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INTRODUZIONE 
 
 
Obiettivo di questo lavoro è l’analisi del nostro sistema di welfare. Ci 
concentreremo principalmente sulla sanità, che rappresenta la seconda voce di 
spesa sociale, dopo quella pensionistica. 
Il nostro excursus inizia dalla prima metà dell’Ottocento, quando si cominciarono 
a superare le forme caritative private e pubbliche, e la previdenza sociale iniziò a 
declinarsi anche attraverso le Società di Mutuo Soccorso. Il fenomeno fu 
fondamentale per quel periodo, e si impiantò nelle grandi trasformazioni 
istituzionali ed economiche che si verificarono in Italia, come nel resto 
dell’Europa. La proposta mutualistica si affermò grazie alle sue doti di semplicità 
e flessibilità organizzativa, diffondendosi in quasi tutti i settori produttivi. 
Probabilmente fu la forte base territoriale l’ingrediente principale del successo del 
mutualismo. L’intero fenomeno ebbe nella struttura sociale dell’epoca un impatto 
determinante: spesso i sodalizi si svilupparono a tal punto da coinvolgere la 
maggior parte dei residenti, garantendo servizi che nessun’altra istituzione 
dell’epoca era in grado di offrire.  
Partendo dalla situazione socio-economica del Piemonte, una delle regioni italiane 
in cui il fenomeno mosse i primi passi e si sviluppò con piø vigore, andremo ad 
analizzare i regolamenti di quattro società, in seguito alla concessione dello 
Statuto Albertino. Saremo così in grado di esaminare nel dettaglio gli scopi delle 
società,  la tipologia degli iscritti, i meccanismi di ammissione e di espulsione dei 
soci, le quote sociali, i sussidi, e il meccanismo decisionale. Ci soffermeremo in 
particolare sulle modalità di ammissione dei soci, sulla tassa d’ingresso, sulla 
quota mensile richiesta, e ovviamente sui sussidi concessi. Dagli statuti delle 
quattro società analizzate si evidenzia che mediamente l’entità dei sussidi versati 
ai soci era pari a 1-1,25 lire al giorno, cioè uguale o superiore di ¼ al contributo 
mensile richiesto. La somma poteva essere fissa o differenziata in base 
all’anzianità d’iscrizione dei soci, mentre la durata del soccorso era estremamente 
variabile, a seconda delle capacità finanziarie delle società: si andava dai venti 
giorni previsti dalle società piø piccole, ai sei mesi di quelle economicamente piø
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solide. Quasi tutte le società, oltre a fornire il sussidio malattia, assicuravano ai 
propri membri i soccorsi terapeutici per mezzo di un medico appositamente 
designato, incaricato di curare i soci infermi con regolarità, anche di notte se 
necessario.  
Grazie agli statuti esaminati evidenzieremo come molte Società di Mutuo 
Soccorso si prefiggevano anche lo scopo di fornire sussidi vitalizi, sia ai soci 
affetti da cronicità che agli anziani inabili al lavoro, benchØ la concessione di tali 
sovvenzioni fosse spesso subordinata allo stato dei fondi di riserva. I sodalizi 
inoltre facevano sentire la loro concreta presenza anche nelle circostanze luttuose: 
assumendosi direttamente l’onere della spese funebri, o in alternativa concedendo 
alle famiglie cospicue somme di denaro. Infine analizzeremo la struttura delle 
società e le modalità di funzionamento delle Assemblee Generali. Concluderemo 
questo primo capitolo analizzando gli ultimi sviluppi delle SMS, dalla fine 
dell’Ottocento al periodo fascista, alla rinascita del fenomeno nel 1948, con la 
fondazione della Federazione Italiana della Mutualità. Torneremo sulle società di 
Mutuo Soccorso piø avanti del corso del lavoro. 
Col secondo capitolo ci occuperemo dei motivi che portano all’intervento 
pubblico in economia, e in particolar modo nel settore sanitario. Saranno fornite 
giustificazioni da due punti di vista:  
-dal lato dell’efficienza, sulla base dei “fallimenti del mercato” causati dalla 
complessità del bene salute, dalle forti asimmetrie informative e conseguenti 
comportamenti opportunistici, dall’incompletezza del mercato e dalle esternalità; 
-dal lato dell’equità, essendo il bene salute classificabile come bene 
pubblico/meritorio.  
Strettamente correlato ai malfunzionamenti del mercato sanitario faremo una 
breve analisi dei sistemi assicurativi privati, con uno sguardo particolare al caso 
degli Stati Uniti. Cercheremo di dimostrare come i fenomeni di selezione avversa 
e di azzardo morale possano portare, attraverso il meccanismo della spirale dei 
premi assicurativi, un numero sempre crescente di individui (per la maggior parte 
poveri, anziani e malati) a rimanere senza tutele: si stima che nel 2010 i “non 
assicurati” negli Stati Uniti siano circa cinquanta milioni. Restano quindi a carico 
dello Stato principalmente gli individui non assicurati, che presentano le
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situazioni piø gravi (i poveri e i malati); nonostante la forte presenza dei privati 
nel settore sanitario statunitense sarà paradossalmente necessario un esborso 
maggiore da parte del sistema di previdenza pubblico per prendersi cura di questi 
cittadini.  
Una volta giustificate le basi dell’intervento pubblico, nel terzo capitolo ci 
occuperemo del finanziamento della sanità in Italia. Sarà un lungo excursus che, 
partendo dal 1978, anno di nascita del Servizio Sanitario Nazionale, ci 
accompagnerà fino ai giorni nostri. Vedremo come nei primi anni il sistema sarà 
finanziato attraverso i contributi obbligatori dei lavoratori, che andranno a 
confluire nel Fondo Sanitario Nazionale, da ripartire tra le Regioni, e in seconda 
battuta tra le USL. Noteremo sin da subito la forte disparità di trattamento fiscale 
tra i lavoratori dipendenti e gli autonomi, disparità che affronteremo anche sotto 
altri punti di vista nel corso del lavoro.  
La nostra analisi continua con i primi processi riformatori, ricordiamo tra tutti i 
D.Lgs 502/1992 e 517/1993, che riorganizzano profondamente il sistema 
attraverso una maggiore responsabilizzazione delle Regioni; l’aziendalizzazione 
delle USL; e il pagamento a prestazione (per “DRG” Diagnosis Related Group).  
Mentre questi interventi hanno riguardato la “filiera” produttiva sanitaria, dal 
1997 ha avuto inizio un processo riformatore riguardante direttamente le modalità 
di finanziamento del SSN, passato dall’introduzione dell’Irap per arrivare 
all’abolizione del Fondo Sanitario Nazionale, con il D.Lgs 56/2000. 
L’introduzione di questo Decreto e la modifica del Titolo V della Costituzione un 
anno piø tardi causeranno piø di un dibattito sulla compatibilità o meno di criteri 
federalisti in una materia come la sanità, da garantire uniformemente a livello 
nazionale.  
La nostra analisi continua con l’analisi dei nuovi criteri di riparto, così come 
individuati dalla Legge Delega 42/2009 e dal D.Lgs. 68/2011, che interpretano gli 
articoli 117, 118 e 119 della rinnovata Costituzione. Nonostante le modifiche 
apportate siano state annunciate come innovazioni storiche, andremo a vedere 
come i cambiamenti siano stati effettivamente minimi. L’imprecisione di questi 
criteri di riparto però potrebbe accentuare la conflittualità fra le Regioni, e portare 
verso parametri di scelta legati alla mera discrezionalità politica. Questo a scapito
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di strumenti che invece avrebbero potuto dare una giustificazione scientifica degli 
interventi pubblici.  
A tal proposito proponiamo una prima modifica da apportare al criterio di riparto 
tra le Regioni, con l’inserimento dell’indice di deprivazione socio-economica. 
Tale indice è in grado di spiegare buona parte della variabilità regionale del 
fabbisogno sanitario, a parità di struttura per età della popolazione. ¨ un indice 
che misura la condizione di svantaggio socioeconomico all’interno di un’area 
geografica, calcolata tenendo conto di indicatori facilmente desumibili dai 
censimenti della popolazione. Nel nostro lavoro riporteremo uno studio compiuto 
sui comuni della Liguria, in grado di cogliere i differenziali di morbilità dovuti 
alle differenti condizioni materiali e sociali riscontrati nella popolazione. Le 
evidenze, pur con tutti i limiti che andremo a sottolineare nel corso del lavoro, 
mostrano l’esistenza di un chiaro effetto delle condizioni socioeconomiche sulla 
salute dei cittadini. Sarebbe quindi auspicabile continuare ad affinare tali studi, 
per poter finalmente giustificare su basi scientifiche delle politiche di tipo 
redistributivo, invece che lasciarle ad una serie di interpretazioni politiche.  
Il lavoro continua nelle pagine successive sottolineando l’importanza del governo 
condiviso della spesa sanitaria, affidata al Patto per Salute, che individua nell’arco 
di tre anni la programmazione sanitaria, attraverso un’Intesa Stato-Regioni, 
puntando quindi sul rafforzamento del processo di collaborazione istituzionale. 
L’ultima parte del terzo capitolo si concentra infine sugli effetti che l’ultima 
Manovra sortirà per la sanità nel 2012 e 2013, dal punto di vista del finanziamento 
complessivo. In seconda battuta commenteremo l’introduzione del cosiddetto 
“super ticket”, rimandando però all’ultimo capitolo le osservazioni e i 
suggerimenti per garantire una sua piø equa applicazione.  
Col quarto capitolo ci concentreremo sul concetto di universalismo selettivo. 
Partiremo con l’analisi dei suggerimenti forniti piø di dieci anni fa dalla 
Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa 
sociale, indicata piø semplicemente come Commissione Onofri, dal nome del suo 
presidente. La Commissione, nata nel 1997, ebbe il preciso scopo di analizzare la 
compatibilità della spesa pubblica per assistenza, previdenza e sanità, in coerenza 
con le condizioni europee di stabilità monetaria e finanziaria. La sempre maggiore
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ristrettezza dei vincoli di bilancio statali hanno messo a dura prova il carattere 
gratuito e universalistico di alcune prestazioni sociali. Proprio per questo la 
Commissione suggeriva una possibile soluzione attraverso l’introduzione, a 
livello nazionale, di strumenti atti ad individuare i possibili beneficiari di politiche 
sociali: la cosiddetta “prova dei mezzi”. In questo modo sarebbe possibile 
continuare a garantire l’universalismo nel rispetto degli equilibri di finanza. 
Selettività nel senso di “selezione” dei beneficiari sulla base di una prova dei 
mezzi: ad accedere ai trasferimenti e ai servizi accedono tutti quei soggetti le cui 
risorse sono al di sotto di una data soglia. Il lavoro della Commissione si estende 
nel settore sanitario grazie ai contributi di Stefano Zamagni, che esprime 
suggerimenti importanti sul ruolo della compartecipazione, sullo sviluppo della 
mutualità integrativa, sulla riqualificazione della medicina di base, sulla 
liberalizzazione delle specialità farmaceutiche e sulla riorganizzazione della rete 
ospedaliera.  
Parlando di selettività, particolare importanza assumono gli indicatori e gli 
strumenti atti a identificare i cittadini sulla base delle loro condizioni economiche. 
La nostra analisi prosegue quindi esaminando lo strumento di selezione piø 
diffuso in Italia, l’ISEE, sottolineandone i pregi e difetti. Porteremo avanti dei 
pratici suggerimenti per migliorarlo attraverso il confronto con l’ICEF, strumento 
utilizzato nella Provincia Autonoma di Trento. 
Infine nell’ultimo capitolo ci occuperemo dello strumento di compartecipazione 
piø utilizzato: il ticket. Inizieremo ad analizzare se, a livello teorico, può 
effettivamente essere utilizzato a difesa dell’universalità del nostro SSN, 
confrontandolo con altri strumenti di razionamento della spesa, e effettuando una 
breve riflessione sull’Out of Pocket. Continueremo con un breve excursus, 
esaminando in quali settori il ticket viene applicato in Italia e conseguentemente i 
criteri di esenzione oggi utilizzati.  
In seguito osserveremo come le regioni italiane abbiamo risposto all’introduzione 
del “super ticket” previsto dall’ultima Manovra. Partendo dal Piemonte faremo un 
confronto con le altre realtà, cercando di selezionare quelle proposte che ci sono 
sembrate piø eque. Effettueremo infine una breve riflessione sulla modalità di
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accertamento dei dati relativi alla capacità economica dei cittadini, evidenziando 
le attuali lacune del sistema. 
Infine concluderemo il nostro lavoro con alcune proposte. In prima battuta 
sottolineeremo come l’implementazione di politiche di compartecipazione alla 
spesa sanitaria richieda studi attenti, almeno da due punti di vista: in prima battuta 
è necessario prestare attenzione al meccanismo di selezione dei beneficiari, che 
nel nostro caso saranno i soggetti da esentare al pagamento del ticket. In seconda 
battuta è necessaria la massima prudenza nel valutare l’elasticità della domanda di 
prestazioni sanitarie rispetto al prezzo.  
La prima parte della nostra analisi si concentra quindi sul meccanismo di 
esenzione in base al reddito. Sottolineeremo come l’attuale impostazione, basata 
essenzialmente sull’imponibile IRPEF sia sbagliata, soprattutto perchØ lascia 
troppo spazio a comportamenti opportunistici. Grazie ad alcuni studi valuteremo il 
tasso di evasione stimato per tipologia di contribuenti, che si concentra su gruppi 
ben precisi della popolazione. Sulla base di queste osservazioni proporremo una 
modifica del processo di selezione mediante l’ISEE, andando ad agire 
maggiormente sulla componente patrimoniale, che oggi risulta troppo debole in 
confronto al dato reddituale, piø facilmente occultabile. 
Nella seconda parte avanzeremo la nostra proposta su come impostare la 
compartecipazione. Partendo da uno studio che dimostra chiaramente gli effetti 
negativi dell’introduzione del ticket sulla salute dei pazienti a reddito piø basso 
cercheremo, una volta selezionati i soggetti da esentare tramite l’ISEE modificato, 
di impostare un criterio di compartecipazione che sia il piø equo possibile.
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CAPITOLO 1 
LA PREVIDENZA SOCIALE PRIMA DEL SSN: LE SOCIETÀ 
DI MUTUO SOCCORSO 
 
 
1.1 DALLA CARITÀ AL MUTUO SOCCORSO: UNO SGUARDO A GRAN 
BRETAGNA, FRANCIA E PIEMONTE 
 
La forma associativa piø diffusa nei primi cinquant’anni di storia dell’Italia 
postunitaria fu senza dubbio il mutualismo. Il fenomeno fu profondo e 
determinante per quel periodo, innestandosi sulle grandi trasformazioni 
istituzionali ed economiche contestualmente verificatesi. In Italia, come nel resto 
dell’Europa, il processo di industrializzazione comportò la nascita delle prime 
grandi organizzazioni di massa. Il mutualismo rientra a pieno titolo fra queste, e 
fu per le classi lavoratrici italiane un importante  mezzo per affrancarsi dal rischio 
di indigenza, nei casi di malattia o di infortunio sul lavoro. Grazie alle società di 
mutuo soccorso il lavoratore si è trasformato lentamente da oggetto passivo della 
beneficienza a soggetto attivo, in grado di finanziare pianificare ed autogestire, 
seppur tra molti problemi, la propria previdenza. 
La forza della proposta mutualistica risiede anche nelle sue doti di semplicità e 
flessibilità organizzativa, tanto che tale forma associativa si diffuse, oltre che tra i 
salariati e gli artigiani urbani, anche tra i contadini, gli impiegati, i professionisti, i 
piccoli commercianti, gli insegnanti e i militari.  
Abbastanza frequente era lo sviluppo, in seno alle associazioni mutualistiche, di 
associazioni professionali a carattere nazionale: infatti il processo evolutivo 
dell’istituzione rende il mutualismo vero e proprio trait d’union tra le antiche 
corporazioni e le associazioni di mestiere.  
La principale forza organizzativa del mutualismo fu però la base territoriale: 
aprendosi a tutti coloro che vivessero del loro lavoro, le società di comune, di
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frazione, di borgata o di quartiere ebbero nella struttura sociale dell’epoca un 
impatto determinante. Sono numerosissimi i comuni piemontesi che costituirono 
almeno una SMS: spesso il sodalizio si sviluppò a tal punto da coinvolgere la 
maggior parte dei residenti, garantendo in questo modo servizi che nessun’altra 
istituzione dell’epoca era in grado di offrire.  
La portata, per certi versi rivoluzionaria, del fenomeno è sottolineata dal fatto che 
in molti casi la sede della società divenne il piø importante centro della vita 
pubblica locale, diventando il perno per ogni tipo di assemblea cittadina. Non è 
azzardato affermare che, soprattutto nei piccoli centri rurali e nei borghi distanti 
dalle città, le società di mutuo soccorso furono il primo embrione di Stato Sociale. 
Per la prima volta infatti si promossero quei servizi culturali, educativi, 
assistenziali, sanitari, che oggi siamo abituati a considerare irrinunciabili.  
Osservando la condizione materiale dei lavoratori di metà Ottocento, segnata da 
salari insufficienti, analfabetismo, negazione di diritti politici, malattie legate 
all’insalubrità del posto di lavoro o dell’abitazione, e confrontandola con la 
quantità e la qualità dei servizi offerti dai sodalizi ci si rende conto di quanto 
potente fosse questo strumento di emancipazione.  
Anche dal punto di vista ”formativo” le società mutue addestrarono un grande 
numero di dirigenti, in grado di gestire attività e servizi di notevole complessità, 
di amministrare bilanci finanziari spesso considerevoli e di progettare e 
pianificare investimenti, e infine di coordinare e dare coesione alle assemblee dei 
soci. Per i dirigenti di quei sodalizi il mutualismo fu una vera e propria scuola-
quadri, che contribuì a formare e qualificare la numerosa leva di amministratori 
operai che, sul finire del diciannovesimo secolo, pose le basi del movimento 
sindacale e cooperativo. 
Il caso piemontese, nel panorama mutualistico italiano, ha caratteristiche di 
peculiarità: infatti oltre ad essere la regione “piø mutualista”, ed a detenere una 
sorta di primato di primogenitura, il fenomeno piemontese si distinse anche per la 
lunga durata, visto che dal 1848 al 1918 fu in costante sviluppo. Le ragioni 
possono essere rintracciate nell’attaccamento quasi geloso dei soci alla propria 
istituzione mutualistica e nella difesa attenta del patrimonio sociale. Per 
sottolineare ed apprezzare al meglio la portata del fenomeno mutualistico è
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necessario ricordare che l’assistenza ai poveri ai disabili e agli ammalati, per 
lunghi secoli rimase una pratica rimessa alla carità privata, limitata alle istituzioni 
religiose e ad iniziative individuali o di gruppi che agivano in piena autonomia. La 
situazione era così sia in Piemonte che in tutto il resto dell’Europa del settecento e 
ottocento. Agli inizi del settecento in Piemonte il legislatore si preoccupò di 
ricondurre la frastagliata materia dell’assistenza verso un sistema unitario: con 
l’editto emanato nel 1716 da Vittorio Amedeo, vennero istituite le Congregazioni 
di Carità, cercando in questo modo una prima risposta al problema.  
In quegli anni la previdenza appare intimamente legata al sorgere della forma 
assicurativa. Le indagini, gli studi statistici e scientifici nel campo delle 
assicurazioni sulla vita e delle rarissime assicurazioni di previdenza per la 
malattia, furono un solido fondamento e stimolo per le società di mutuo soccorso. 
Le primissime forme di assicurazione in Francia, le tontines, risalgono alla metà 
del seicento: si trattava di un meccanismo di acquisto di titoli di Stato, la cui 
rendita veniva divisa fra i vari contribuenti per passare poi come eredità ai 
superstiti, in caso di morte. In Italia solo dal 1787, dopo che un decreto del 
Consiglio di Stato ne aveva dichiarato la legittimità
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, sorsero le prime forme di 
assicurazione sulla vita in senso moderno.  
Anche in Gran Bretagna l’intervento dello Stato venne auspicato da molti: politici 
e filantropici proposero l’istituzione di un ente nazionale assicurativo che 
prevedesse per i contribuenti dei sussidi in caso di infortunio, malattia e vecchiaia. 
Si passa così dai box clubs, per i quali i versamenti degli associati non erano 
periodici e determinati, ai penny clubs, o halfpenny clubs, fino a giungere alle 
friendly societies, che prevedevano la costituzione di un capitale permanente della 
società, col quale soccorrere in caso di malattia ed invalidità i soci contribuenti. 
Con il Rose’s Act del 1793, le Friendly Societies furono ufficialmente 
riconosciute, a condizione che i loro statuti fossero sottoposti ad approvazione. 
Nei primissimi anni dell’ottocento tali società, in Inghilterra, sono oltre 
cinquemila. 
Nella Francia napoleonica, accanto a società di mutuo soccorso tollerate dal 
regime, quali per esempio la Societè fraternelle de secours  e la Societè des amis 
                                                 
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 Un’ordinanza del 1681 proibiva le assicurazioni sulla vita, sulla stregua del principio che ‹‹la vita 
di un uomo libero non può essere posta a prezzo››
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de l’humanitè, comparvero le prime forme di intervento pubblico nelle 
assicurazioni e nel mutuo soccorso: si possono ricordare, tra le tante, la Societè 
fraternelle degli impiegati e degli operai delle miniere di carbone dell’Ourthe, 
amministrata per metà da membri nominati dall’autorità amministrativa, e per 
l’altra metà da soggetti eletti direttamente dai soci. La Caisse de prØvoyance 
veniva costituita tramite ritenute sui salari, contributi dei datori di lavoro e 
sovvenzioni dello Stato. 
Le società di mutuo soccorso dell’ottocento rivelano ben presto la loro duplice 
natura: assicurativa-previdenziale da una parte, e di rivendicazione sociale 
dall’altra. Dopo un primissimo periodo nel quale sono forti i riferimenti alle casse 
di previdenza delle antiche corporazioni, si assiste ad un successivo periodo in cui 
il grande numero e la sempre maggiore eterogeneità degli associati, portano ad 
ampliare le prospettive di azione. Lo sguardo veniva spinto oltre il piano della 
mutua previdenza, per svolgere nuove funzioni di rivendicazione dei diritti.  
In Italia questi stimoli maturano con qualche ritardo rispetto ad altre nazioni 
europee. Nel nostro paese notizie di associazioni di categoria che si reggevano sul 
contributo dei soci, tramite una quota da versarsi periodicamente, e che 
prevedevano l’elargizione di sussidi per periodi di malattia, se ne trovano a partire 
dalla prima metà dell’ottocento. Si contano d’altra parte anche precedenti di un 
certo rilievo, ed è il Piemonte in questo caso a rivelarsi antesignano. Nel 1708 
vede la luce la Società degli orefici della città di Torino. Vanno poi ricordati 
l’Unione Pio-tipografica di Sant’Agostino del 1710, il Pio istituto dei Cappellai 
del 1736, e la Società dei Cardatori di San Bonifacio del 1826: a parte il caso 
dell’Unione Pio-tipografica sono riconducibili piø a quella forma di sodalizio 
interno al fenomeno corporativo che al mutualismo in senso stretto. Tali 
pioneristiche associazioni, alla vigilia della concessione dello Statuto Albertino 
erano soltanto dodici
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. Infatti in Piemonte, dopo lo scioglimento delle 
corporazioni nel 1844 e prima dello Statuto, le vecchie associazioni mutualistiche 
di categoria erano poco tollerate, e la loro costituzione era subordinata alla 
concessione di un’autorizzazione di polizia.  
                                                 
2
 Secondo la Statistica delle società di mutuo soccorso pubblicata nel 1864 dal Ministero 
dell’Agricoltura, Industria e Commercio.
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L’interesse per il mutuo soccorso era vivo e sentito non solo dagli operai, ma 
molto spesso dagli stessi industriali, inoltre aveva ottenuto la sua ufficiale 
consacrazione scientifica al Congresso Nazionale degli Scienziati Italiani del 1843 
che ebbe luogo a Lucca. In quella sede si tenne un’ampia esposizione sulle società 
di mutuo soccorso esistenti in Italia, e si auspicò un loro incremento, come 
rimedio al pauperismo, che affliggeva la classe lavoratrice italiana. D’altra parte le 
società di mutuo soccorso offrivano la possibilità di tenere a freno i «fermenti di 
rivolta» da parte della classe operaia avvilita dalla miseria e dallo sfruttamento. 
Un giovane liberale lombardo, Goffredo Calvi, vedeva il mutuo soccorso anche 
come una possibilità di “imbonimento” delle classi svantaggiate, affinchØ si 
evitassero motivi di inquietudine, come era già successo in Francia e Inghilterra, 
dove «sorsero sette, si agglomerarono proseliti, si crearono progetti piø o meno 
ineseguibili e si giunse perfino a fantasticare una nuova rifusione sociale».
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 Così 
come la carità legale era stata per i governanti del settecento non solo un mezzo di 
beneficenza, ma anche un insieme di norme che disciplinavano in maniera 
implicita la vita degli assistiti, anche il mutuo soccorso apparve alla classe 
dirigente del primo ottocento come un rimedio che non avrebbe comportato alcun 
sacrificio per le classi abbienti, risultando pericoloso solo per la parte relativa 
all’affermazione della libertà d’associazione. Nonostante questa doverosa 
premessa va segnalato che in occasione del congresso lo stesso Calvi presentò un 
quadro molto completo delle condizioni economiche della classe lavoratrice 
italiana, ponendo in guardia contro i pericoli insiti in tale stato di cose: «...che 
freno potrà impedirgli dal ribellarsi alle improvvide leggi di male organizzato 
consorzio nel quale i patimenti e le privazioni sono l’unico retaggio? Quali 
sentimenti dovranno nutrire verso coloro che, senza alcun merito personale e pel 
solo diritto di nascita nuotano oziosi in sovrabbondante pelago di agi e di 
ricchezze?»
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. Le tradizionali istituzioni di beneficienza andavano in qualche modo 
superate: era necessario puntare sullo sviluppo delle società operaie di mutuo 
soccorso. Gli operai associati, tramite il pagamento di quote periodiche, avrebbero 
avuto così la possibilità di costituire una cassa sociale di previdenza ed assistenza 
                                                 
3
 PAPA E. R., Origini delle società operaie in Piemonte, da Carlo Alberto all’Unità, Giuffrè 
Editore, Milano, 1976 
4
 Ibidem
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per garantire, in caso di malattia, infortunio o disoccupazione, la corresponsione 
di una modesta diaria.