazione di opere altrui a scapito delle proprie. I suoi interessi, sia come
compositore sia come direttore, gravitavano attorno al teatro di cui si occupò con notevole
consapevolezza e dedizione, chiedendo per le rappresentazioni piena responsabilità per la
concertazione strumentale e vocale e per la messa in scena; fece quindi secondo le necessità
le funzioni di direttore, regista e scenografo senza trascurare l’orchestra, ma anzi
disponendone in modo innovativo gli strumentisti, ampliandone il numero e richiedendo un
numero elevato di prove.
Operò nei teatri di numerose città della Germania, passando anche a Breslavia, a Praga e
a Dresda e inscenò Mozart, Spontini, Cherubini, Salieri, Päer, Boïldieu, Dittersdorf, Gretry,
Mèhul, fornendo egli stesso al pubblico guide introduttive alle varie rappresentazioni. Non
sempre la sua inesausta attività fu fonte di successo, ma rivendicò che “un tedesco
concepisce tutto più profondamente, vuole un’opera d’arte di cui tutte le parti si assommino
in un bel tutto.”
5
4
R. Wagner, Erinnerungen an Spontini, riportato in A. Della Corte, op. cit., pag. 98.
5
A. Della Corte, op. cit., pag. 106 e 107.
12
Sotto la sua bacchetta (in senso letterale), l’orchestra risultava ammirabile per le
sfumature e per la precisione degli stacchi. Alla sua morte avvenuta a Londra nel 1826, fu
salutato da alcuni con ammirazione, da altri con ironia come “generalissimus”, ma tutti
riconobbero in lui la profonda coscienza della sua missione e l’ardore romantico con cui la
portò avanti. La rivista CAECILIA sintetizzò così la sua opera: “Weber suonava l’orchestra
come un virtuoso suona il proprio strumento.”
6
Una similitudine destinata a parecchia
fortuna.
Con Ludwig Spohr (Braunschweig, 1784-Kassel, 1859) ci troviamo davanti al terzo dei
grandi direttori - pionieri della generazione di Beethoven. Compositore di una decina di
lavori teatrali, di nove sinfonie, di concerti e di musica da camera, concertista e violinista
infaticabile, si giovò nella pratica direttoriale di notevoli competenze professionali e di una
grande cultura musicale. Al servizio della corte dei Gotha dal 1805 al 1812, direttore
dell’orchestra del Theater an der Wien dal 1812 e dell’Opera di Francoforte dal 1817, nel
1822 si stabilì definitivamente a Kassel senza rinunciare a viaggiare in altri paesi europei.
Direttore di composizioni proprie e altrui (Haydn, Mozart, Beethoven), in tarda età si
fece sostenitore di Wagner concertandone a Dresda nel 1843 l’Olandese Volante e nel 1853
il Tannhäuser, di queste esecuzioni Wagner si dimostrò a Spohr contentissimo e assai grato.
Ovunque fu apprezzato il suo atteggiamento deciso e lodate la sua precisione e la giusta
severità con i collaboratori, le esecuzioni erano caratterizzate da tenerezza, calore, grande
esattezza e bel suono.
A Spohr viene attribuita l’introduzione della bacchetta nella direzione; nella sua
Autobiografia racconta che, invitato nel 1820 a Londra dalla Philharmonic Society, durante
la concertazione di una sua sinfonia chiese al pianista Ferdinand Ries di cedergli la
partitura, fece sistemare un leggio davanti all’orchestra e diede l’attacco con una bacchetta.
Subito ci furono proteste tra gli orchestrali, che però poi constatarono in prima persona i
benefici e i risultati qualitativamente superiori e accettarono l’innovazione dichiarandosene
soddisfatti. Stessa reazione prima di stupore e di diffidenza poi di apprezzamento da parte
del pubblico, che ammirò la coesione e l’ordine dell’esecuzione
7
.
6
A. Della Corte, op. cit., pag. 110.
7
P. Ardoin, The Furtwängler Record, Amadeus Press, Portland, Oregon 1994, pagg. 15 e 16 (ho riassunto la lunga testimonianza
riportata anche da Andrea Della Corte, op. cit.)
13
Furono necessari comunque alcuni decenni perché l’uso della bacchetta si affermasse
definitivamente; ancora nel 1878 E. M. E. Delverez nella sua opera L’art du chef
d’orchestre, distingue casi in cui è preferibile l’uso dell’archetto e quelli per cui è meglio la
bacchetta.
Con Spontini, Weber e Spohr si ha la prima presa di coscienza della moderna direzione,
la quale fu favorita oltre che dall’arricchimento della scrittura sinfonica, dalle mutate
condizioni del consumo musicale, prima focalizzato principalmente su opere attuali o al
massimo risalenti alla generazione precedente. La nuova coscienza storica del
Romanticismo, estendendo i suoi interessi verso i valori e le opere del passato consacrate
d’ora in poi come “classici” della cultura e dell’esperienza esecutiva, comporta problemi di
lettura di opere antiche, talvolta necessitanti non solo di un batteur de mesure ma anche di
un interprete capace di integrazioni, trascrizioni, revisioni per edizioni moderne.
Di importanza assai maggiore e decisiva per la direzione dell’Ottocento e di buona parte
del Novecento, è la lezione di Felix Mendelssohn-Bartholdy. Nato ad Amburgo nel 1809,
morì a Lipsia nel 1847 a soli 39 anni d’età. Dopo aver ricoperto per due anni la carica di
Musikdirector a Düsseldorf nel 1835, accettò la direzione del Gewandhaus di Lipsia
riuscendo a portarne l’orchestra a ottimi livelli.
Nella sua breve vita studiò attentamente le opere dei classici: Haydn, Mozart, Beethoven
e di Bach riesumò la Passione secondo San Matteo (11 marzo 1829) nel centenario della
prima esecuzione a Lipsia, senza trascurare i contemporanei (Cherubini, Schubert,
Schumann e Lachner tra gli altri). Caratteristiche della sua direzione erano l’esattezza
ritmica, la ricerca della perfezione formale volta ad un’esecuzione precisa, pulita, asciutta e
nitida; secondo le cronache e rispetto alle usanze del tempo proponeva tempi piuttosto
veloci (a parere di Wagner, a Mendelssohn ostile, per nascondere le inesattezze
dell’esecuzione). Questi aspetti del suo fare musica lo collocano in una dimensione
apollinea dell’arte (e Toscanini, pur amando e tenendo in alta considerazione il Wagner
compositore e saggista dell’Arte del Dirigere, può essere ricondotto al magistero
mendelssohniano).
Il polo dionisiaco venne incarnato proprio da Richard Wagner che si occupò di
direzione per una trentina d’anni, in cui diresse soprattutto opere altrui (classici e
contemporanei per opere e concerti) peregrinando per tutta Europa: da Würzburg a
14
Magdeburgo a Könisberg a Riga a Dresda ove rimase per sette anni (1843-1847) e dove
fece amicizia con Franz Liszt, che diresse poi a Weimar la prima del Lohengrin (1850). In
seguito altri viaggi e peripezie fino a Monaco, dove nel 1864 riuscì a guadagnarsi la stima e
la protezione del re di Baviera, Luigi II di Wittelsbach. Autore del saggio L’Arte del
dirigere, si fece convinto assertore della professionalità assoluta della direzione, per questo
lasciò a direttori professionisti la presentazione di alcune tra le sue più importanti opere: a
Monaco il Tristano (1865) e i Maestri Cantori (1868) a von Bulow, a Bayreuth la
Tetralogia (1876) a Richter e il Parsifal (1882) a Levi.
Di temperamento impaziente e autoritario, richiamava gli orchestrali alla disciplina con
una certa violenza, i contemporanei parlano del suo sguardo penetrante e dell’espressività di
tutto il corpo. Non era in grado di suonare bene alcuno strumento (in questo affine a
Berlioz), ma cominciò ad interessarsi precocemente all’orchestra e ai timbri strumentali,
riuscendo a far eseguire al Gewandhaus di Lipsia una sua ouverture giovanile. A Parigi
apprezzò immensamente l’esecuzione della Nona di Beethoven diretta (dopo una
concertazione durata tre anni) da Habeneck, gli risultò “chiara come il sole, tanto da
toccarla colle mani.”
8
Egli stesso diresse questa sinfonia a Dresda dopo numerose prove in
cui segnò di persona nelle varie parti degli strumentisti le varie sfumature, riuscendo ad
ottenere dall’orchestra “un’esecuzione espressiva” cui seguì un grande ed imponente
successo
9
.
Gli riuscì di acquisire - e ne fu cosciente - ottime capacità direttoriali, la seguente
testimonianza da sola è in grado di rivelare il suo sovrano dominio non solo sulla partitura
ma anche sull’orchestra, tanto più forte e penetrante quanto meno avvertito dagli orchestrali:
il flautista Fürstenau riferì a Weingartner che durante le prove dell’Oro del Reno, “egli e i
componenti l’orchestra diretta da Wagner avevano spesso avuto la sensazione di non essere
guidati. Ciascuno sentiva di esprimere in libertà il proprio sentimento e tuttavia la fusione
era perfetta. La potente volontà del capo s’era trasfusa, persuasiva, nei singoli suonatori.
Tutto riusciva facile e bello; un grande godimento.”
10
8
A. Della Corte, op. cit., pag. 144.
9
A. Della Corte, op. cit., pag. 145.
10
A. Della Corte, op. cit., pag. 148.
15
Prosecutore di Weber tanto nella direzione che nella composizione (soprattutto per la
funzione strutturale e drammatica assunta dalla sonorità orchestrale), fu molto attento alla
fedeltà dei testi, correggendo tradizioni esecutive sbagliate anche se di grande effetto;
intervenne però talvolta nella strumentazione e nell’armonizzazione di autori come Gluck,
Mozart e Beethoven. Si occupò della regia e della scenografia delle proprie opere, curando
anche un saggio sull’esecuzione del Tannhäuser destinato ai vari Kapellmeister, al regista e
agli interpreti principali che avessero chiesto la partitura dell’opera, ma tanta cura non fu
premiata da altrettanta attenzione da parte dei teatri.
Pur non occupandosi più in prima persona della direzione d’orchestra, dal 1865 col
Tristano si dedicò attivamente alle rappresentazioni mirando, anche attraverso saggi e
scritti, alla coesione tra MUSICA, PAROLA E AZIONE: voleva nell’interprete in primo luogo
l’attore poi il cantante che avrebbe dovuto preventivamente assicurarsi la comprensione del
testo, condizione imprescindibile per accostarsi poi alla musica e al canto. Si lamentava,
infatti, che “i cantanti hanno l’abitudine di occuparsi del come prima di conoscere in che
cosa consista la propria parte…Non capiscono che devono diventare interpreti prima di
passare all’espressione del discorso che la musica esalta”, e continuava dicendo che, se il
cantante dopo la lettura del soggetto non avesse sentito affinità con esso, avrebbe fatto bene
a rinunciare alla rappresentazione
11
.
Nell’Arte del dirigere afferma che soltanto l'intima comprensione del melos dà l’esatto
ritmo, i due elementi sono inseparabili e l’uno è condizione assoluta dell’altro, è dovere del
direttore cercare il melos, cioè l’animo e l’intimo spirito di un pezzo attraverso l’attento
studio della partitura per comprendere il giusto tempo. Come il suo futuro suocero Franz
Liszt, il quale fu anche direttore della cappella di corte a Weimar dal 1847, si dimostrò più
attento alla frase musicale che alla misura, cercando le ragioni ultime e i più profondi
significati al di là delle note e dando rilievo ai periodi, agli accenti e alle sfumature
melodiche e ritmiche. Tra i due artisti si rivelò una tale affinità di sensibilità che Wagner,
nella Comunicazione ai miei amici (1851), esaltò la perfetta comprensione da parte
dell’amico delle sue composizioni così esprimendosi: “ciò che sentii nel comporre egli lo
11
M. Zurletti, La direzione d’orchestra, Ricordi / Giunti Martello 1985, pag. 110.
16
sentì nell’eseguire, ciò che volli dire nello scrivere egli lo disse nell’intonare.”
12
In
entrambi dunque nell’analisi delle partiture veniva privilegiata un’analisi “orizzontale” e
non “verticale”, analisi che permettesse di rivivere quasi ricreando la composizione da
dirigere. Al rigore ritmico di Mendelssohn corrispondeva in Wagner l’uso del rubato
(“sempre tempo rubato” notava Berlioz a proposito delle sue esecuzioni), ispirato
certamente dal rubato pianistico tipico dell’epoca romantica e in modo particolare di Chopin
e Liszt.
Ecco dunque affacciarsi con Mendelssohn e Wagner per la direzione ed interpretazione
due scuole antitetiche, su fronti opposti nei confronti dei testi: per il primo un approccio
“oggettivo” che vede nel direttore un umile servitore del testo, per il secondo un
atteggiamento “soggettivo” in cui l’interprete è anche un ricreatore del testo. Per Wagner, i
tempi erano frutto di una libertà espressiva basata sulla reazione emozionale ad un pezzo
musicale e sulla risposta intellettuale alle sue implicazioni armoniche e melodiche. Ad
esempio per la Quinta di Beethoven, Wagner voleva pause terribili, capaci di arrestare le
onde dell’oceano ma senza che il fondale si vedesse, di fermare le nuvole in cielo, voleva le
famose note del Destino che bussa alla porta, “lunghe, improvvise e sostenute.”
13
Parole
stravaganti, ma non del tutto improbabili per Beethoven, conoscendo poi dagli scritti del suo
allievo Anton Schindler l’uso del rubato fatto dal musicista e l’importanza delle pause,
sentite come cesure indispensabili per il ritmo del discorso musicale.
Alcuni trovavano le interpretazioni di Wagner un insieme di esagerazioni, di sforzandi
eccessivi e ingiustificati rallentandi, per il critico Eduard Hanslick il musicista aveva aperto
la porta ad insopportabili arbitrarietà per cui si sarebbero avute molto presto sinfonie non
più di Beethoven, ma dalle partiture di quest’ultimo liberamente adattate.
Per la tradizione tedesca l’importanza di Wagner, per il quale la cultura tedesca era
superiore ad ogni altra e la missione del direttore era di proteggerla e di diffonderla, fu
decisiva, il suo esempio e le sue idee formarono una generazione di direttori e di
compositori. Durante e dopo la vita di Wagner, una serie di direttori non compositori che
12
A. Della Corte, op. cit., pag. 159.
13
P. Ardoin, op. cit., pag. 21.
17
lavorarono con lui e che ebbero l’incarico di concertare e dirigere le opere del Maestro,
continuarono la linea “dionisiaca”, che come una sorta di albero genealogico si arricchì, tra i
due secoli, di una figura di prima importanza come Arthur Nikisch e, nel Novecento, con il
successore ed erede delle cariche e dell’arte di quest’ultimo: Wilhelm Furtwängler.
Hans Richter (Raab, Ungheria 1843 - Bayreuth 1916) fu il primo direttore dell’Anello a
Bayreuth nel 1876, ma anche grande amico del Maestro; fu suo testimone per le nozze con
Cosima Liszt (ex-signora von Bulow) e suonò la tromba nella prima esecuzione dell’Idillio
di Sigfrido. Contrariamente a Wagner, Richter badava soprattutto all’orchestra su cui
sorvegliava vigile e attento, forte di una profonda conoscenza della partitura e di un’esatta
comprensione del melos. Per comprendere la grandezza dell’interprete una testimonianza di
Furtwängler è particolarmente illuminante: “Rammento ancora - disse in un incontro con gli
studenti berlinesi della Hochschule für Music nel 1951 - una rappresentazione del 1912,
senza dubbio la più bella esecuzione wagneriana che io abbia mai udito. Erano i Maestri
Cantori a Bayreuth ancora sotto la direzione di Hans Richter. L’impressione fu tale che non
si avvertiva di essere al cospetto di un’opera. Si aveva la sensazione che si trattasse di una
conversation-pièce, un lavoro teatrale in prosa, perché si udiva tutta la punteggiatura, ogni
sfumatura della voce come in una pièce parlata. Non ci si rendeva nemmeno conto che ci
fosse anche la musica. Eppure l’insieme era talmente immerso in un’atmosfera musicale da
produrre un effetto veramente grandioso. E là, quella volta capii veramente che cosa era
stata la concezione teatrale di Wagner.”
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Hermann Levi (Giessen 1839 - Monaco di Baviera 1900) fu amico di Brahms e grande
ammiratore di Wagner, di cui diresse il Parsifal a Bayreuth nelle prime rappresentazioni
(1882) e di cui propose altre opere in diverse città tedesche. Il Maestro lo apprezzava molto
per la naturalità, la fluidità e il grande equilibrio che talora diventava veemente vigoria e gli
fu sempre riconoscente per le sue interpretazioni. Proprio il giorno prima di morire (il 13
febbraio 1883), Wagner si era congedato da Levi, il quale era venuto a Venezia,
trattenendosi per oltre una settimana, per stabilire le rappresentazioni a Bayreuth l’estate
successiva (che ebbero luogo regolarmente, nonostante la morte di Wagner).
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L. Bellingardi, Musica come catarsi, pag. 35 (in “Musicalia”, anno V, N. 27, novembre 1996)