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1 INTRODUZIONE
Mentre si discute, nell’ambito della Conferenza Intergovernativa,
dell’eventuale costituzione di uno SME 2 che vincoli le valute dei paesi che
resteranno fuori della moneta unica (outs) e quest’ultima (ins) e
dell’inserimento, all’interno del Trattato di Maastricht di norme che tengano in
considerazione anche il livello di disoccupazione tra i vincoli comunitari, poco
rilievo è dato alla fase che precede l’introduzione della moneta unica.
Il punto su cui tale studio si vuole soffermare è quello che riguarda la
realizzazione di un processo di transizione verso la moneta unica il più
indolore possibile e che allo stesso tempo ne garantisca la bontà. La
transizione e quindi le negoziazioni che durante questa avvengono,
costituiscono una delle componenti fondamentali di una Europa più integrata
sotto tutti i punti di vista, in quanto molto dell’eventuale buon esito
dell’unione dipende da questa. Da qui la necessita di un processo che non
comporti eccessivi traumi per i paesi interessati.
Tale processo di transizione è qui analizzato sotto il profilo
istituzionale-pratico ed economico. Sebbene l’oggetto principale del presente
studio sia l’aspetto economico, la presenza di una trattazione che riguarda i
profili istituzionali e pratici è motivata da ragioni di completezza, ma anche, e
soprattutto, dall’esigenza di procedere in un contesto che abbia riscontro con la
realtà della situazione all’interno della quale si intende procedere.
Così, sotto il profilo giuridico, vengono analizzate quelle che sono le
norme fondamentali contemplate nel trattato di Maastricht che hanno ad
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oggetto la futura moneta europea, con particolare riguardo a quelli che sono i
criteri di convergenza, per la cui interpretazione restrittiva, in seguito ad
attenta lettura del Trattato e dei protocolli a questo allegati, si ritiene non
sufficiente la semplice promessa di agire in tal senso, ma che vi sia la necessità
di una eventuale modifica rivolta in questa direzione. Successivamente la
valenza degli stessi dal punto di vista economico sarà oggetto di critica.
Altro aspetto giuridico esaminato è quello che riguarda le istituzioni
preposte alla creazione e governo della moneta unica - IME, BCE e SEBC -,
per le quali si propongono modifiche la cui direzione verrà esposta quando la
moneta unica sarà analizzata sotto il profilo economico.
Per quanto riguarda i profili pratici, emerge la necessità di portare
trasparenza e certezza su tempi e procedure per l’obiettivo moneta unica, in
modo che tutti possano in tempo prodigarsi a che, nel momento opportuno
siano perfettamente in grado di operare nella nuova valuta. Un piccolo, ma non
per questo trascurabile, contributo è apportato alla soluzione del problema di
quale debba essere l’aspetto fisico della moneta, in modo da rispettare le
diverse esigenze di tutte le parti interessate.
Dopo questa prima parte, l’attenzione si sposta sugli più propriamente
aspetti economici del periodo di transizione.
Il punto di partenza è un articolo di Eichengreen e Wyplosz (1993), nel
quale gli autori cercano di individuare le cause che sono alla base della crisi
dello SME del settembre del ’92. Attraverso questo, anche se non in via
esclusiva, viene posta particolare attenzione per lo shock dell’unificazione
tedesca e per gli attacchi speculativi quali probabili determinanti della
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tempesta valutaria. Tali aspetti vengono successivamente approfonditi,
inserendoli nell’appropriato contesto teorico, onde valutare la probabilità che
gli stessi hanno di verificarsi durante il periodo oggetto dell’attenzione di
questo lavoro. In questa parte le conclusioni a cui pervengono gli autori
vengono valutate attraverso il supporto di grafici e tabelle ottenute da dati
grezzi. E’ sembrato opportuno aggiungere in questo capitolo anche una breve
analisi della situazione dell’economia americana trascurata dagli autori
dell’articolo preso come riferimento e che risulta essere invece degna di nota.
Per quanto riguarda l’ipotesi di shock asimmetrici, la sua naturale
collocazione è all’interno della teoria delle aree valutarie ottimali. L’analisi di
tale teoria ha come scopo quello di cercare di valutare la bontà dell’Europa
come area valutaria e quindi di prevedere l’auspicabilità o meno dell’adozione
della moneta unica. Verrà quindi passata in rassegna la vecchia e la nuova
teoria delle aree valutarie ottimali ed i principali contributi empirici . Da questi
si evidenzia una netta divisione fra nord e sud dell’Europa che mostra un
maggior livello di integrazione tra i paesi che appartengono al primo, ma senza
peraltro pervenire a conclusioni univoche sul grado di bontà dell’Europa come
area valutaria. Sebbene da questa analisi non traspaiano direttamente
indicazioni per la fase di transizione oggetto di interesse, un inserimento dei
criteri di convergenza all’interno di questo filone teorico, mostra la scarsa
significatività degli stessi da questo punto di vista, e suggerisce di spostare
l’attenzione sulla struttura della futura BCE permettendo a tutti i paesi, virtuosi
e non, di partecipare all’unione ed escludendo, onde evitare comportamenti
meno rigorosi dal punto di vista monetario dei paesi con più alto debito
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pubblico, coloro i quali non rispettano i parametri di convergenza dagli organi
direttivo ed esecutivo della BCE.
Probabilmente le conclusioni a cui si perviene in tale capitolo non
saranno oggetto di negoziazione tra i rappresentanti dei paesi coinvolti nel
processo, soprattutto a causa dell’intransigenza delle autorità tedesche verso
una interpretazione dei parametri di convergenza più flessibile. L’interesse di
queste alla stretta osservanza di tali parametri probabilmente è dovuto alla
volontà di pervenire, nella prime fase, ad una unione monetaria con un numero
ristretto di paesi in modo da mantenere la supremazia monetaria fino ad ora
detenuta, frutto di anni di rigore. Ciò comporterà un doppio costo per i paesi
che non faranno parte da subito della moneta unica ; un primo dovuto al
mancato guadagno che si otterrebbe dalla riduzione del debito pubblico come
conseguenza della riduzione dei tassi di interesse ; un secondo dovuto alla
maggiore difficoltà ad unirsi agli altri in un momento successivo in quanto i
paesi esclusi potrebbero essere sfiduciati dai mercati internazionali e dover
perseguire politiche monetarie ancora più rigorose di quanto non abbiano fatto
fino ad ora.
Per quanto riguarda l’ipotesi di attacchi speculativi quale causa del crollo
dello SME, questa diventa particolarmente attuale quando si prende in
considerazione il periodo che va dalla individuazione dei paesi in regola con i
parametri di convergenza, e che quindi adotteranno la moneta unica, al
momento in cui verranno fissate le parità dei tassi di cambio in maniera
irrevocabile, a causa dell’acuirsi del conflitto esistente tra gli obiettivi di tassi
di cambio fissi, politiche monetarie autonome e perfetta mobilità dei capitali.
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Da questo punto di vista sono presi in considerazione i filoni che analizzano
gli attacchi speculativi come conseguenza di politica monetaria non coerente
con l’obiettivo dei cambi fissi formalizzata attraverso l’eccessiva creazione di
credito interno ; condizioni di incertezza, da parte degli operatori, sul processo
di creazione del credito interno che, malgrado la politica monetaria coerente
con il regime di cambi fissi, rende la probabilità di un attacco speculativo
maggiore di zero ; la possibilità che si verifichino attacchi speculativi
autorealizzanti, cioè non causati dall’incoerenza della politica monetaria con
l’obiettivo dei cambi fissi, ma conseguenza dell’auto convincimento degli
operatori del verificarsi del crollo del sistema ; il possibile effetto
dell’inserimento di controlli sui capitali sulla sostenibilità del sistema quando
la politica non è in linea con l’obiettivo del cambio fisso. Le possibili proposte
avanzate per evitare che durante questo periodo nei mercati valutari possano
verificarsi situazioni di eccessiva instabilità riguardano l’introduzione di
controlli sui movimenti di capitale ; la possibilità di ampliare i poteri dell’IME
delegando a questi da parte del Consiglio il potere di stabilire in che momento
e a quale tasso i cambi debbano essere fissati ; la possibilità di annullare il
periodo di transizione rendendo contemporanea l’individuazione dei paesi
virtuosi e la fissazione dei cambi. Di tutti questi aspetti sono valutati i pro ed i
contro.
La conclusione di questo capitolo è che il periodo di transizione che va
dalla individuazione dei paesi che rispettano i criteri di Maastricht, alla
fissazione dei tassi di cambio, qualora non saranno prese delle opportune
misure atte a prevenire possibili instabilità, potrebbe creare seri problemi al
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proseguimento dell’unione e mettere in forse questo grande progetto anche a
prescindere dall’andamento dei famosi parametri.
Un’ultima parte, che tenta di fotografare la situazione attuale, è dedicata
all’analisi dell’andamento, relativamente agli ultimi dieci anni, di alcune
variabili fondamentali dei quindici paesi che dovrebbero entrare a far parte
dell’unione da subito o successivamente. In tale contesto rientrano logicamente
quelli che sono i parametri del Trattato di Maastricht. Facendo due diverse
ipotesi sull’interpretazione del debito, una rigorosa e una che lo è meno, risulta
che probabilmente nel primo caso alla scadenza solo Francia e Lussemburgo
rispetterebbero tutti i valori stabiliti nel trattato stesso. Nella seconda ipotesi
invece a questi due si unirebbero anche Germania, Olanda, Irlanda, Danimarca
e Finlandia. Anche se non moltissimi, in questo secondo caso i paesi sarebbero
abbastanza da far partire l’unione in modo credibile.
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Capitolo 2
ASPETTI ISTITUZIONALI E PROBLEMI PRATICI
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2 ASPETTI ISTITUZIONALI E PROBLEMI PRATICI
2.1 BREVI CENNI STORICI
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Dalla ricostruzione al Trattato di Maastricht
I fondamenti della cooperazione economica comunitaria vennero posti
durante il periodo della ricostruzione. L’iniziativa ed il denaro giunsero
dall’America, tramite il piano Marshall. Tale aiuto era condizionato
all’effettiva cooperazione tra i governi dei paesi europei e alla progressiva
liberalizzazione dei pagamenti intra-europei. Sia l’Organizzazione economica
per la cooperazione europea (OECE), che successivamente venne trasformata
in Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), sia
l’Unione europea dei pagamenti (UEP), costituiti sul finire degli anni ’40 con
l’obiettivo di rendere efficiente l’uso dei fondi concessi e promuovere inoltre
l’integrazione europea sul piano economico e politico, furono il risultato della
pressione americana sui beneficiari degli aiuti Marshall. Entrambe queste
strutture diedero un significativo contributo alla rapida espansione del
commercio intra-europeo e in generale alla ricostruzione economica, fornendo
nel contempo la base per la cooperazione economica ed anche politica.
I risultati di questa cooperazione non si fecero attendere e nel 1951 venne
firmato a Parigi il trattato istitutivo della Comunità economica del carbone e
dell’acciaio ( CECA), nata per volontà francese di riconciliare i rapporti con la
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La ricostruzione storica è stata possibile grazie a Papadia, F.- Saccomanni, F. (1994) e Tsoukalis, L.
(1994)
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Germania, ed alla quale aderirono anche l’Italia ed i paesi del BENELUX. Lo
scopo di questa istituzione era quello di integrare le politiche in due settori
che in quel momento storico erano considerati altamente strategici per lo
sviluppo economico.
Il successivo passo in avanti avvenne nel 1957 con la firma, da parte dei
“sei” paesi della CECA, del trattato di Roma che istituì la Comunità
economica europea (CEE) e la Comunità europea per l’energia atomica
(EURATOM). La CEE era di gran lunga la più importante ed il suo obiettivo
era quello di creare un mercato comune, cioè un’area economica entro la quale
potessero circolare liberamente merci, servizi, persone e capitali.
Nonostante la forte interdipendenze che si sarebbe venuta a creare in
seguito al trattato di Roma, non si sentì l’esigenza di formare un blocco
regionale tra le valute, in quanto i “sei” aderivano agli accordi del Fondo
Monetario Internazionale (FMI) , firmati a Bretton Woods nel luglio del 1944,
e la fissità del cambio delle loro monete rispetto al dollaro, conferiva ai
membri della CEE lo strumento per ottenere quella stabilità di cui avevano
bisogno. È per questo che nel trattato il riferimento al tasso di cambio era
limitato, all’art.107, alla semplice menzione di questo come “argomento di
interesse comune”, confidando nella longevità del sistema di Bretton Woods.
Il trattato di Roma conteneva altri importanti obiettivi da conseguire per
la realizzazione dell’integrazione fra i paesi membri , in particolare la libera
circolazione dei capitali (art.67) ed il coordinamento delle politiche
economiche (art.103). Chiara era l’indicazione, per quest’ultimo punto, del
trattato, il quale istituiva il Comitato Monetario il cui scopo era appunto quello
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di “ promuovere il coordinamento delle politiche degli stati membri in campo
monetario per perseguire il pieno funzionamento del mercato comune” ,
riconoscendo che l’instabilità dei cambi poteva minare il libero commercio.
Per quanto riguarda la liberalizzazione dei movimenti di capitale, il
trattato condusse a due fondamentali direttive nel 1960 e nel 1962, che
rappresentarono la base per la graduale rimozione delle restrizioni sui cambi su
una ampia gamma di transazioni di capitali oltre il breve termine.
Nonostante la mancanza di riferimenti precisi, nel trattato di Roma, la
questione dei tassi di cambio non fu del tutto trascurata dai membri della CE.
Infatti venuta meno, nel 1958, l’UEP per il raggiungimento del suo obiettivo, i
“sei” sentirono la necessità di sottoscrivere, nel 1960, l’Accordo Monetario
Europeo il quale imponeva alle parti di contenere le oscillazioni massime tra le
loro monete entro bande dello 0,75% rispetto alle loro parità, restringendo
ulteriormente quelli che erano i limiti del’1% del sistema di Bretton Woods.
Quando cominciarono a farsi sentire, agli inizi degli anni’60, i primi
cenni di tensione sul sistema monetario internazionale, maturò la convinzione,
nei paesi della CE, della necessità di istituzioni proprie con poteri ben
delineati. Così il Consiglio decise, nel maggio del ’64, di creare il Comitato
dei Governatori delle Banche Centrali, motivando tale iniziativa in
considerazione del fatto che “la progressiva realizzazione dell’unione europea
deve implicare l’adozione di politiche economiche e monetarie che aiutino ad
assicurare la stabilità delle parità dei cambi fra le valute degli stati membri”. Il
nuovo istituto avrebbe dovuto promuovere lo stretto coordinamento delle
politiche monetarie prevedendo delle consultazioni dei membri prima di ogni
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provvedimento delle banche centrali. Quest’ultimo impegno però fu
mantenuto, in versione leggermente rivista, solo dal settembre del 1990.
Proprio le tensioni monetarie internazionali di quegli anni convinsero i
“sei” della necessità di pervenire ad accordi che permettessero, attraverso la
concessione di crediti, di sostenere quei paesi soggetti a pressioni sui cambi.
Ed è proprio in seguito a tensioni tra marco tedesco e franco francese che la
Commissione presentò un “Memorandum sul coordinamento monetario della
comunità” conosciuto anche come “piano Barre”, dal nome dell’allora
vicepresidente della Commissione, nel quale fu abbozzata la struttura portante
dei meccanismi di finanziamento della CEE. I pilastri del piano erano le
garanzie, in caso di bisogno, di “Supporto finanziario di breve periodo” e di
“Assistenza finanziaria di breve periodo”, il tutto inquadrato in una struttura di
coordinamento politico di breve periodo. Purtroppo lo stesso piano Barre non
colse prontamente l’occasione per inserire al suo interno un progetto di Unione
Economica e Monetaria (UEM) che pure sembrava nelle possibilità politiche
del momento. Ma l’occasione non tardò a ripresentarsi.
La svalutazione del franco in agosto e la rivalutazione del marco
nell’ottobre nel ’69, portarono alla decisione, presa al summit di Hague nel
dicembre dello stesso anno, di formare un gruppo, sotto la guida del primo
ministro lussemburghese Werner, per elaborare un piano per la realizzazione a
stadi di una unione economica e monetaria. Il rapporto conclusivo del gruppo
di Werner venne presentato nell’ottobre del 1970. L’UEM avrebbe dovuto
essere raggiunta in tre fasi per la durata complessiva di 10 anni. L’obiettivo
finale doveva essere quello dell’eliminazione dei margini di fluttuazione,
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fissazione irrevocabile dei tassi di cambio e della libera circolazione di beni,
servizi, persone e capitali. La creazione dell’UEM avrebbe richiesto il
trasferimento di un gran numero di poteri decisionali dal livello nazionale a
quello comunitario. Tutte le principali decisioni riguardanti le politiche
monetarie, a partire dai problemi di liquidità interna e dei tassi di interesse
fino ai tassi di cambio e la gestione delle riserve dovevano essere centralizzate.
Gli obiettivi quantitativi a medio termine sarebbero stati fissati in comune ed i
progetti rivisti periodicamente. Venne prevista la creazione di due istituzioni
centrali della Comunità : il Centro decisionale per le politiche economiche e il
Sistema comunitario delle banche centrali, i cui compiti erano quelli di
implementare l’unione. Tutto questo dava per scontata la stabilità del sistema
di Bretton Woods.
Ma quello che si stava profilando non era certo il periodo più favorevole
per poter dare vita ad accordi di stabilità.
L’escalation militare americana nella guerra del Vietnam condusse ad un
forte incremento della spesa pubblica finanziato prevalentemente con
l’emissione, da parte della Federal Reserve, di dollari, provocando la
preoccupazione dei mercati finanziari sulla stabilità del rapporto di
conversione dollaro-oro ed inducendo gli operatori ad acquistare grandi
quantità di oro dalle banche centrali.
L’aumento generalizzato dei prezzi e la non sostenibilità da parte della
Fed del prezzo dell’oro condussero, sotto la minaccia dell’imposizione di
tariffe sulle importazioni da parte del presidente degli Stati Uniti Nixon, agli
accordi dello Smithsonian Istitution di Washington D.C., nei quali il dollaro fu
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svalutato nei confronti delle altre valute mediamente dell’8% ed il prezzo
dell’oro passò dai 35 ai 38$ per oncia. Ma la continua crescita monetaria
americana e gli attacchi speculativi sul dollaro finirono per provocare il crollo
del sistema di Bretton Woods nel marzo del 1973.
Messi di fronte al vacillare del sistema di Bretton Woods e la fine,
nell’agosto del’71, della convertibilità dollaro-oro, i “sei” costituirono nel
marzo del ’72 , insieme ad Inghilterra Danimarca ed Irlanda che nel gennaio
del ’73 sarebbero entrate a far parte della CE, il “serpente nel tunnel”, il cui
scopo era quello di limitare le fluttuazioni delle monete dei paesi membri al
2,25% invece che al 4,5% come era stato stabilito allo Smithsonian. Le valute
parte dell’accordo si sarebbero potute muovere congiuntamente rispetto al
dollaro, in fasce superiori ed inferiori del 2,25%.
Il perdurare dell’instabilità dei cambi, prodotto dalla sopracitata
instabilità del sistema di Bretton Woods, condusse, dopo pochi mesi
dall’accordo, all’abbandono da parte della lira irlandese, lira italiana e sterlina
del serpente. Il franco francese abbandonò l’accordo di cambio nel gennaio
del’74.
I paesi che mantennero l’accordo si assoggettarono sempre più alla
crescente forza del marco tedesco.
Non essendo venuta meno la CE, malgrado questa brusca battuta
d’arresto, l’interesse e l’impegno verso l’UEM non si affievolì, essendo forte
l’esigenza di stabilità nei cambi tra i paesi europei con elevati scambi
commerciali e politiche comuni (prima fra tutte quella agricola).
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Fu così che in seguito all’iniziativa del cancelliere tedesco Schmidt si
istituì, nel marzo del 1979, il Sistema Monetario Europeo (SME), come
accordo tra le banche centrali dei paesi della CE
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, allo scopo di concertare gli
interventi delle banche centrali sul mercato dei cambi e garantire il mutuo
finanziamento per gli interventi mediante la creazione di linee di credito
ufficiali.
Lo SME è un sistema di cambi fissi, ma aggiustabili. La novità più
importante fu la creazione dell’Unità Monetaria Europea (European Currency
Unit , ECU), come paniere delle monete della CE, anche quelle che non
facevano parte del Meccanismo del tasso di cambio (ERM). Ogni valuta ha un
tasso centrale rispetto all’ECU, e tali tassi centrali vengono utilizzati per
stabilire la griglia delle parità bilaterali tra le diverse valute della CE.
I margini di fluttuazione intorno alle parità furono fissati al 2,25%, con
l’eccezione della lira per la quale il margine era del 6%, e della sterlina che
entrò a far parte dell’ERM dello SME solo nel 1990. Un’altra novità dello
SME fu il così detto Indicatore di divergenza inteso a garantire un certo grado
di simmetria nell’onere di aggiustamento fra le valute che era posto a carico
sia di quelle in rivalutazione che di quelle in svalutazione ed un meccanismo
automatico per consultazioni immediate prima che si raggiungessero i limiti di
intervento. Era prevista inoltre la disponibilità di credito a brevissimo termine
ed in quantità illimitata che doveva essere garantita mutuamente dalle banche
centrali partecipanti attraverso il Fondo europeo per la cooperazione monetaria
(FECM), in modo da permettere un intervento nelle valute della CE.
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Dal 1985 lo SME è parte integrante del trattato di Roma