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mancanze e fragilità: è possibile favorire una ripresa evolutiva, anche in seguito ad
un’esperienza traumatizzante e nonostante la presenza di circostanze avverse.
Come mai alcune persone si lasciano abbattere dai momenti di crisi ed altre
riprendono a vivere?
Generalmente i resilienti affrontano meglio le difficoltà perché in precedenza
avevano acquisito la fiducia in sé che hanno tutti coloro che sono stati cresciuti in
modo da sviluppare un attaccamento sicuro. Poiché la maggior parte dei bambini
inseriti in comunità non ha avuto la possibilità di sperimentare tale esperienza, diventa
necessario costruire strutture affettive e sociali che possano sostenere il minore ed
infondergli fiducia: la resilienza non è solo una capacità connaturata all’essere umano,
ma si sviluppa anche in relazione all’ambiente ed alle persone che ne fanno parte.
All’interno della tesi tratterò delle comunità per minori, cercherò di delineare un
quadro complessivo di tali strutture educative, evidenziandone le qualità, ma anche i
punti critici. Nell’occuparmi di questi temi vorrei portare l’attenzione sull’importanza di
considerare i bambini come soggetti con diritti da garantire e salvaguardare, persone
che necessitano di sperimentare relazioni calde, stabili e familiari in un contesto
tutelante, così da poter crescere, superare le difficoltà e potersi definire, un giorno,
resilienti.
Le comunità per minori costituiscono quindi un luogo in cui è possibile sostenere
i bambini nel proprio percorso di crescita e di maturazione, proteggendoli e
prendendosi cura di loro. Inoltre, il lavoro che gli educatori professionali svolgono
all’interno del contesto comunità permette di favorire e di sviluppare resilienza, così da
accompagnare al volo, sempre che i bambini ed i ragazzi lo vogliano, anche chi non ha
un ego resiliency e quindi una caratteristica propria di personalità resiliente.
Il termine “comunità per minori” comprende situazioni molto variegate tra loro
in quanto a livello nazionale c’è ancora confusione sulla definizione del suddetto
servizio e sotto tale denominazione rientrano strutture molto diverse tra loro: parlando
per estremi, si va dai servizi molto vicini, per organizzazione e mentalità, ai vecchi
istituti, a quelli che cercano di creare al loro interno un ambiente relazionale caldo,
molto vicino a quello familiare. Questa digressione mi è utile per evidenziare il fatto
che ogni comunità per minori esistente sul territorio nazionale, lavora con una propria
metodologia e mira al raggiungimento di obiettivi diversi. Ciò significa che non per
tutte le comunità è prioritario il prendersi cura dei propri ospiti attraverso le coccole, lo
stare insieme, il dialogo ed il gioco. Molti servizi hanno ancora una forte impronta
assistenzialistica e custodialistica, ritengono quindi secondario cercare di costruire con i
bambini accolti legami stabili, rapporti basati sul dialogo, sulla fiducia e non sul potere.
In una ricerca condotta sul territorio nazionale (Emiliani, Bastianoni, 1992) sono
state intervistate le équipe educative di dieci comunità per minori. È emerso che gli
Introduzione
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educatori giocano solo occasionalmente con i bambini, non raccontano mai loro delle
fiabe, scherzano poco ed ancora più raramente sembrano divertirsi. L’educazione pare
rigidamente centrata sull’apprendimento, sul richiamo e su azioni strumentali, quelle
azioni che l’educatore è chiamato a svolgere per favorire nei bambini che gli sono
affidati il raggiungimento di adeguate competenze sociali e cognitive.
Nella costruzione di un rapporto interpersonale significativo con soggetti la cui
carica di aggressività e di dolore veicola quotidiane situazioni di tensione, di
provocazione, di ribellione, l’umorismo, la risata, la vicinanza data dal giocare insieme,
la comunicazione con strumenti vicini al mondo dei bambini, riescono a mantenere un
clima sereno e accogliente. Sperimentare insieme l’ebbrezza di avventure immaginarie,
superare gli ostacoli e gioire dei momenti felici, rafforza il rapporto con l’altro e
trasmette sicurezza e protezione.
Per questi motivi ho deciso di inserire, come integrazione dei temi affrontati,
alcune fiabe: credo fermamente nel loro valore educativo e vorrei dimostrare che,
grazie al linguaggio metaforico, immediato e semplice, tipico di questa forma narrativa,
è possibile trattare con i bambini temi difficili, quali l’allontanamento dalla propria
famiglia, maltrattamenti subiti, l’inserimento in comunità per minori...
Il bambino è il soggetto intorno al quale dovrebbe ruotare tutta la comunità,
molto spesso, però, rischia di non essere attore della propria vita, di non essere
informato sulla propria situazione e di subire le decisioni altrui, di non vedere garantiti
e tutelati i diritti a lui riconosciuti, quindi, nel mio elaborato, ho voluto riportare
l’attenzione sempre su di lui e sottolineare l’importanza del suo coinvolgimento e
partecipazione.
Per ovvi motivi ho deciso di prendere in considerazione solo le comunità per
minori 6-18, nella consapevolezza che l’educatore non racconta fiabe ai ragazzi di 18
anni, ma che è possibile raccontarle a pre-adolescenti che all’interno della comunità
vivono momenti di regressione.
Credo che per l’educatore sia importante rivalutare le fiabe ed essere in grado di
raccontarle, e non limitarsi a leggerle senza viverle ed interpretarle, per riuscire ad
entrare in contatto con i bambini con delicatezza e discrezione.
“Come da patrie lontane viene dato ad ogni uomo un angelo buono che lo segue
come un compagno di strada mentre si avvia verso la vita. Le fiabe sono capaci di
cogliere i puri pensieri di un’osservazione infantile del mondo, in parte per il modo in
cui sono divulgate, in parte per loro intrinseca natura; nutrono in modo immediato
come il latte, leggere e gradevoli, o come il miele, dolci e nutrienti, senza pesantezza
terrestre.” (Fratelli Grimm)
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Esiste una differenza tra fiabe e favole. La favola ha come protagonisti
immaginari animali, piante o esseri inanimati cui si attribuiscono virtù e vizi umani. I
contenuti della favola hanno spesso intenti didascalici o morali.
La fiaba, invece, dove i protagonisti sono solitamente essere umani alle prese
con entità sovrannaturali (streghe, fate, gnomi, orchi…) ed oggetti dotati di virtù
magiche, svolge prettamente una funzione di intrattenimento infantile: sta
all’ascoltatore applicare la fiaba alla sua vita o semplicemente godere delle cose
fantastiche che racconta.
In entrambi i casi si tratta di brevi narrazioni in prosa o in versi, con strutture
molto simili, come rivela del resto la comune etimologia latina, fabula, un termine che
deriva dal verbo fari, parlare, che richiama dunque l’importanza della comunicazione
orale in questo genere espressivo.
La differenziazione tra favola e fiaba può essere considerata come un’evoluzione
diversa del medesimo genere in contesti culturali differenti: la favola è più vicina a
tradizioni classiche e mediterranee; la fiaba risente maggiormente delle influenze
folcloristiche delle civiltà nordiche.
Per una predilezione personale, all’interno della tesi, userò solo il termine fiaba
per indicare indistintamente entrambi i generi letterari.
È importante che i racconti orali siano presenti nel percorso di crescita del
bambino in quanto sono ricchi di forme arcaiche, quali divorare/essere divorato, essere
abbandonato, perdersi nella foresta, confrontarsi con le immagini materne distruttrici
(streghe) o buone (fate): tali forme arcaiche fanno eco con le angosce più nascoste dei
piccoli ma anche degli adulti e grazie all’ascolto della fiaba possono essere affrontate e
superate.
Le immagini genitoriali delle proiezioni fantastiche delle fiabe paradossalmente
facilitano l’accesso al dialogo sui maltrattamenti da parte dei propri genitori. I bambini,
infatti, ascoltando le fiabe, spesso si rendono conto che ciò che accade ai personaggi
immaginari è peggio rispetto a quanto è accaduto loro e ciò stimola la capacità di
parlare dell’evento traumatico.
Per rafforzare la capacità di resilienza dei bambini accolti in comunità non
esistono delle tecniche e degli strumenti: la resilienza si sviluppa in relazione ad un
contesto e a situazioni specifiche.
La resilienza è però un processo che può essere sostenuto e facilitato. A mio
avviso la fiaba diventa un possibile strumento a disposizione dell’educatore: attraverso
essa si può aiutare il bambino a far fronte alle situazioni di crisi in quanto il bambino,
identificandosi nei personaggi, riesce a superare prove difficili che gli permettono di
acquisire fiducia in se stesso e di appropriarsi della consapevolezza che, con la forza di
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volontà ed il coraggio, è possibile credere in un futuro migliore; il lieto fine trasmette
sicurezza e speranza.
Grazie alla lettura di questi racconti immaginari, inoltre, il piccolo ascoltatore ha
la possibilità di rielaborare la propria storia e gli eventi traumatici che l’hanno
caratterizzata, in un contesto “neutro”, che non gli appartiene, che è fantastico e sito
tanto tempo fa… c’era una volta: questa formula propone una categoria, quella del
racconto di finzione, che sostiene la nozione di uno spazio mentale per il fantasma,
differente da quello della realtà.
C’era una volta e ci deve essere ancora oggi l’opportunità, per i bambini che
vivono situazioni difficili, di spiegare le ali e prendere il volo!
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RIFERIMENTI CULTURALI
1.1 La teoria dell’attaccamento di Bowlby
La teoria dell’attaccamento nasce e si sviluppa in un contesto psicoanalitico ad
opera di John Bowlby
1
. Egli integrò il modello psicoanalitico classico con osservazioni
comportamentali del mondo animale di stampo etologico, in particolare riguardo le
interazioni madre-cucciolo e madre-bambino.
La teoria dell’attaccamento fornisce, in primo luogo, una chiave di lettura
sufficientemente puntuale e operativa che consente di iniziare a “leggere”, attraverso il
comportamento del bambino, anche l’insieme delle sue complesse reazioni emotive.
Permette, inoltre, di mantenere una linea di osservazione congiunta sulla relazione tra
il bambino e l’adulto significativo, evitando così una dimensione interpretativa centrata
sul singolo o sui suoi esclusivi vissuti interni. Infine, in una prospettiva più ampia di
quella adottata da Bowlby, la relazione di attaccamento rappresenta una chiave
esplicativa interessante per la comprensione dei legami simultanei che possono essere
stabiliti con persone diverse dal caregiver.
Bowlby teorizza l’attaccamento come una predisposizione biologica del piccolo
verso la persona che gli assicura la sopravvivenza, prendendosi cura di lui. Sono il
bisogno di contatto e di confronto a muovere primariamente il bambino verso una
figura di attaccamento privilegiata.
L’Autore differenzia quattro fasi dello sviluppo del legame di attaccamento:
- la prima fase, tipica dei primi due mesi, è caratterizzata dal comportamento di
segnalazione e di avvicinamento, senza discriminazione della persona. Il
bambino si orienta verso qualunque persona e produce i segnali di
attaccamento di cui è dotato – pianto, sorriso, vocalizzazioni – allo scopo di
indurre l’avvicinamento. Tali comportamenti hanno la funzione biologica di
assicurare benessere, sicurezza e protezione poiché rappresentano dei richiami
che soddisfano il bisogno di cure e vicinanza;
- la seconda fase si sviluppa dai tre ai sei mesi ed è caratterizzata da
comunicazioni dirette verso una o più persone discriminate. Il bambino non
muta il suo comportamento o i segnali di vicinanza nei confronti delle persone,
1
John Bowlby (1907-1990), psichiatra e psicoanalista inglese, è diventato famoso per una ricerca sulle
condizioni psichiche dei bambini lontani dalla famiglia, svolta negli anni ’50 su incarico dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità. La ricerca fu alla base delle successive elaborazioni della teoria dell’attaccamento e
della sua attività presso la Tavistock Clinic e il Tavistock Institute of Human Relation di Londra.
Riferimenti culturali
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ma appare sempre più in grado di distinguere tra figure familiari e persone
sconosciute ed inizia ad orientarsi verso la figura che si prende cura di lui;
- nella terza fase, che va dai sei mesi ai due anni, appaiono segnali di
mantenimento della vicinanza con la persona scelta. Il piccolo mantiene un
contatto preferenziale con la figura di attaccamento, mentre le altre persone
familiari diventano figure di attaccamento secondarie e gli estranei suscitano
reazioni caute e distaccate. Si struttura il legame di attaccamento vero e
proprio, orientato e preferenziale. In questa fase, inoltre, si manifestano l’ansia
da separazione e la paura dell’estraneo che indicano il timore di essere lasciato
solo;
- nella quarta fase, dai due anni in poi, si sviluppa una relazione basata sul set-
goal (scopo programmato), che consiste nel perseguimento di scopi e obiettivi
regolati dai feedback provenienti dall’ambiente. Bowlby ritiene che il sistema
comportamentale del bambino sia simile ad un sistema di controllo che, per
raggiungere il proprio scopo, opera attraverso tentativi che richiedono
successive modificazioni in base alle informazioni di ritorno. I bambini diventano
capaci di adottare comportamenti intenzionali, di pianificare i propri obiettivi e
di tenere conto delle esigenze altrui.
Bowlby sottolinea l’importanza delle esperienze realmente sperimentate dal
bambino nel rapporto con la figura di attaccamento e ritiene che il comportamento e il
tipo di relazione affettiva che i genitori stabiliscono con i figli avranno ripercussioni non
solo sul modo in cui si organizza il legame, ma anche sull’adattamento futuro.
Coerentemente con i presupposti della teoria dell’attaccamento, gli indicatori
significativi per comprendere se il bambino ha sviluppato un legame sono quelli che si
manifestano nelle situazioni di separazione. In particolare Mary Ainsworth
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ha condotto
osservazioni di tipo qualitativo e longitudinali su bambini piccoli, per studiare le
differenze individuali in relazione alla sicurezza dell’attaccamento. Il metodo messo a
punto viene chiamato Strange Situation e ha lo scopo di cogliere, mediante una
situazione sperimentale, i segnali del bambino alla separazione e alla riunione con la
madre.
Attraverso tali osservazioni, Mary Ainsworth ha individuato tre fondamentali
tipologie di attaccamento:
- attaccamento insicuro evitante: caratterizza i bambini che durante il primo anno
di vita hanno sperimentato un rapporto con una figura di attaccamento
insensibile ai loro segnali e rifiutante sul piano del contatto fisico, anche in
circostanze stressanti. Questi bambini non sembrano avere fiducia in
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Mary D. Ainsworth (1913-1999) è considerata una delle figure chiave della teoria dell’attaccamento. Dal
1955 ha insegnato nelle più prestigiose università degli Stati Uniti.
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un’adeguata risposta materna e mostrano uno spiccato distacco ed esitamento
alla vicinanza e al contatto con la madre. In assenza della madre si mostrano
indifferenti, non reagiscono alla separazione e sembrano concentrati sui giochi e
sugli oggetti, esibiscono un eccesso di autonomia e di attenzione al compito.
Quando la madre ritorna non si avvicinano a lei oppure evitano attivamente il
contatto;
- attaccamento sicuro: caratterizza i bambini che hanno avuto una madre
sensibile ai segnali di sconforto, di disagio e responsiva alle loro richieste.
Questi bambini sono capaci di equilibrare il comportamento esplorativo con
quello di attaccamento. Confidando nella responsività della madre durante le
situazioni di pericolo, di stress, di paura, mantengono una sicurezza interna che
consente loro di esplorare il mondo. Nelle situazioni di separazione questi
bambini mostrano, in maniera più o meno evidente, segni di disagio, ma al
ritorno della madre sono in grado di esprimere il loro desiderio di vicinanza;
- attaccamento insicuro ansioso ambivalente: questi bambini, durante i primi
mesi di vita, hanno avuto una madre imprevedibile nelle risposte, affettuosa per
un proprio bisogno e rifiutante su sollecitazione del bambino. I bambini ansioso-
ambivalenti appaiono quasi completamente assorbiti dalla figura di
attaccamento, ma non riescono ad utilizzarla come base sicura da cui partire
per esplorare l’ambiente. Durante la separazione con la madre esprimono
evidenti segni di stress, disagio e angoscia che non vengono placati nemmeno
con il suo ritorno.
A queste tre tipologie, negli anni più recenti, se ne è aggiunta un’altra:
attaccamento insicuro disorganizzato. Il bambino non è in grado di organizzare una
strategia comportamentale unitaria ed emette segnali inadeguati per mantenere e
strutturare il legame. Le madri dei bambini “disorganizzati-disorientati” spesso
presentano una mancata elaborazione del lutto o del “trauma”. Hanno il ricordo di
esperienze di abuso sessuale o di maltrattamenti, non interagiscono con il figlio in
termini di richieste e mostrano un comportamento spaventato, non correlato a quanto
accade. Tutto ciò disorienta il bambino poiché la madre diventa allo stesso tempo
rifugio e fonte di angoscia.
La teoria dell’attaccamento ipotizza la continuità del legame, oltre il periodo
della sua formazione, grazie alla costituzione di modelli mentali complessi sia delle
figure affettive sia del bambino stesso. Queste rappresentazioni costituiscono i modelli
operativi interni che hanno la funzione di indirizzare l’individuo nell’interpretazione
delle informazioni che provengono dal mondo esterno e di guidare il suo
comportamento nelle situazioni nuove.
Riferimenti culturali
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Nel pattern di attaccamento sicuro i modelli operativi si costituiscono a partire
dalla rappresentazione della figura di attaccamento come disponibile a rispondere
positivamente e coerentemente alle richieste di aiuto e conforto. La rappresentazione
del sé, di conseguenza, è impregnata dal senso di essere fondamentalmente degno di
amore e dall’idea che le proprie esigenze di conforto hanno valore, significato e
potranno trovare spazio.
In quelli insicuri, i modelli operativi interni, convogliano una rappresentazione
della figura di attaccamento come non disponibile alle richieste di aiuto e conforto,
rifiutante, ostile e un’immagine di sé sostanzialmente non meritevole di amore e
attenzione.
Questo modello fa sì che i bambini non imparino ad esprimere le loro emozioni
in modo appropriato.
Il concetto di modello operativo interno, dunque, sembra fornire la base teorica
per comprendere come si organizzano e stabilizzano le rappresentazioni mentali degli
affetti nel corso dello sviluppo. Infatti, sebbene rivisitati sulla base delle nuove
esperienze nel corso della vita, si pensa che i modelli primari costituitisi nell’infanzia
abbiano un’influenza fortissima sia sullo sviluppo successivo dei modelli stessi sia
sull’esperienza attuale della persona.
Vediamo ora quali potrebbero essere le conseguenze della mancata possibilità di
stabilire o mantenere un attaccamento sicuro a causa delle lunghe interruzioni del
legame.
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1.2 I correlati psicologici del ricovero dei minori in istituto
“Un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro
di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di
tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita
in un regime chiuso e formalmente amministrato.”
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Tra i vissuti psicologici che l’inserimento in un istituto attiva nel bambino è
importante rivolgere l’attenzione sui sentimenti di separazione che il minore
sperimenta e sul modo in cui il bambino affronterà dentro di sé questa esperienza
emotiva. È noto che il vissuto di separazione è percepito in un modo diverso a seconda
dell’età del bambino: infatti un bambino molto piccolo, con un Io non ancora
strutturato, può essere sopraffatto dal sentimento di abbandono e perdita; al contrario,
un preadolescente o adolescente può essere in grado di elaborare la sua esperienza
ridimensionando l’angoscia connessa.
Oltre al livello evolutivo, un’altra variabile causalmente correlata al modo in cui
il minore supererà l’esperienza di separazione è data dallo sviluppo e dalla qualità delle
precoci relazioni infantili, come ci ha appena ricordato Bowlby con la teoria
dell’attaccamento.
I clinici infantili concordano nell’affermare che la mancata possibilità di stabilire
legami affettivi o lunghe e ripetute interruzioni dei legami creati costituisce la causa più
frequente dei disturbi psichici. È stato riscontrato costantemente che due sindromi
psichiatriche sono precedute in un gran numero di casi da rotture dei legami affettivi
nell’infanzia. Le sindromi ricorrenti sono: la psicopatia e la depressione. I sintomi
associati: la delinquenza e il suicidio. L’infanzia degli individui psicopatici è stata
fortemente turbata da morte, divorzio, casi di illegittimità, trasferimento da una
famiglia all’altra. Nella depressione, invece, il tipo di perdita subita tende a essere
diverso dalla distruzione dei rapporti familiari. In primo luogo, nell’infanzia dei depressi
la perdita è dovuta più spesso alla morte di un genitore e, in secondo luogo, la
frequenza della perdita tende a essere più elevata nel secondo quinquennio
dell’infanzia.
La ricerca clinica ha anche mostrato che nelle eziologie dei disturbi psichici
hanno un ruolo importante schemi tipici di comportamento parentale patogeni, fra cui
si ritrovano:
- genitori persistentemente insensibili alle richieste di cura del bambino;
- discontinuità di cure da parte dei genitori comprendendo periodi di permanenza
in istituto;
- minacce da parte dei genitori di non amare il bambino;
3
Goffman Erving, Asylums, 1968, Einaudi, Torino, pag. 29
Riferimenti culturali
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- induzione nel figlio di sensi di colpa per malattie o morte dei genitori.
È importante notare che la separazione può avere valenze affettive molto
diverse nella vita di un bambino e la diversità è determinata o dall’aver introiettato
aspetti positivi della propria vita relazionale precoce – quindi separazione come
processo maturativo – o dall’aver sperimentato la separazione esclusivamente come
solitudine e abbandono come può verificarsi nel caso di ricovero in istituto.
Se da un lato l’esperienza di separazione dalla madre può indurre nel bambino
molto piccolo il vissuto di abbandono che dà luogo a quella particolare sindrome clinica
denominata da Spitz
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“depressione anaclitica” (sindrome depressiva da abbandono),
altri autori hanno messo in evidenza il ruolo che alcuni fattori ambientali ricoprono
nello sviluppo della personalità. La letteratura e le osservazioni in merito evidenziano
un vero e proprio arresto dello sviluppo intellettuale riscontrato nei bambini
istituzionalizzati. Questi autori spostano l’attenzione dal concetto di “privazione
materna” a quello di “privazione sensoriale, sociale ed emotiva” del contesto di
ricovero focalizzando lo studio sui fattori che contribuiscono a tali ritardi.
Un altro aspetto da indagare è legato alla reversibilità o meno dei danni emotivi
e intellettuali derivati dal ricovero. Gli autori che si sono interessati all’argomento
(Spitz, Bowlby, Goffman e altri) hanno estremizzato i risultati delle loro osservazioni e
ritenuto irreversibili i danni da istituzionalizzazione.
Erving Goffman
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afferma che le istituzioni sono luoghi, edifici, costruzioni dove
si svolge con regolarità una certa attività. Hanno un carattere inglobante o totale
simbolizzato dall’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno.
Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la rottura
delle barriere che abitualmente separano le diverse sfere della vita:
- tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa
autorità;
- ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme
gruppo di persone trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le
medesime cose;
- le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un
ritmo prestabilito;
- tali attività forzate sono organizzate secondo un unico piano razionale designato
al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione.
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Renè Arpad Spitz (1887–1974) è stato uno psichiatra e psicoanalista statunitense di origine austriaca. Ha
studiato la genesi della relazione madre-bambino e gli effetti che un’ospedalizzazione prolungata può avere
sul piccolo.
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Erving Goffman è nato in Canada nel 1922 ed è scomparso nel 1982. Si è laureato all’Università di Toronto,
quindi è passato a Chicago dove si è addottorato in filosofia. Ha condotto per un anno una ricerca in una
delle isole Shetland, raccogliendo materiale per un lavoro sulle comunità. Ha fatto parte del National
Institute of Mental Health. Ha insegnato al Dipartimento di Sociologia dell’Università di California, a Berkeley.
Tra gli scritti di Goffman si ricorda: Asylums (Einaudi, 1968); Il rituale dell’interazione (Il Mulino, 1988).
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Una persona che compie azioni e stabilisce interazioni in modo abitudinario e
costantemente ripetitivo riduce le sue possibilità di riproporsi in modo dialettico nei
rapporti con gli altri, perde la capacità di rimettere in discussione se stessa e la realtà,
non è più posta nelle condizioni di scegliere perché altri decidono per lei e su di lei,
perde gradualmente la possibilità di “optional”, i criteri e le abitudini.
Le conseguenze che l’istituzionalizzazione produce sulla personalità del bambino
sono molte:
- repressione psicologica dell’individualità;
- abitudine all’obbedienza passiva e non motivata, con conseguente
deresponsabilizzazione o spersonalizzazione;
- isolamento tra i sessi che spesso è causa di gravi traumi all’uscita dall’istituto;
- assoluto isolamento dal mondo esterno;
- perdita progressiva della personalità: il doversi attenere rigidamente al proprio
ruolo rende minime le possibilità di espressione soggettive e quindi diviene
impossibile una comunicazione reale e non mistificatoria che assuma i connotati
del dialogo inteso come confronto costruttivo che lascia intravedere occasioni di
cambiamento.
Il cambiamento, in un contesto “totale”, è represso direttamente e
indirettamente poiché è proibita ogni forma di dissenso singolo e tanto meno collettivo.
Infine l’esperienza di essere “custoditi” genera nel bambino impotenza,
distruzione, rabbia, conflitti oppure un’adesione passiva a tutto ciò che lo circonda.