INTRODUZIONE
Durante un corso della laurea triennale in “Teorie e pratiche
dell'antropologia”, mi fu affidato il compito di analizzare le categorie
dell'identità etnica utilizzate da un media di mia scelta, per spiegare il caso
del genocidio rwandese.
Mi recai alla Biblioteca Nazionale e m’imbattei per la prima volta nel
Rwanda attraverso le bobine del “Corriere della sera” datate aprile 1994.
Le pagine scorrevano sulla lavagna luminosa insieme a parole odiose. Mi
sembrava di capire qualcosa di importante grazie a quello strumento
affascinante e un po’ antiquato.
Riscoprivo vaghi ricordi infantili di watussi e pigmei che si uccidevano tra
loro (o anche un «ricordo balneare: l’immagine approssimativa e
velatamente razzista dei “vatussi, gli altissimi negri”1.»), alla luce di una
nuova consapevolezza: quella che siamo noi a tagliare con l’accetta del
sistema cartesiano le persone, costruendo identità per farle confliggere, per
i nostri interessi.
“Conflitto intertribale”, “Consueta guerra interetnica”, “tribù nutrite da un
antico odio”, le parole dell’ipocrisia scorrevano a fiumi.
Un paio di anni dopo mi ritrovai in Rwanda ripetendo quelle parole a John,
un ex combattente del Fronte patriottico rwandese, il quale mi rispose così:
“Ho visto pezzi di persone in bocca ai cani, e adesso cerco di guardare
avanti, ma quando sento chiamare conflitto intertribale quello che successe
qui nel ’94, per di più da parte di paesi che inviarono qui tonnellate di armi
e machete...Ecco, allora sento che potrei impazzire...”
Andai la prima volta in Rwanda per dare una mano all'avvio di alcuni
1 Michela Fusaschi, Hutu-Tutsi, Bollati-Boringhieri, Torino, 2000, pag. 13
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progetti di sviluppo inaugurati da un padre comboniano rwandese
conosciuto per caso, direttore di una Onlus locale, e da una persona di mia
conoscenza che finanziava questi progetti.
I lavori iniziarono con un progetto idrico a Musha, che affiancava un
vecchio piano dell’Unicef rimasto incompleto, allungando la linea
dell’acqua potabile costruita precedentemente. Fu costruito anche un
magazzino per lo stoccaggio dei prodotti agricoli. Ritornai in Rwanda una
seconda volta, occasione nella quale cominciai a fare delle interviste. L'idea
iniziale era quella di realizzare un centro di documentazione e ricerca, che
raccogliesse le testimonianze del genocidio ma soprattutto le testimonianze
dei pochi anziani rimasti, portavoce della cultura orale, sul periodo pre-
coloniale.
Ero inoltre molto interessata al fenomeno dei Gacaca, tribunali popolari
istituiti con il preciso scopo di affrettare i processi per genocidio,
facilitando la pacificazione e la giustizia nel paese.
Così raccolsi le interviste che riporterò lungo la tesi.
Ma torniamo a quello che mi disse John. Il giorno dell'inaugurazione della
fontana, tra i tanti presenti per l'apertura del rubinetto annunciata dal sibilo
dell'acqua lungo il tubo in terra, conobbi appunto John, tornato in Rwanda
con l'Fpr dopo tanti anni di esilio in Uganda.
Quella sera John ci offrì da bere e ci chiese cosa ne pensassero in Italia del
Rwanda. Gli parlai di quello che avevo letto in biblioteca e lui cominciò a
parlare a raffica come se gli venisse da piangere. “Quando sento che c’è
qualcuno che dice che è stata solo una guerra tra tribù sento che potrei
diventare matto”. Alludeva anche al traffico d’armi in Africa da parte
dell’Occidente, alle tonnellate di armi spedite in Rwanda dalla Francia
prima del genocidio.
Mi raccontò di tutto quello che vide da soldato, cani con gambe di uomo in
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bocca, donne incinte squartate perché i loro carnefici volevano vedere il
Tutsi che portava in grembo, una Kigali dal fetore di morte e le strade
ricoperte di cadaveri in balia degli animali. Teste rotolanti, una donna cui
infilarono un tronco d’albero nella vagina per farlo uscire dalla bocca… “E
quando sento parlare di tribù non sopporto la rabbia, contro chi con una
mano ti uccide e con l’altra predica di aiutarti”… Per questo disse che avrei
dovuto testimoniare nel mio paese che in Rwanda non vi fu una guerra tra
tribù. “Oggi potremmo vendicarci, ma non lo facciamo”, disse ancora John,
“altrimenti sarebbe una guerra infinita, viviamo a fianco dei nostri
carnefici, ma sappiamo che dobbiamo andare avanti. Eppure la storia della
tribù proprio non sopporto di sentirla dire…”
Sono arrivata a voler scrivere questa tesi per mettere insieme le storie e le
testimonianze che mi sono state raccontate in Rwanda e confrontarle con la
prospettiva che ci è stata offerta dai due principali quotidiani italiani, “La
Repubblica” e il “Corriere della sera”.
Come ci dice Dominique Franche, esperta di storia coloniale del Rwanda
ed autrice di “Généalogie du génocide rwandais”, ne “Les temps
modernes”, quello del Rwanda è stato «un génocide vite oublié, dont les
médias et certains chercheurs nous ont fourni une explication rassurante
dans sa simplicité: une guerre ethnique, ou guerre raciale, ou guerre tribale
(...), opposant Hutu et Tutsi. Une explication fausse, scandaleuse et
révoltante parce qu’elle entretient la haine»2 .
La stampa agendo in questo modo può commettere infatti un doppio
genocidio.
Quello che mancò nella descrizione dei fatti del Rwanda fu forse
l’attribuzione di un senso - indubbiamente difficile da trovare, ma che
comunque andava cercato - alle vicende. I giornalisti, specialmente quelli
2 Dominique Franche in Les Temps Modernes, n. 582, mai-juin 1995, pag. 1
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inviati sul luogo, avrebbero dovuto compiere un passo in più, inserire gli
avvenimenti in una cornice. Nell’ambito di quattro mesi di articoli si
sarebbe potuto approfondire, contestualizzare. Sarebbe bastato fare una
ricerca seria in biblioteca, consultare un numero di fonti più alto, consultare
la bibliografia specialistica in materia, documentarsi.
Il pubblico si sarebbe potuto fare un’idea diversa dai watussi e pigmei che
si scannano per via di un odio atavico tribale, se qualcuno gli avesse
mostrato quei contesti, se qualcuno avesse cercato per loro le diverse
responsabilità di una simile tragedia, se qualcuno avesse tentato di
documentarsi sul passato coloniale. Al contrario ci si è adagiati su alcuni
stereotipi non solo semplicistici ma addirittura erronei e pericolosi:
Il discorso mediatico, nei limiti del suo «approccio sensazionalistico», ha
fornito una lettura della tragica vicenda ruandese in termini di conflitto
etnico, se non tribale, ricorrente e di per se stesso inevitabile, e rafforzando
quella rappresentazione, retorica e comune, del «continente selvaggio» e
«selvaggiamente violento». L’Africa dei media, ancora nel terzo millennio,
è popolata da società dagli «strani costumi», da una umanità dolente,
condannata da e per sempre alla penuria, che sembra ritrovare le sue forze
solo nell’esercizio di una violenza atavica e irragionevole, naturale e ferina.
Un’assenza, quasi totale, di approfondimento sulle ragioni che hanno
preparato e motivato l’agire genocidario ha di fatto contribuito a restituire
una incomprensibilità di fondo 3
La versione che ci è stata offerta, quella del tribalismo, di un primitivismo
della società africana, ha fatto in modo che l'opinione pubblica non si
dovesse confrontare con le sue responsabilità:
Il faut tout faire pour que ces communautés puissent un jour prendre
conscience de ce qu'ont été et de ce que sont devenues les catégories
identitaires hutu et tutsi, pour que cessent les massacres. Mais, pour
l'opinion des pays riches, il est tellement plus rassurant de penser que le
génocide rwandais est une guerre ethnique, une guerre raciale, une guerre
tribale! «Ces gens-là ne sont pas comme nous» donc cela ne peut pas se
produire chez nous. Et pourtant, la Yougoslavie... La Yougoslavie ou se
déroule une «guerre ethnique» qui n'en est pas vraiment une, mais qui l'est
3 Fusaschi, cit., pag. 13
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bien davantage que la guerre civile au Rwanda et au Burundi.4
Il giornalismo che si fece sul Rwanda contribuì inconsapevolmente alle
strategie politiche sottese al genocidio e fornì all’opinione pubblica una
interpretazione deresponsabilizzante mistificando e deformando i fatti.
Senza contare che come vedremo i politici italiani se ne servirono per farsi
pubblicità come benefattori.
Addirittura da un lato tale lettura dei fatti contribuì ad alimentare e reificare
le categorie dell'odio etnico: «Affirmer la dimension politique et le
caractère organisé des massacres allait contre des interprétations admises,
influentes. En particulier contre l'explication par les haines ethniques»5.
D'altra parte, «Le Rwanda a le malheur d'être en Afrique. C'est-à-dire le lieu
par excellence de clichés et stéréotypes qui ont la vie dure, ancrés très
profondément dans une mentalité française restée globalement coloniale»6.
Il mio percorso vorrebbe riportare rappresentazioni interne al genocidio,
testimonianze della storia precoloniale, interviste a chi ha vissuto il
genocidio e continua a viverne le conseguenze, nonché studi di storia e
antropologia che fanno chiaramente luce sugli antecedenti del genocidio, e
mostrare come tutto questo strida fortemente con la rappresentazione
offertaci da «La Repubblica» e «Corriere della sera».
Credo che l'informazione si sarebbe dovuta avvalere delle discipline
specializzate nel settore in questione e adottare l’etica dell’inchiesta
nell'affrontare questo argomento.
Nel passaggio dalla laurea triennale in Antropologia alla laurea specialistica
in Giornalismo sono stata motivata dalla convinzione che una prospettiva
storica e antropologica possa dare un nuova affidabilità e profondità
4 Michel Elias in Les Temps Modernes, n. 583, juillet-aout 1995, pag. 53-54
5 Alain Frilet in Les Temps Modernes, cit.pag. 175
6 Danielle Birck in Les Temps Modernes, cit., pag 183
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all'informazione e al giornalismo.
Certi saperi specialistici che troppo spesso rimangono di nicchia potrebbero
dare un contributo di conoscenza a media troppo spesso generici,
soprattutto per quanto riguarda le discipline umanistiche. Queste ultime
sono anch' esse colpevoli di rimanere saperi di nicchia che troppo spesso
non offrono il loro prezioso contributo alla comprensione degli
avvenimenti:
Dans l’espoir de voir cesser un jour une violence absurde qui dépasse
apparemment l’entendement, le chercheur a le devoir d’en démonter les
mécanismes, d’en établir la généalogie par la confrontation de l’analyse des
discours «scientifiques» tenus à propos des Hutu et Tutsi aux témoignages
des paysans, aux discours et pratiques des acteurs européens de la période
coloniale, puis des hommes politiques rwandais. Entreprise qui permettra
aussi, par un détour au long du chemin généalogique, de mieux comprendre
notre propre passé et la construction de certaines de nos grilles
d’intelligibilité de la société7.
La tesi vorrebbe dunque mettere in discussione, attraverso l'esposizione di
un sguardo emico e di uno sguardo “specialistico” , le rappresentazioni di
due importanti quotidiani italiani, utilizzando così anche la tripartizione
delle fonti che ci viene indicata da Ryszard Kapuscinski, ne Il cinico non è
adatto a questo mestiere: “La principale sono gli altri, la gente. La seconda
sono i documenti, i libri, gli articoli sul tema. La terza fonte è il mondo che
ci circonda, in cui siamo immersi. Colori, temperature, atmosfere, clima,
tutto ciò che è chiamato imponderabilia, che è difficile da definire e che
pure è una parte sostanziale della scrittura”8.
Dunque in questo percorso utilizzerò le interviste fatte in Rwanda (la
gente), la bibliografia (i documenti) e il mio diario di campo (gli
“imponderabilia”, sempre in corsivo), dedicandomi a “gente” e
“imponderabilia” principalmente nella seconda parte della tesi, mentre
7 Claudine Vidal in Les Temps Modernes, cit., pag. 2
8 Kapuscinski, R., Il cinico non è adatto a questo mestiere, a cura di Maria Nadotti, Edizioni e/o, 2000,
Roma, pag. 41
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nella prima passeremo in rassegna le categorie emergenti dai quotidiani
presi in esame.
Nella tesi sono inoltre inserite delle foto da me scattate nelle situazioni via
via enunciate.
La mia esperienza tra i rwandesi mi ha riempito di stima nei confronti di
questo popolo. Credo che il modo in cui le persone comuni affrontano la
tragedia che hanno recentemente vissuto sia esemplare e per questo trovo
aberranti le descrizioni del Rwanda come di un paese abitato da primitivi,
da persone feroci, terra dimentica di umanità. Darò esempi del contrario
riportando passi del mio diario che testimoniano manifestazioni di umanità
vissute in prima persona. Un’istituzione “primitiva”, come il Gacaca, il
tribunale tradizionale riabilitato dopo il genocidio, di cui parlerò nella
seconda parte della tesi, credo sia una dimostrazione della cooperazione
umana nella disperazione.
Riporto qui di seguito la pagina di diario relativa ad una delle prime
manifestazioni alle quali ho assistito: la sepoltura di alcuni corpi, occasione
di commemorazione del genocidio.
La cerimonia, che poi si rivelerà un rituale catartico collettivo, comincia
con una messa. Ci sono tantissime persone. Ci fanno sedere in prima fila,
insieme alle persone “importanti”. Poliziotti, soldati pluridecorati, la
direttrice dell’associazione delle vedove del genocidio “Avega”, il ministro
e altri testimoni. Riesco piano piano a sentirmi coinvolta nella
celebrazione, nonostante conosca solo una decina di parole di
Kinyarwanda. Non riesco a scattare foto, è un momento troppo delicato.
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Alla mia sinistra ci sono sei bare, con le fotografie dei morti.
Il ritrovamento dei corpi è avvenuto solo recentemente grazie ad alcune
confessioni rese durante i Gacaca. Dunque queste persone vengono
seppellite dopo dodici anni. Ci sono molte telecamere. Durante la messa
cominciano a levarsi grida e pianti. Una donna comincia ad urlare
disperata, un pianto senza consolazione, senza speranza, un pianto
rassegnato e gridato tanto da far accapponare la pelle. Viene sollevata e
portata via mentre continua a dimenarsi e contorcersi. Ed è soltanto la
prima perché a mano a mano è il turno di altre donne. Tutte che ripetono
la stessa scena e vengono portate via. Si respira disperazione, non capisco
una parola eppure mi sento inchiodata alla sedia dalla tristezza. Penso che
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da un momento all’altro potrebbe impazzire la donna seduta accanto a me.
Alcuni piangono discretamente mentre le urla disperate e angoscianti di
quelle donne, nonostante si trovino lontane, fanno da sottofondo alle
parole del prete. Durante tutto il tempo della celebrazione. I bambini tanto
piccoli da non capire i racconti di quelle testimonianze che si stanno
succedendo ai microfoni - esattamente come me - piangono lo stesso
disperati, perché il dolore è nell’aria.
B. mi aveva avvisato che durante queste cerimonie alcune donne
impazziscono per non rinsavire, per questo lei non vi partecipa. Penso che
forse ha paura che capiti a lei.
Le canzoni sono i momenti che suscitano più sfoghi emotivi.
Finite le testimonianze le bare vengono portate nella tomba-memoriale.
Ognuno depone il suo mazzo di fiori, mentre da sotto terra si sentono
provenire le voci degli uomini che sistemano le bare. Un signore anziano
mi suggerisce di usare la macchina fotografica.
E’ finita la cerimonia, le urla sono cessate, la musica è cambiata. La gente
improvvisamente sembra sollevata, il loro volto non più segnato da una
smorfia di dolore. Abbracci, sorrisi. I rwandesi di sempre. Tornano anche a
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chiamarmi “umusungo”9. Chiacchierano, tornano insieme ammassati nei
cassoni dei Pick-up.
L’aria è cambiata, e a me viene da pensare che li stimo. Sotto quattro teli
di plastica hanno ricordato, insieme, senza psicologi, senza solitudini. Si
sono abbracciati e anche stavolta hanno giurato a loro stessi che tutto
questo non succederà più. Tornano al futuro, con il loro sorriso, dopo
essersi voltati indietro guardano avanti, con la loro capacità di gioire delle
cose semplici, perché consapevoli di aver lasciato il dolore alle spalle, ed
essersene in parte svuotati; la catarsi è avvenuta.
Cresce in me la convinzione che i rwandesi abbiano una grande forza e i
giovani in particolare una marcia in più. Molti di questi ragazzi hanno
perduto almeno un genitore o comunque hanno visto violenze e atrocità
inaudite.
La loro vita si è fermata all’inferno per quattro mesi. Per non parlare di
chi non ha proprio più nessuno al mondo, caso di molti. Eppure studiano
tantissimo, sono educati, responsabili, si sanno divertire con poco, e
soprattutto si aiutano, sono altruisti e solidali tra loro, senza competizione.
Più vado nel buio e più stelle vedo, qui.
9 In Kinyarwanda significa “bianco”.
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Aggiungo altri due passi del mio diario, due piccole storie che per me
esprimono la grande solidarietà con la quale i rwandesi ricostruiscono il
loro paese.
Jean-Claude è un ragazzo di diciotto anni che tutti i pomeriggi fa
l’allenatore volontariamente di Kung- Fu per i suoi compagni di scuola e
altri ragazzi del villaggio. Pratica questo sport da dieci anni, dice che in
questo modo può sfogare i cattivi pensieri e tirare fuori la violenza che ha
dentro.
Lo abbiamo incontrato e ci ha chiesto di andare a far visita ad un suo
compagno all’ospedale, malato di malaria, il quale non ha nessuno che lo
assista perché è rimasto orfano nel '94.
Vuole stargli vicino perché hanno “qualcosa in comune riguardo al '94”.
Jean-Claude, infatti, ha visto uccidere il padre durante il genocidio, “ma
voglio ricordare, perché se non ricordassi potrebbe succedere di nuovo
anche se quando ne parlo mi rendo conto di essere ancora traumatizzato”.
Sua madre ha perdonato l’assassino durante il Gacaca.
Il ragazzo malato ha un’espressione di dolore stampata sul volto, è
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