Il giornalismo di guerra, attraverso i secoli, ha offerto una preziosa testimonianza storica di eventi
ormai lontani, senza la quale ogni ricostruzione posteriore perderebbe in chiarezza, profondità,
accuratezza; i frutti del coraggio e delle sofferenze di tanti inviati, troppo spesso giunti al sacrificio
della vita, hanno regalato al mondo pagine di cronaca brillante. Hanno contribuito a far luce su
eventi contradditori ed altrimenti misteriosi, su menzogne ed omissioni, motivando questo semplice
e profondo assioma: se la ricostruzione storica è inscindibile dalla rigorosa ricerca della verità, si
può arguire come gli inviati di guerra abbiano in massima parte aiutato la Storia. La loro fotografia
degli eventi ‘in presa diretta’, a rischio della vita, ha permesso o consentirà agli storici una visione
più equilibrata degli avvenimenti, scevra da zone d’ombra e, ove possibile, da visioni partigiane.
E’ impossibile prescindere completamente o parzialmente dalle differenze secolari, dalle
caratteristiche spesso divergenti che accompagnano il difficile mestiere del cronista di guerra.
Nonostante il fondamentale legame che unisce chi, nei millenni, ha narrato le campagne militari e le
rivolte, sarebbe pretenzioso assimilare giornalisti moderni ed antichi cantori in un unico insieme
eterogeneo, ignorando o sorvolando le grandi discrepanze che suddividono queste categorie,
prossime ma certo non similari, e temporalmente lontane.
Vi è stato un tempo in cui le guerre erano narrate dai soli vincitori, da pochi, grandi condottieri
coperti di lauro, o dai loro solleciti letterati; il pubblico era ridotto ai più dotti. Ancora nel
Medioevo si notava una profonda dicotomia tra la memoria delle imprese belliche consegnate alle
cronache e le miriadi di trasposizioni, sempre più inclini alla leggenda, dei bardi e degli artisti
itineranti; nemmeno la comparsa dei primi giornali, nell’Europa del Seicento, portò
automaticamente alla verità nelle cronache militari, alla cancellazione dell’antico retaggio di
ignoranza, superficialità e faziosità.
In altre parole, l’attuale giornalismo di guerra non può essere considerato come fenomeno a sé
stante. L’evoluzione sociale, le esigenze politiche e le richieste del pubblico sono profondamente
mutate dai tempi omerici, plasmando più volte la struttura ed il carattere del mestiere del cronista;
allo stesso modo, lo stile narrativo, i tempi di pubblicazione, i mezzi di comunicazione e di
navigazione hanno conosciuto una continua mutazione, a sua volta vitale nell’ottica dell’inviato e
del suo rapporto con la testata di appartenenza. I mezzi mediatici di riferimento, infine, vantano una
storia altrettanto complessa ed affascinante, a sua volta indissolubilmente legata a quella del
giornalismo di guerra. Scindere una sola di queste componenti per dedicarsi al solo fenomeno
principale svilirebbe l’interesse e l’accuratezza dell’intero lavoro storiografico.
4
*
Antichi cronisti. Le origini lontane di un mestiere ancora inesistente
*
*
La storia umana, le remote vicende giunte e ricordate fino ai nostri giorni, si basano sulle cronache
pazientemente tramandate tra generazioni di eruditi, in forma orale oppure – in misura certo
minore, in alcuni periodi – scritta.
Come anticipato nell’introduzione di questa tesi, profonde differenze cronologiche, stitilistiche e
motivazionali precludono ogni possibile vicinanza tra questi antichi cronisti ed il moderno
giornalista. D’altro canto, la professione del “descrivere la guerra”, le sue ragioni e le sue cause,
il sorgere e tramontare delle dinastie, gli scontri tra popoli e le secolari conseguenze, è
sensibilmente antichissima e crea dunque una profonda e vincolante connessione tra tutti coloro
che l’abbiano intrapresa. Abissi temporali e metodologici separano gli antichi cantori e cronisti
dal giornalismo dei primordi, e tuttavia, la radice più profonda – descrivere la guerra – è
palesemente comune. In una civiltà umana perennemente caratterizzata da conflitti fratricidi, la
cronaca di tali lotte si è conseguentemente accompagnata agli eventi, evolvendosi e dando vita ad
una sua personale storia con il passare dei millenni.
In quest’ottica verranno brevemente analizzati alcuni, emblematici rappresentanti di questa
categoria di lontani cantori della guerra, mettendone in evidenza le peculiarità e le differenze
apportate dall’evoluzione storica, gli ambiti bellici narrati, le motivazioni alla base della
ricostruzione.
5
*
Omero. L’Iliade e l’Odissea
Poemi epici tra i più conosciuti, apprezzati e studiati, l’Iliade e l’Odissea si collocano notoriamente
alla base della tradizione culturale e letteraria europea ed occidentale. Immensa è la loro fama,
millenaria la tradizione culturale che li ha studiati e rivisitati, perenne la loro riproposizione ai
lettori di ogni tempo.
Entrambi i poemi risalgono probabilmente al IX secolo a.C., composti e tramandati in forma orale –
oggi definita oral poetry – fino all’Egitto del III secolo d.C., anche se dal VI secolo a.C. si diffusero
versioni scritte
2
. Come noto, l’Odissea – ripartita in ventiquattro libri dagli eruditi alessandrini – è
la continuazione del precedente poema, l’Iliade, a sua volta suddivisa in ventiquattro libri.
Entrambe le rinomate opere vertono principalmente su un duplice, ventennale avvenimento: la
guerra che contrappose i sovrani e condottieri attici alla civiltà troiana, ed il rientro dei vincitori
nelle patrie città achee.
Omero
3
, probabilmente vissuto nel VIII secolo a.C., sembra attualmente l’autore delle versioni dei
due poemi che, nel lungo periodo, risultarono dominanti. Altri autori elaborarono in maniera
differente le “loro” Iliade ed Odissea, con una diversa ripartizione dei libri, episodi inediti o
divergenti dal principale ramo omerico. Versioni “localizzate” comparvero in diverse colonie
greche, mentre il trascorrere dei secoli e la persistenza – accanto alla recente forma scritta – di
versioni orali diedero luogo ad ulteriori dicotomie narrative e stilistiche. Ciò parve delineare la
preesistenza di leggende, mutuate in forme narrative orali e strettamente legate ad un territorio e ad
una cultura o sottocultura, rimandanti ad antichi ricordi comuni.
Prescindendo dai molteplici particolari stilistici e metrici, dall’iniziale presenza di svariate forme,
cantate dai singoli aedi e parzialmente differenti tra loro, è opportuno focalizzare l’attenzione sul
tema principale delle due narrazioni. L’Iliade, poema bellico per eccellenza, non descrive le gesta di
dieci anni di assedio alla città di Troia, bensì gli ultimi giorni, caratterizzati dalla celebre e funesta
ira del condottiero Achille, figlio di Peleo, derivata dall’uccisione dell’amico Patroclo da parte
dell’eroe troiano Ettore. Solo la celeberrima e catastrofica rabbia dell’invincibile eroe può scatenare
il corso degli eventi che porterà alla rovina di Priamo e della sua casa.
L’Odissea, per contro, narra invece il decennale e travagliato viaggio di ritorno di Ulisse o Odisseo,
sovrano itacese ed ideatore del celebre tranello che pose fine al lungo e sanguinoso assedio:
archetipo dell’uomo che affronta le avversità con l’intelletto e le proprie capacità, Odisseo diviene
la paziente vittima delle rivalità divine, perdendo tutti i commilitoni e patendo infinite sventure
prima del vittorioso ritorno in patria. Anche qui, nella rocciosa e selvatica Itaca, il sovrano
sopravvissuto verrà accolto solamente da poveri pastori, riconosciuto unicamente dal suo anziano
cane, finendo con l’affrontare i pretendenti che ne dileggiano la consorte e le ricchezze in un ultimo,
sanguinoso scontro.
I due poemi, secondo l’attuale percezione storiografica, descriverebbero eventi realmente accaduti,
quali la proiezione della potenza bellica greca – e della forte spinta alla razzia, alla conquista ed
all’estensione del dominio – verso le sponde dell’Ellesponto e la potente civiltà troiana, loro rivale
locale. L’evidenza archeologica ha testimoniato l’esistenza di entrambe le parti in causa,
2
Cicerone, nel suo De Oratore, afferma che l’artefice della prima stesura in forma scritta dei due poemi omerici fu il
tiranno ateniese Pisistrato, probabilmente nel VI secolo a.C., divergendo dalla precedente – ed anche successiva –
tradizione orale.
3
Misterioso autore dell’Iliade e dell’Odissea, riconosciuto nei secoli come padre e “maestro” della tradizione classica
greca, compose almeno altre tre opere, non pervenute fino a noi, o parzialmente tramandate. Tra queste, gli Inni
omerici, il breve poema Margite, il noto, breve poema allegorico Batracomiomachia.
6
stabilendone le capacità belliche e nautiche, la consistenza demografica, la presenza di ricchi traffici
commerciali terrestri e marittimi nel periodo in esame
4
.
L’opera omerica, tuttavia, appartiene ad un peculiare periodo storico, e ne segue i dettami. La
guerra e la presa di Troia vengono illustrate con dovizia di particolari, i condottieri ed i loro seguaci
vengono più volte elencati e descritti con accuratezza, in occasione ad esempio del Catalogo delle
navi, della epipolesis
5
o della teichoskopia
6
. Omero fornisce inoltre una precisa ed accurata
descrizione delle armi argive e troiane, delle usanze sociali e funebri, della gerarchia e dei riti sacri,
delle tecniche militari offensive e difensive; l’Odissea contiene una stupefacente messe di
informazioni di carattere nautico, inerenti alla navigazione, all’orientamento, alla costruzione e
manutenzione navale, in un affascinante caleidoscopio di popoli e vicende che probabilmente
ripercorre una millenaria tradizione di commerci e contatti in area mediterranea e non.
Parimenti degna di nota, ai fini della precisione di cronista dell’autore, è l’impressionante e costante
citazione dei nomi e dei patronimici di tutti i personaggi – minori e principali - delle due opere:
Omero non dimentica alcun soldato o civile, alcuna sposa o sacerdote, auriga o medico o eroe, fino
ai modesti porcari che ospitarono Odisseo al ritorno ad Itaca, fino ai vanesi pretendenti che
dissipavano le ricchezze dell’eroe assente
7
.
Tuttavia, come premesso, le due opere rispondono ai canoni letterari e culturali del loro tempo, e
delle presumibili riedizioni successive. Le azioni belliche vengono mitizzate, le virtù – positive e
negative, eroiche e non – esagerate, in chiave mitologica. Ancorché scarseggino i riferimenti agli
animali mitologici – salvo i centauri, il serpente di Laocoonte o le arpie - l’intera vicenda è
permeata dall’intervento divino. Gli dei, grandi e minori, sono personaggi di primaria importanza
nelle due opere: essi interagiscono in ogni possibile modo con i protagonisti umani, aiutandoli o
contrastandoli, salvandoli dall’impeto della battaglia o assassinandoli, dividendosi in fazioni
filoargive o filotroiane, arrivando fino a vestire armi e corazza per combattere nel fragore della
piana di Troia, davanti alle “concave” o “nere” navi. L’Olimpo non è mera citazione letteraria, per
rispettare un canone o una tradizione: è protagonista, è attore, e spesso le sue vaste sale ospitano la
scena, in luogo di Ilio o del campo acheo.
La fluidità narrativa, l’elenco preciso e scrupoloso di uomini e proprietà, la precisazione altrettanto
costante della provenienza, della ricchezza e del rango militare dei guerrieri si accompagna pertanto
all’elemento mitologico: l’Iliade e l’Odissea, capostipiti di una lunga discendenza di narrazioni di
fatti d’arme, presentano pertanto la curiosa dicotomia tra storia e mitologia, tra cronaca bellica e
fantasia, rendendo immortali uomini e città, fondendo realtà storiche e geografiche quali
Agamennone, le Porte Scee, l’Ellesponto, Sparta, il Peloponneso con interpolazioni ed invenzioni di
carattere fantasioso e tradizionale.
Guerra e divinità, eroi terreni ed elemento sovrannaturale si presentano intimamente avvinti ed
inscindibili nella trama omerica, probabile evoluzione di più resoconti bellici e migratori d’epoca
precedente, rivisti in chiave epica e mitologica.
4
A titolo storico, la città di Troia è stata rinvenuta nel 1872 da Heinrich Schliemann. Dal 1998, le sue rovine, quattro
volte millenarie, sono state dichiarate Patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO, ed aggiunte alla World Heritage
List di tale Ente.
5
La epipolesis è l’analisi dell’esercito acheo, condotta dal sovrano Agamennone, Pastore di genti, nel libro quarto
dell’Iliade.
6
La teichoskopia è paragonabile all’equivalente troiano della epipolesis di Agamennone. Si tratta della osservazione
dalle mura troiane dell’esercito invasore, con il riconoscimento da parte di Elena di ogni principale comandante acheo.
Avviene nel libro terzo dell’Iliade.
7
“Rispondendo gli disse l’astuto Odisseo: ‘Eumeo, possano gli dei punire l’oltraggio / con cui essi ordiscono
scelleratezze / in casa d’un altro, senza averne vergogna’”. Odissea, libro ventesimo, 169- 171.
7
*
Tucidide, il cantore della Guerra del Peloponneso
La storia attuale ricorda due sole guerre mondiali, tuttavia non è errato affermare che anche il
mondo antico conobbe fenomeni bellici di portata e conseguenze proporzionalmente simili.
Infatti, sin dall’anno 479 a.C. due potenze elleniche si contrapposero, mutuando reciproca
diffidenza e rivalità che sarebbero scaturite in un conflitto destinato a sconvolgere il mondo greco:
si trattava dell’Impero ateniese e della potente macchina bellica spartana, due fiere entità politiche
portate a confliggere nel 431 in seguito ad un casus belli quantomeno remoto, che ha visto svariati
riferimenti, nei secoli, con la scintilla che accese la Prima guerra mondiale.
Nel caso di questa catastrofe decennale, passata alla storia con il nome di Guerra del Peloponneso,
si trattò dello scontro tra Corcira e Corinto per la colonia di Epidamno, nel mare Adriatico.
Tre sanguinosi decenni di guerra, alternati ad instabili tregue, si conclusero con la devastazione
della Grecia e delle sue fiorenti poleis, nonché con la caduta ateniese. Si trattò di una vera e propria
guerra “mondiale”, intesa come conflitto che coinvolse i principali protagonisti della civiltà greca,
estendendosi ai reciproci alleati ed alle colonie, quali ad esempio la lontana Sicilia e le colonie
egee; una guerra con punte di ardore e ferocia ineguagliate in precedenza, gravata dal massiccio ed
inusitato coinvolgimento dei civili negli eventi bellici.
Primo narratore di questo trentennale conflitto, terminato nel 405- 404 a.C., fu il generale ateniese
Tucidide (460 – ca. 400 a.C.), figlio di Oloro e stratega della flotta egea durante la lunga e
dilaniante guerra contro l’Alleanza spartana. Tucidide, dunque, prese attivamente parte agli
avvenimenti successivamente illustrati. Nell’anno 424 un corpo di spedizione al comando del
generale spartano Brasida si stanziò nella penisola calcidica presso Acanto, nel golfo Strimonio,
sull’alto Egeo. Da qui, in dicembre, si mosse contro la città di Anfipoli, sul fiume Strimone,
devastandone la campagna. Il comandante ateniese della città, Eucle, chiese soccorso alla flotta di
stanza ad Eione, sulla foce del medesimo fiume, sotto il comando di Tucidide. Questi tuttavia tardò
nel soccorrere la città assediata, i cui abitanti si arresero agli spartani.
Brasida concesse loro termini di resa insolitamente favorevoli per una guerra tanto feroce,
permettendo di restare in possesso di abitazioni e beni, o di lasciare Anfipoli in cinque giorni,
portando seco le proprie ricchezze.
Malgrado questo comportamento misericordioso, Atene perse una importante città, premessa ad una
serie di rivolte anti ateniesi in Tracia. La rabbia del popolo e delle autorità si concentrò su Tucidide:
circostanze attenuanti quali il ridotto numero di navi da guerra in suo possesso al momento
dell’assedio di Brasida, la sua rapida difesa del porto di Eione e – indubbiamente – il buon
trattamento riservato agli anfipolitani, in luogo del massacro o della deportazione come schiavi, gli
valsero l’esilio ventennale in Tracia al posto dell’esecuzione capitale. Accusato di tradimento
8
, si
difese in maniera postuma:
“Sapevo che il pericolo di tradimento era grande e che il mio arrivo avrebbe potuto rovesciare la
situazione a nostro favore, e arrivai straordinariamente in fretta. Se Eucle avesse tenuto duro solo
un giorno di più, Brasida se la sarebbe vista con noi, ma lui cedette. Mentre la mia velocità e
preveggenza salvarono Eione”.
8
Prodosia, accusa probabilmente mossa contro Tucidide da Cleone, astuto politico e generale ateniese, esponente del
partito radicale ed antispartano, conquistatore di Sfacteria nel 425, deceduto nel 422 proprio ad Anfipoli, ancora difesa
dal generale spartano Brasida che l’aveva costretta alla resa nel 424. Gli storici hanno a lungo argomentato sull’assenza
di Tucidide dal porto di Eione, sulla sua mancata previsione dell’attacco spartano ad Anfipoli, sull’inspiegabile
accanimento nei suoi esclusivi confronti da parte del demos, della giuria e delle autorità ateniesi, mentre il collega
Eucle, responsabile in ultima analisi della resa della guarnigione, non venne mai condannato.
8
Tale asserzione, difatti, è parte della monumentale e celebre opera dello stesso Tucidide, La Guerra
del Peloponneso, una profonda ed obiettiva analisi che consta di otto libri
9
. Venne redatta durante
gli anni d’esilio, probabilmente trascorsi in parte in patria, in incognito o perlomeno con la
privazione delle prerogative politiche.
Eccezionali ed universalmente riconosciute sono la correttezza e l’obiettività della prospettiva
storica e della cronologia, destinate – secondo l’autore – a consentire agli esponenti politici una
previsione dei rapporti internazionali, sulla base della immutabile natura umana, che permetterebbe
di stabilire in maniera deterministica il comportamento degli uomini. Tucidide suddivide la sua
precisa cronaca degli eventi bellici, delle tregue e delle mutevoli alleanze ripartendo la narrazione in
tre parti: la guerra spartana ed ateniese dal casus belli di Epidamno alla Pace di Nicia del 421 a.C.,
la catastrofe militare ateniese in Sicilia e la disfatta di Siracusa (415 – 413 a.C.) e l’evoluzione della
guerra. Il racconto termina con la fine della democrazia in Atene e la conquista del potere da parte
dei Quattrocento, al culmine di un periodo di terrore e di omicidi politici. La trama si interrompe
nell’autunno del 411, a circa sette anni di distanza dalla conclusione della guerra, nel 404.
Da un punto di vista cronologico e storico, il lavoro di Tucidide merita la fama tributatagli nel corso
di ben ventiquattro secoli. Sono accuratamente descritte le gesta di personaggi quali il grande
ateniese Pericle e Cleone, Brasida e Nicia, Alcibiade e Lamaco, mentre battaglie quali Sibota e
Potidea, Platea ed Epidauro, Mitilene, Pilo e Sfacteria, Mantinea, Siracusa, Abido, Egospotami
vengono registrate ed analizzate in maniera scrupolosa ed attenta.
La cronaca politica e militare lascia spazio a profonde riflessioni attinenti alla natura umana, vista
come rapace ed unicamente tesa alla conquista. La pace tra Atene e Sparta è impossibile ed
inattuabile, poiché in diretta contrapposizione con la citata natura predatoria dell’uomo, mentre il
disastroso conflitto fratricida viene visto come l’ineluttabile conseguenza della formazione di due
potenze naturalmente ed implicitamente rivali in uno spazio geografico e politico troppo ridotto.
La differenza dal caso precedentemente vagliato, relativo all’epica omerica, è profonda e lampante.
Tucidide ha redatto un classico della storiografia bellica e politica, ritenuto una “pietra miliare”
nell’analisi approfondita del collegamento tra la conduzione delle campagne militari e la logica – o
l’assenza di logica – del comportamento popolare, scevra da considerazioni di origine religiosa o
superstiziosa, priva dell’intervento soprannaturale.
La guerra del Peloponneso venne studiata incessantemente per quasi due millenni, offrendo spunti
per paragoni – come anticipato - con la prima Guerra mondiale e perfino con la Guerra fredda,
dando vita ad innumerevoli analisi e saggi storici e politici.
I protagonisti sono esperti uomini politici e legislatori, nobili e popolani, condottieri militari di terra
e di mare; gli ambiti della narrazione riguardano città e luoghi esistenti, ritratti nella precisa
conformazione e ripartizione sociopolitica del momento, con attenta analisi dell’area politica di
appartenenza, delle influenze economiche e politiche. L’estensione geografica della narrazione
spazia tra terra e mare, tra città e golfi, colonie e madrepatria. Gli eventi sono battaglie, tregue,
alleanze, trattati e colpi di stato, riportati con prosa diretta e semplice, nel puro stile di cronaca,
lontano dal racconto mitologico e privi di qualsiasi accezione eroica – ad eccezione dei reali
comportamenti degni di particolare lode agli occhi di Tucidide e dei contemporanei, quale ad
esempio la strenua e sfortunata resistenza dei condottieri ateniesi Nicia e Demostene dopo il
disastro della battaglia navale di Siracusa
10
. La propaganda, l’eccessiva retorica, l’esaltazione
bellica non trovano spazio in questo preciso racconto, onesto nel descrivere le azioni degli spartani,
degli ateniesi e dei rispettivi alleati.
Una lucida ed attenta ricostruzione storica caratterizza dunque l’opera dell’ex generale ateniese,
lontana dalla “mitizzazione” omerica e dalla mitologia. Principali critiche rivolte nel corso dei
9
La suddivisione dell’opera e lo stesso titolo sono postume. L’autore scomparve probabilmente nel 400 - 397 A.C.
10
“La disfatta degli Ateniesi era stata completa sotto tutti i riguardi, le sofferenze tutte portate al parossismo. (…).
Solo pochi, di così numeroso esercito, poterono ritornare in patria”. Tucidide, La guerra del Peloponneso, libro
settimo, 87.
9
secoli all’autore, nonché da parte della moderna storiografia, riguardano proprio la sua
partecipazione agli avvenimenti narrati e la conseguente, inevitabile parzialità che – malgrado la
grande ed ammirevole obiettività dimostrata nel corso di tutta l’opera – preclude, almeno in parte,
l’attribuzione del titolo di “cronista” nel senso attuale del termine.
Occorre difatti rilevare che, se si escludono poche altre opere
11
, La guerra del Peloponneso di
Tucidide è l’unica fonte a noi pervenuta degli avvenimenti in esame. Questo fatto, unitamente alla
citata presenza dell’autore sulla scena militare e politica del periodo, impongono una costante
cautela nell’accettazione immediata ed acritica della vicenda, quantomeno del suo significato e
delle cause politiche. Ad esempio, l’inaspettata lode di Tucidide nei confronti dello sconfitto Nicia,
reo di essersi arreso agli spartani in Sicilia, oppure la visione di Cleone quale affarista corrotto e
privo di scrupoli
12
, sono sintomi di un innegabile – e comprensibile – coinvolgimento dell’autore
nelle vicende narrate.
Ultima critica imputabile alla peraltro eccellente opera di Tucidide è la sua conclusione, che ci priva
della fedele cronaca di circa sette anni di ostilità, con il definitivo tracollo della potenza ateniese.
11
Si tratta de Athenaion Politeia, opera attribuita (?) a Senofonte e redatta tra il 430 ed il 420 a.C., e della Costituzione
di Atene, opera di Aristotele nel IV secolo a.C. Gli storici greci Cratippo e Teopompo di Chio elaborarono ulteriori
lavori inerenti alla guerra del Peloponneso, sfortunatamente non pervenuti.
12
Definizione peraltro ampiamente condivisa nell’opera I Babilonesi dal celebre drammaturgo Aristofane (ca. 450 – ca.
388 a.C.), che a sua volta visse la lunga guerra tra Sparta ed Atene e che, sopravvissuto ad essa, abbandonò la passione
politica.
10
*
Diecimila uomini in cerca del mare. La lunga ritirata di Senofonte
Allora – riprende – bisogna che andiamo ad eseguire quello che abbiamo deciso
e chiunque di voi vuole rivedere la sua famiglia di ricordi di comportarsi da uomo: non c’è altro modo per riuscire. Chi
ha desiderio di vivere, cerchi di vincere: chi vince uccide gli altri, chi è sconfitto, crepa. C’è uno che vuole far soldi?
Cerchi di vincere anche lui: chi vince salva la sua roba e piglia su anche quella dei vinti.
Senofonte, Anabasi, III, 2, 39
13
.
Il feroce conflitto peloponnesiaco, terminato nel 404 a.C. con la sconfitta ateniese, lasciò il mondo
greco stremato e devastato, abbattendo le orgogliose città stato e distruggendone le antiche alleanze:
anche qui, il paragone con l’annichilita Europa del secondo dopoguerra è istintivo.
In questo immoto scenario sociale e politico postbellico si inserisce la grande avventura dell’armata
mercenaria greca, i celebri “Diecimila”, ingaggiata dall’ambizioso fratellastro dell’imperatore
persiano Artaserse II, Ciro il Giovane. Questi, principe e generale dell’Impero, ricopriva l’incarico
di satrapo della Cappadocia, della Lidia e della Frigia, per volere del padre Dario II, alleato di
Sparta nella guerra peloponnesiaca. Ciro trovò difatti nel generale Lisandro
14
, intenzionato a riunire
sotto l’egida spartana l’intera Grecia, un valido alleato nel suo progetto di conquista del trono
imperiale, originariamente promesso al fratello Artaserse
15
. Dario morì nel 404.
Sparta, riconoscente verso il proprio vittorioso condottiero, ne ascoltò la richiesta di appoggio ed
assistenza bellica in favore di Ciro il Giovane. Il generale spartano Clearco, condannato a morte per
crimini commessi in qualità di tiranno a Bisanzio
16
, ebbe salva la vita e ricevette l’ordine di formare
un esercito di mercenari greci in Tracia; stesso compito ebbe Menone, in Tessaglia. I diecimila
guerrieri greci, punta di diamante dell’armata, si unirono alle preesistenti forze del satrapo - circa
20.000 uomini – attraversando la Lidia e la Pisidia, la Cilicia e la Fenicia, seguendo l’Eufrate fino a
poca distanza dalla capitale, Babilonia.
Informato dal fedele satrapo Tissaferne, l’esercito di Artaserse sbarrò il passo ai greci ed ai loro
alleati, dando origine alla battaglia di Cunassa o Cunaxa (401 a.C.), a nord di Babilonia, sulla
sponda sinistra del fiume Eufrate: i persiani risultarono timorosi nello scontro con i forti guerrieri
ellenici, temprati da decenni di guerra crudele, riuscendo tuttavia ad uccidere il pretendente al trono,
Ciro il Giovane. Gli spartani e gli altri greci fecero strage delle forze nemiche, subendo poche
perdite; tuttavia, era venuto a mancare l’unico committente e comandante dell’armata, la cui
componente greca si trovò isolata nel cuore dell’impero persiano, ad enorme distanza dalle colonie
greche sull’Egeo.
L’inganno del satrapo Tissaferne
17
portò alla cattura del generale Clearco e degli altri condottieri
ellenici, quali Prosseno, Agia, Menone, Socrate. Essi furono ceduti quindi ad Artaserse ed uccisi.
Il panico serpeggiò tra le fila degli opliti, dei fanti leggeri e dei peltasti greci, subito condotti verso
il lontano Mar Nero dal neoeletto generale Chirisofo e da Timasione, Filesio, Cleanoro, Santicle e
Senofonte. La ritirata dalle lande anatoliche, o katabasi, fu massacrante ed espose le truppe ad
inaudite prove, risalendo il Tigri attraverso l’Assiria, superando l’intera Armenia e raggiungendo
finalmente la costa del Mar Nero presso la città di Trapezunte. Vi pervennero solo nel 399 a.C.,
dopo innumerevoli scontri, terribili patimenti e sofferenze ad opera dei nemici, della fame e delle
malattie, del gelo invernale, delle asperità del terreno e dei fiumi.
13
Senofonte, Anabasi, nella versione di Valerio Massimo Manfredi, Oscar Mondadori, Milano 2007.
14
Vincitore della battaglia navale di Egospotami (404 a.C.), ove gli ateniesi portarono incautamente la propria flotta
dopo la presa, da parte dello stesso Lisandro, della città di Lampsaco. Privi di alleati in grado di sostenere l’immenso
costo della lunga guerra, gli ateniesi furono costretti alla capitolazione.
15
Dopo la citata spedizione mercenaria greca, Artaserse II, sopravvissuto al tentativo di colpo di stato del fratellastro, si
alleò con i nemici della stessa Sparta, quali Corinto, Tebe ed Atene nel corso della Guerra corinzia, terminata nel 386.
16
Clearco, figlio di Ramfias, combatté Atene durante la Guerra del Peloponneso e fu armosta di Bisanzio: non volle
sgombrare tale città e nel 403 ne fu scacciato dai suoi compatrioti. Divenne mercenario al servizio di Ciro.
17
Ucciso per vendetta della regina madre Parisatide in Frigia, nel 395 a.C. Artaserse II morì invece nel 358.
11
Il rientro in patria, via terra e via mare, fu ancora molto difficile, tra la diffidenza delle colonie
greche terrorizzate da un esercito così potente e disperato, la fame e la rabbia dei mercenari, le
devastazioni, il dolore dei feriti, l’insofferenza di ritrovarsi ad attendere a così poca distanza dalla
terra natìa, di ritornarvi senza bottino.
Senofonte, uno dei giovani condottieri del corpo di spedizione greco, ebbe un ruolo importante
dopo la scomparsa di Clearco e Prosseno, coadiuvando lo spartano Chirisofo nella condotta della
difficile e disperata ritirata.
Nato ad Atene in una nobile famiglia equestre tra il 430 ed il 425 a.C. e morto a Corinto nel 355,
ebbe per genitori Grillo e Pandora, diventando discepolo del celebre Socrate
18
. Senofonte fu soldato
e mercenario nella celebre spedizione, su invito del cugino Prosseno; vi partecipò per contrasti con
il duro governo dei Trenta Tiranni. Dopo l’uccisione dei condottieri da parte di Tissaferne ed
Artaserse
19
, divenne comandante delle truppe elleniche durante la difficile e penosa ritirata fino a
Trapezunte, e da lì a Pergamo, nel 399.
La condanna a morte dell’antico maestro filosofo lo spinse a diventare comandante dell’esercito
spartano per Dercilida e, successivamente, per il re Agesilao
20
, con il quale affrontò Tebe e la stessa
Atene a Coronea, nel 394.
Bandito a vita, non tornò mai più ad Atene. Si ritirò in un podere nell’Elide, a Skillunte, concessogli
da Sparta nel 387 e divenne successivamente storico. Nel 371 la zona venne invasa dagli Elei e
dovette riparare a Corinto con la famiglia; nel 367 tale Eubulo lo riabilitò ad Atene, ma
probabilmente ciò non valse a farlo tornare. Perse il figlio, Gryllos – lo stesso nome del padre di
Senofonte – nella terribile battaglia di Mantinea, combattuta nel 362 da Sparta, Atene ed alleati
contro Tebe e contro Epaminonda, affiancato da messeni ed arcadi.
In qualità di letterato, riprese e tramandò i detti socratici, scrisse saggi inerenti alla vita campestre,
oltre alle Elleniche. Divenne celebre per l’esaltante ed affascinante resoconto della spedizione
ellenica a Babilonia, l’Anabasi, o “Viaggio dalla costa all’entroterra”, titolo probabilmente prescelto
rispetto al più corretto Katabasi, “Viaggio dall’entroterra alla costa”. L’opera venne edita con lo
pseudonimo di Temistogene di Siracusa, in sette libri, in uno stile asciutto e preciso, caratterizzato
da una eccellente ed encomiabile attinenza del testo al fluire della narrazione. Elemento di notevole
importanza è l’uso della terza persona, successivamente ripreso con grande efficienza da un altro
grande condottiero, Caio Giulio Cesare.
L’Anabasi di Senofonte si pone dunque come cronaca precisa e priva di digressioni retoriche, resa
quasi impersonale dalla narrazione in terza persona, e tuttavia esaltante agli occhi del lettore. Si
tratta di un’opera che, per il suo stile semplice e comprensibile, viene proposta agli studenti come
approccio con la lingua greca classica; suo limite, nell’ottica di questa disamina degli antichi testi
dei “cantori di guerra”, è il carattere autobiografico.
Senofonte, è fondamentale sottolinearlo, visse per intero le vicissitudini della potente armata greca,
dalla partenza alla battaglia di Cunassa, dalla scioccante rivelazione della morte di Ciro il Giovane
al timore, all’incertezza che precedettero il tradimento di Tissaferne e la morte dei principali
condottieri ellenici.
In più punti dell’opera traspare un comprensibile sdegno nei confronti dei “barbari” incontrati e
combattuti nel corso dell’intera marcia verso le coste del Mar Nero, l’orgoglio e la forza militare
senza pari dei mercenari greci, uniti dal medesimo retroterra culturale e da un similare
addestramento militare, nonostante le devastazioni reciprocamente perpetrate nel corso della Guerra
del Peloponneso, appena terminata. Il forte senso panellenico pervade l’opera e ne costituisce,
probabilmente, il principale messaggio, o lascito, dell’autore.
18
Gli dedicò successivamente l’Apologia di Socrate, una appassionata difesa del maestro filosofo.
19
L’opera di Plutarco, Vita di Artaserse, insieme agli scritti di Ctesia e Dinone, oltre che di Diodoro, costituisce una
importante fonte di informazioni ausiliarie sui personaggi dell’Anabasi.
20
Senofonte dedicò un’opera encomiastica omonima al sovrano spartano. In totale, pervennero ai posteri quattordici
opere dell’autore, definito da Dionigi di Alicarnasso “l’ape attica” per la sua instancabile produzione.
12
Così parlò alle truppe Clearco, lo stratega in capo assassinato a tradimento da Tissaferne:
Nessuno dovrà mai dire che io, comandante di un esercito greco contro i barbari, abbia tradito i
Greci preferendo l’amicizia con i barbari (I, 3, 5).
Nella confusione e nel terrore successivi alla morte di Ciro a Cunassa, quando Falino, un greco al
servizio di Artaserse, si presenta al campo, lo stesso Clearco gli si rivolge in questo modo: Tu
(Falino) sei greco come tutti quelli che vedi qui.. Consigliaci la soluzione migliore (II, 1, 16 – 17).
Infine, le città costiere del Mar Nero, alla comparsa dal nulla di un simile, disperato esercito rotto ad
ogni combattimento, si affrettano a sbarrare le porte, oppure – dopo i primi saccheggi – ad inviare
prudenti ambascerie di pace. Queste le comprensibili parole dell’ambasciatore della città di Sinope:
Dobbiamo però farvi presente che siamo Greci anche noi e quindi ci aspettiamo di avere del bene
da altri Greci quali voi siete e non del male (V, 5, 9).
L’analisi storica di Senofonte, anche se redatta ad anni di distanza, comprende inevitabilmente – pur
non mancando, come visto, in precisione e purezza di stile della cronaca – il punto di vista
personale dell’autore, già combattente e protagonista delle affascinanti vicissitudini narrate, al
punto di assurgere al ruolo di condottiero dell’intera armata durante la ritirata.
Si tratta ad ogni modo di una eccezionale ed eccellente finestra temporale sui conflitti, i popoli, la
tenacia dei protagonisti di un’epoca lontana ed inquieta.
L’Anabasi forniva il ritratto di un uomo, Senofonte, che aveva certo seguito Ciro, un nemico di
Atene, ma senza mai dimenticare di essere un ateniese e, soprattutto, un greco, figlio di una
nazione che, unita e concorde, aveva ancora davanti a sé un grande futuro, nonostante
l’umiliazione subita con la pace di Antalcida
21
.
21
Senofonte, Anabasi, nella versione di Valerio Massimo Manfredi, Oscar Mondadori, Milano 2007.
13
*
Le guerre romane nella cronaca del condottiero vincitore. Caio Giulio Cesare
Giulio Cesare, il grande condottiero e dittatore romano, nacque nell’Urbe il 13 luglio del 100 a.C. e
vi perse la vita, in seguito alla nota congiura, il 15 marzo del 44 a.C. La sua vita fu, da sempre,
eccezionale. Nobile, eletto a pochi anni flamen dialis, sopravvisse alle proscrizioni sillane e
combatté in Bitinia e conto i pirati, nonché contro Mitridate. Divenne pontefice, tribuno militare e
questore in Spagna. Nel 59 dfu nominato console romano, grazie all’appoggio del ricchissimo
Crasso e del potente Gneo Pompeo; seguirono anni di folgoranti campagne militari nelle Gallie, che
portarono l’aquila romana fino ai confini del mondo allora conosciuto – la Britannia, ove Cesare
sbarcò nel 55 a.C., tornandovi l’anno successivo.
L’equilibrio di potere ai vertici di Roma, tuttavia, era destinato a vacillare. Nel 53, combattendo in
Mesopotamia, morì Crasso, alimentando la già forte rivalità tra Cesare e Pompeo; questi, nel
tentativo di screditare l’avversario, persuase il Senato – nonostante il clamore della grande vittoria
di Alesia e della cattura di Vercingetorige – ad ordinare la cessazione del titolo consolare, in
contrasto con il comando dell’armata in Gallia.
Il 23 novembre del 50 a.C. Giulio Cesare, al comando della XII legione, varcò il fiume Rubicone,
provocando la fuga dei senatori e di Pompeo, dapprima a Brindisi e quindi a Durazzo. Iniziò così
una guerra civile tra le più devastanti della storia, destinata ad estendersi a tutte le terre allora
conosciute e poste sotto l’egida romana: dopo la battaglia di Farsaglia, nel 48, Pompeo venne
assassinato a tradimento nel tentativo di riparare in Egitto. Dal 46, sconfitti l’ex luogotenente
Labieno e le residue forze pompeiane, nonché il re del Ponto, Cesare fu nominato dittatore per dieci
anni. Si dimostrò misericordioso con gli antichi nemici, in virtù della comune appartenenza alla
cittadinanza romana, ed adottò il nipote Ottaviano in qualità di suo erede. Alle idi di marzo del 44
a.C., tuttavia, un complotto pose fine ai suoi giorni.
La storia delle campagne galliche e britanniche, nonché del rientro in patria e della lotta per la
supremazia contro il Senato e le forze fedeli a Gneo Pompeo, è illustrata in due celebri opere, i
Commentarii de bello gallico, divisi in otto libri
22
e relativi alle campagne comprese tra il 58 ed il
52 a.C., ed i Commentarii de bello civili, suddivisi in tre libri e relativi agli anni 49- 48 a.C.,
pubblicati postumi dopo l’assassinio di Cesare
23
. La definizione “commentarii” designa un diario o
degli appunti personali, la cui pubblicazione – volta ad informare sia il pubblico, sia principalmente
il Senato - era usuale nella cultura letteraria romana.
I celebri Commentarii de bello gallico, ad una prima lettura, rivelerebbero esclusivamente un
eccezionale colpo d’occhio sulle vicende, le usanze, i rapporti sociali e politici alla base del tessuto
tribale e militare delle popolazioni galliche; allo stesso tempo, naturalmente, mostrerebbero i
dettagli tattici, offensivi, difensivi e logistici delle truppe romane ed alleate, l’abituale pretesa di
ostaggi e tributi dalle popolazioni sottomesse, l’uso delle macchine d’assedio, la grande perizia
bellica e l’astuzia politica dimostrate dalle legioni. Tuttavia, quest’opera è molto più profonda del
pur affascinante dipinto etnico, sociale, economico, naturalistico e militare che affiora in superficie.
Il De Bello Gallico, per usarne la denominazione più ricorrente, consiste in una sapiente e brillante
opera di propaganda, difesa e celebrazione delle azioni e della figura di un solo ed ambizioso
condottiero, Caio Giulio Cesare. Ogni sua frase, ogni resoconto ed ogni descrizione è volta alla
finalità ultima di proteggere l’operato del condottiero dalle critiche e dalle condanne provenienti
dall’élite romana, sempre più allarmata per il successo e la fama di Cesare.
22
L’ottavo libro fu redatto ad opera di Aulo Irzio (90 a.C. – 43 a.C.), console in seguito all’omicidio di Cesare.
23
Ulteriori opere di Giulio Cesare furono il De analogia, le Orationes, i Carmina. A lui attribuite, con qualche
incertezza, furono anche il Bellum Alexandrinum, Bellum Africanum, Bellum Hispaniense. Il De Bello Gallico, a quanto
pare, era originariamente intitolato C. Iulii Caesaris commentarii rerum gestarum.
14
Lo stile è preciso e semplice, privo di retorica o di orpelli letterari, redatto – come scelse lo stesso
Senofonte - in terza persona per aumentarne l’impressione di imparzialità, di cronaca: Cicerone
definì tali commentarii “nudi, recti et venusti”
24
.
Vengono descritte innumerevoli battaglie, ognuna preceduta da una attenta analisi della situazione
politica, delle alleanze nemiche, delle capacità belliche, logistiche e demografiche opposte alle
legioni romane: ricordiamo Bibracte nel 58 a.C., Sambre nel 57, Xanten e Walmer nel 55, lo sbarco
in Bretagna e gli scontri sul Tamigi nel 54 a.C., Avaricum, Gergovia nel 52 a.C., Uxelludunum nel
51. La sapiente cura dei dettagli, il tributo di onore al nemico ove questi si sia battuto
valorosamente, incrementano l’impressione di vericidità ed onestà narrativa dell’opera cesariana,
più di qualsiasi eccessiva denigrazione delle forze o dell’atteggiamento del nemico.
Ogni pagina, ogni azione presenta inoltre una raffinata ed impercettibile, duplice valenza.
Ad esempio, la celebre cronaca del lungo e sanguinoso assedio di Alesia in Borgogna
25
, nel 52 a.C.,
è allo stesso tempo un eccelso trattato di tattica bellica e di alta strategia, nonché un evidente tributo
al coraggio romano, alla determinazione ed alle capacità di previsione del comandante in capo. Le
truppe romane si trovarono ad assediare centomila guerrieri rinchiusi nella città tra i fiumi Ose ed
Oserain, a loro volta circondate da 248.000 fanti e cavalieri gallici, reclutati in soccorso di
Vercingetorige; la vittoria romana, la strage dei civili e dei guerrieri nemici, la distruzione della
città e la sconfitta delle trbù coalizzatesi contro i romani, costituiscono automaticamente sia una
dura cronaca bellica, sia un immortale tributo a Cesare.
La stessa coesistenza di precisa cronaca e sottile propaganda si trova anche nei Commentarii de
bello civili, redatti in seguito alla battaglia di Munda (17 marzo 45 a.C.), che vide la morte dei
pompeiani Tito Labieno ed Attio Varo. Questa seconda opera riporta la cronaca degli scontri
fratricidi tra le due fazioni che dilaniarono Roma e le colonie, da Ilerda nel 49 a.C. a Durazzo, da
Farsalo nel 48 ad Alessandria, da Zela ad Adrumeto e Ruspina (47 a.C.), fino a Tapso, nel 46.
L’esigenza giustificativa e la necessità di mostrare la propria perizia di comandante ed uomo
politico, in questa seconda opera, sono ancora più sensibili: Cesare avverte pienamente il grave peso
derivante dall’aver levato le armi, nella fattispecie le sue fedeli legioni, contro la personificazione
dell’autorità sacra di Roma, il Senato.
Neppure la fredda cronaca cesariana resta impassibile alla morte del grande antagonista, Pompeo,
narrata nel terzo libro insieme all’esecuzione di Potino.
Il valore di cronaca delle due principali opere cesariane non è mai stato messo in discussione nel
corso dei secoli, se non nell’ambito di singoli episodi
26
; la messe di dati culturali, religiosi, sociali e
di osservazioni naturali è stata più volte verificata dall’analisi storica ed archeologica.
Come rilevato, tuttavia, Giulio Cesare fu allo stesso tempo un brillante generale e cronista, ma
anche un accorto e scaltro uomo politico: ogni avvenimento narrato, ogni frase riferita dev’essere
necessariamente inserita nell’ottica di una contrapposizione tra Giulio Cesare, il Senato e le
macchinazioni politiche degli avversari romani.
Tale esigenza di propaganda ed autogiustificazione, o auto- assolvimento, permea entrambi i
Commentarii, costituendo un primo appunto circa la complessiva attendibilità di cronaca
dell’autore; una seconda, inevitabile critica, consiste nell’univocità pressoché completa di tali
resoconti, sempre editi da autori romani.
Nessuna cronaca è pervenuta dalle controparti affrontate, né dalle terre d’oltralpe, né dall’Egitto;
non disponiamo che della cruda e navigata descrizione cesariana, in merito alla caduta di Alesia ed
alla resa di Vercingetorige, né dell’ultima fuga di Gneo Pompeo, né ancora della disfatta dei suoi
ultimi ufficiali a Munda. La vittoria romana ha conquistato tutti i fronti, compreso quello letterario.
24
“Eccellenti, nudi e schietti”. Cicerone fornì tale valutazione nella sua opera Bruto.
25
Andrea Frediani, Le grandi battaglie di Giulio Cesare, Newton & Compton, Roma 2003.
26
Svetonio, nel suo Cesare, illustra le critiche del generale Asinio Pollione riguardo alcuni marginali tratti narrativi, a
suo dire inseriti da Cesare nel De Bello Gallico dopo aver ascoltato i luogotenenti che furono protagonisti dei fatti, ma
senza controllare personalmente l’attendibilità di tali fonti.
15
*
Le orde e l’invasione dell’Europa. Echi di terrore e mistificazione
Tra il 434 ed il 454 d.C., alle soglie della caduta dell’Impero romano d’Occidente, le popolazioni
barbariche in marcia verso ovest fino ai confini imperiali anticiparono la rovina ed il flagello
portato dagli Unni. Feroci e durissimi arcieri a cavallo provenienti dalle remote steppe asiatiche,
essi travolsero rapidamente ogni resistenza, installando il regno predatore del loro condottiero,
Attila, nel cuore dell’Ungheria: un regno di terrore esteso dal Reno ai Balcani, dal Baltico al Mar
Neroun potere giunto a minacciare la penisola italiana ed il Medio Oriente.
La devastazione causata da questi nomadi, il carattere alieno e quasi inconcepibile della loro
condotta bellica furono così impressionanti da colpire perfino lo stile dei cronisti, molti dei quali
direttamente coinvolti negli avvenimenti e negli scontri. Le precise ed impersonali cronache
d’epoca cesariana, per non parlare dell’obiettivo e scrupoloso racconto dei fatti offertoci dagli
antichi Senofonte e Tucidide, vengono anch’esse cancellate dall’avanzata travolgente dei nuovi,
temutissimi “barbari”, così differenti dalle popolazioni ormai da tempo integrate nei sempre più
labili confini imperiali.
Girolamo, successivamente santo della Chiesa cattolica romana, fu involontario testimone dell’onda
di terrore che nell’estate del 395 colpì le sponde del Mar Nero, propagandosi inarrestabile fino alle
odierne Turchia e Siria: la sua cronaca di sopravvissuto alla catastrofe, pur redatta nella sicurezza di
Betlemme, ad un anno di distanza, impressiona tuttora per l’incoerenza, l’incapacità dell’autore di
rendere in termini accurati e di compitare dettagliatamente la portata dell’invasione.
“Ecco, i lupi, non dell’Arabia, ma del Nord, ci sono balzati addosso l’anno passato, dalle lontane
vette del Caucaso, e in un attimo hanno invaso immense province. Quanti monasteri sono stati
conquistati, quanti fiumi si sono tinti di rosso per il sangue versato! (…) Neppure se parlassi cento
lingue e avessi cento bocche e una voce di ferro potrei narrare tutte quelle catastrofi. Hanno
colmato la terra di strage e terrore scorrazzando in ogni dove sui loro fulminei cavalli. (…)
Arrivavano ovunque prima che ci si potesse accorgere: veloci come il vento, giungevano prima
delle voci e non avevano pietà della religione, né del rango, né degli anziani o del pianto dei
bambini”
27
.
Gli fa eco un sacerdote siriano, Cirillo, che scrisse nel medesimo periodo:
“Se gli Unni mi cattureranno, o Signore, a quale scopo ho cercato asilo con i santi martiri? Se le
loro spade uccideranno i miei figli, a quale scopo ho abbracciato la Tua venerabile croce? (…)
Non è ancora passato un anno da quando sono arrivati e mi hanno distrutto catturando i miei figli,
ed ecco che di nuovo minacciano di umiliare la nostra terra”
28
.
Scrisse ancora nel 447 un altro ecclesiastico, il monaco Callinico, che risiedeva a Calcedonia – città
antistante l’allora Costantinopoli – e poté quindi constatare direttamente l’incommensurabile
massacro perpetrato fin sotto le mura di questa importante capitale.
“Perfino i monaci preferirono fuggire a Gerusalemme. Fu una tale carneficina, che nessuno poté
calcolare i morti. I barbari saccheggiarono le chiese e i monasteri e trucidarono i monaci e le
vergini”.
27
Cronaca riportata da John Man, Attila, il re barbaro che sfidò Roma, Oscar Storia Mondadori, Milano 2007.
28
John Man, ibidem.
16
Impressionante, ancora oggi, il suo tragico ed esterrefatto commento finale: “La Tracia è stata a tal
punto devastata che non si risolleverà mai più”
29
.
Il sovrano unno, Attila, sarebbe stato fermato e costretto a tornare oltre il fiume Reno nel 451 nei
dintorni di Châlons- sur- Marne, località a nordest di Parigi, da una coalizione di imperiali e barbari
fedeli guidata dal generale romano Ezio e composta da Burgundi e Franchi, Visigoti ed Alani: una
minaccia talmente inaudita da integrare, seppure temporaneamente, gli eredi delle gloriose legioni
romane con i figli dei popoli da esse combattuti.
Il paragone con un altro leggendario e feroce conquistatore asiatico, che imperversò secoli più tardi,
è istintivo ed obbligato. All’Europa non sarebbe infatti stato concesso di dimenticare l’orrore delle
grandi ondate predatorie giunte dalla lontana Asia: cronache parimenti terrorizzate e sconnesse,
frammentarie, si sarebbero ripetute in seguito alla catastrofica disfatta dei cavalieri russi a Kalka,
nell’Ucraina del sud (1223). Responsabili del massacro, per quanto in forte inferiorità numerica,
furono gli agili arcieri a cavallo mongoli di Gengis Khan, comandati da Subedei Bahadur.
Successivamente a questa vittoria, le orde mongole estesero il khanato lungo il Volga fino alla
Bulgaria, conquistando parte della Russia nel 1237 ed occupandola per due secoli e mezzo. Tra il
1236 ed il 1242, i mongoli conquistarono inoltre parte dell’Europa, l’Ungheria e la Polonia,
giungendo alle porte di Vienna. Gli inconsulti resoconti della brutale e spietata avanzata mongola
sembrano riecheggiare, per terrore e scoramento, i citati racconti della precedente invasione unna.
La città musulmana di Herat si arrese e la sua popolazione fu graziata, non così i dodicimila soldati
posti in sua difesa; invece, le città di Nishapur e Merv (Asia centrale) vennero rase al suolo.
Incredibile, inaudito il numero delle vittime, in particolare a Merv, nel 1221: città musulmana di
70.000 abitanti, in cui si erano rifugiati più di 700.000 profughi, si arrese solo in un secondo tempo.
I mongoli condussero l’intera popolazione fuori dalle porte cittadine, dandosi al saccheggio ed alla
distruzione degli edifici e delle mura. Dopodiché, preservando solamente quattrocento utili
artigiani, ad ogni militare mongolo – solo 7000 cavalieri – venne ordinato di giustiziare tra le
trecento e le quattrocento vittime civili.
Dopo giorni di massacro e giorni di macabri conteggi sul luogo del disastro, un testimone
ecclesiastico compitò la strabiliante cifra di un milione e trecentomila morti ammassati nella piana,
da aggiungersi al milione di morti della città di Urgenč, sul Lago d’Aral, alle centinaia di migliaia
di soldati cinesi, asiatici, russi ed europei massacrati in battaglia, ai milioni di civili funzionalmente
ed opportunamente trucidati nel corso delle campagne del Khan
30
e dei suoi generali. Si trattava di
uno dei semplici canoni della disciplina bellica mongola, che predicava il totale sterminio di ogni
nucleo di resistenza all’avanzata, volto a propagare una dose esponenziale di terrore tra i popoli
ancora da raggiungere.
Non sono sopravvissute cronache dettagliate, non vi è alcun testo che, nell’ammirevole e freddo
stile di Caio Giulio Cesare, descriva l’aspetto fisico e l’equipaggiamento degli invasori, la loro
organizzazione sociale e militare, o che approfondisca in qualche modo la loro lucida ed
inarrestabile ideologia di sterminio.
Non vi è cronaca che, come nel De Bello Gallico, apra il suo resoconto con una precisa
suddivisione del territorio nemico in zone, etnie e potenze, passando ad analizzarne i punti di forza
e le alleanze, le capacità demografiche e di vettovagliamento, per poi vagliare gli avvenimenti, le
marce forzate, gli scontri e gli assedi, con un preciso conteggio delle vittime, delle posizioni perse e
guadagnate, dei nomi dei condottieri più valorosi o sfortunati.
Le voci giunte sino a noi da quest’epoca feroce, è comprensibile, non conservano alcun retaggio di
storicità, accuratezza di cronaca ed esatta compitazione cronologica degli eventi: il terrore e l’orrore
abbattutisi sulla terra, in seguito all’Orda mongola, furono semplicemente troppo inauditi per
29
John Man, ibidem.
30
Come noto, l’Impero mongolo ebbe breve vita. Alla fine della vita terrena di Gengis (nell’agosto 1227), si suddivise
in diverse zone, russa, persiana, centro- asiatica, cinese.
17
tramandare qualcosa di più concreto di oscure visioni di città e campagne messe a ferro e fuoco,
interi popoli assimilati in catene o sterminati, echi di apocalittiche esecuzioni di massa che
sembrano richiamare direttamente i più bui momenti del Ventesimo secolo.
Rimasero solo resoconti di testimoni angosciati ed increduli, tramandati, modificati, esagerati e
rimaneggiati centinaia di volte nei secoli successivi, come epitaffio di una tragedia troppo
incommensurabile per poter essere analizzata e tramandata in maniera più precisa.
L’orda venne interpretata in chiave prettamente religiosa: una punizione divina, sgorgata
direttamente dall’inferno, e pertanto impossibile da quantificare in modo scientifico. Una entità
malvagia da leggere in chiave teologica, piuttosto che in modo storico: un antico orrore eletto a
monito perpetuo circa la fragilità della condizione umana ed il bisogno costante dell’appoggio
divino.
18
*
La guerra santa ed i suoi cronisti nel Medioevo
Il periodo medievale europeo fu caratterizzato da una sequenza pressoché ininterrotta di conflitti di
scala ridotta, con occasionali estensioni internazionali, quali ad esempio le Crociate. Tali scontri
erano generalmente dovuti a motivi dinastici ed improvvisi “vuoti” nella linea di successione,
brama insaziabile di potere, persecuzioni religiose e razziali, intrighi ed omicidi politici.
Nel “buio” di un’epoca violenta ed incerta, la ridotta componente colta della popolazione
31
– l’unica
in grado di trasporre sulla pergamena la cronologia e la narrazione degli avvenimenti storici – era
caratterizzata da alcuni importanti aspetti.
Innanzitutto, la precarietà delle condizioni di vita, la miseria generalmente imperante e la
rarefazione dei poli culturali – quali università, monasteri, biblioteche – costringevano i dotti
medievali ad una vita incessante di peregrinazioni da un capo all’altro d’Europa, facilitate tuttavia
dalla comune padronanza della lingua colta dell’epoca, il latino. Gli stessi motivi obbligavano i
cronisti a dipendere da singole casate nobiliari, da potenti signori feudali o influenti organizzazioni
commerciali quali le corporazioni; tale stretta dipendenza e vicinanza al committente si rifletteva
profondamente sulla qualità obiettiva e sulla sincerità stessa del racconto, perpetrando la
caratteristica – già incontrata nelle pur precise cronache d’epoca romana – di quasi totale univocità
delle fonti.
Ulteriore elemento caratteristico di molte cronache medievali era la comune matrice religiosa della
maggioranza degli autori, appartenenti ai vari ordini ecclesiastici. Per questi motivi, la precisione
della cronaca e l’affidabilità storica, politica e cronologica della narrazione era frequentemente
inficiata da continue interpolazioni religiose o mitologiche, dall’appartenenza dell’autore a correnti
o fazioni, dalla costante necessità di sottolineare il valore e la preminenza di un protagonista a
scapito degli avversari poltici o militari.
Mitologia, superstizione, totale assenza di criteri condivisi di vericidità e scientificità, tendenza a
citare le medesime fonti – anche lontane nel tempo – senza averle verificate di persona, carenza
delle più basilari nozioni geografiche caratterizzarono insomma la maggior parte delle cronache
medievali. Gli esempi di simili resoconti sono molteplici.
Salito al soglio pontificio l’8 gennaio 1198, Innocenzo III
32
divenne uno dei principali fautori della
politica offensiva della Chiesa cattolica romana nei confronti dei propri nemici – eretici, presunti o
reali, ed “infedeli”. Ad agosto, nel medesimo anno della sua elezione a vicario di Cristo, inviò
l’enciclica alla base della Quarta crociata. Per i territori spagnoli, tuttavia, gli aderenti potero
assolvere l’impegno di crociati combattendo il califfato almohade, la cui presenza in Spagna aveva
causato secolari scontri con le forze dei re cristiani.
Il 17 luglio 1212, a Las Navas de Tolosas, la cavalleria e la fanteria della coalizione cristiana –
guidata da Alfonso VIII di Castiglia, Pietro II di Aragona, Sancho VII di Navarra, Diego Lòpez de
Haro di Biscaglia, con partecipazione di milizie francesi, austriache e portoghesi – sbaragliò le forze
del califfo Muhammad an- Nasir. La cronaca dell’epica battaglia, causa del progressivo declino del
potere almohade nell’odierna Spagna, non mancò tuttavia di pesanti interpolazioni d’origine
religiosa: il pontefice non si congratulò con il sovrano di Castiglia, affermando
“Non le mani della tua altezza ma del Signore hanno compiuto tutte queste cose (…). La vittoria si
verificò indubbiamente non per mezzi umani ma divini (…). Non andare dunque orgoglioso perché
lì caddero coloro che operano perfidamente, ma rendi gloria e onore al Signore, dicendo
31
Come noto, tuttavia, tale ristretta percentuale – nell’arco di più generazioni – riuscì a salvare e perpetuare gli antichi
testi classici, greci e romani, in seguito riconosciuti come vere fondamenta della cultura letteraria occidentale.
32
In precedenza, conte Lotario di Segni. Il suo pontificato stabilì la condotta delle Crociate da parte del Vaticano, non
più da parte dei singoli sovrani europei, quali in precedenza – ad esempio - Luigi VII e Filippo II di Francia, Riccardo I
d’Inghilterra, Federico I di Germania.
19
umilmente con il profeta, lo zelo del Signore degli eserciti ha fatto questo. E mentre altri esultano
gloriandosi di cocchi e cavalli, tu gioisci e gloriati nel nome del Signore Dio nostro”
33
.
L’epopea secolare delle grandi crociate cristiane, iniziate nell’estate del 1099 con la conquista di
Gerusalemme da parte del nobile Goffredo di Buglione, vide una precisa concezione dei rapporti
con il nemico: non più un avversario al quale riconoscere valore e caparbietà, nemmeno per
aumentare la gloria del condottiero vincitore, bensì una entità “altra”, aliena, investita del ruolo di
infedele, simbolo e personificazione dell’accezione politica e religiosa del Male, privata perfino del
riconoscimento delle più basilari motivazioni che l’abbiano spinta alla guerra.
Nell’epoca della cavalleria e del suo onorevole codice, il nemico – quantomeno, il nemico
“infedele” o eretico – non meritava più l’onore delle armi e tantomeno il rispetto dei posteriori,
valori azzerati e cancellati dalle cronache sotto l’imperativo dominante del grande conflitto di
civiltà e religioni.
I cronisti giustificarono ogni avvenimento bellico, ogni vittoria ed ogni disfatta, in base
principalmente al favore o alla contrizione divina, nell’ambito di una totale disumanizzazione del
nemico
34
musulmano che nega assolutamente l’ipotesi che, anch’esso, condivida in fondo le
medesime paure e velleità dei guerrieri cristiani. Il meccanismo delle indulgenze, vere promesse di
remissione parziale o completa dei peccati in cambio della fedeltà alla causa crociata, venne
perfezionato proprio dal pontefice Innocenzo III, cementando definitivamente la visione religiosa e
politica di un Dio guerriero, posto a fianco di nobili, religiosi e civili, a loro volta guerrieri santi.
L’elemento divino, assurto come visto ad onnipresente giustificazione o causa per qualsiasi
avvenimento, non è solo nel caratterizzare le cronache medievali.
Imperversano difatti i resoconti, certo basati su fatti reali e successivamente ingigantiti per
lontananza dalle fonti o per volontaria mistificazione, di immani atrocità reciprocamente perpetrate,
in base al più totale sprezzo dello status di civile inerme. Sono passati molti secoli dai Commentarii
cesariani, precisi e scrupolosi nell’elencare i dettagli naturali e demografici, eppure si nota una
disarmante involuzione nell’attendibilità delle ricostruzioni: i costumi dei popoli descritti, in modo
particolare i più remoti, vengono dipinti in maniera approssimativa o del tutto inventata, sulla scia
della già citata abitudine di riportare voci senza prima analizzarne cautamente le fonti.
Cronache con pretese storiografiche popolano deserti e montagne di creature mitologiche o
vagamente umanoidi, dando per scontata e perfettamente attendibile l’esistenza di bestiari a dir
poco surreali; perfino i mari, conosciuti e navigati sin dalla più remota antichità della razza umana,
vengono ancora popolati di mostri marini, a loro volta personificazioni animali del Maligno
35
.
33
Innocenzo III, “Opera”, vol. CCXVI, Patrologiae cursus completus. Series Latina.
34
Possibile preludio dell’involuzione del concetto di nemico verificatasi nel corso della lunga guerra del Vietnam. Rare
eccezioni a questo assioma disumanizzante si verificarono nei pur durissimi scontri tra i sovrani cristiani della Terra
Santa ed il celebre condottiero musulmano, Saladino.
35
Lunga ed affascinante è la casistica di “avvistamenti” medievali di simili esseri marini, dalla Historia de’ Gentibus
del vescovo cattolico Olaus Magnus (1490 – 1557) alla Histoire naturelle di Pierre Belon (1517 – 1564), al
Prodigiorum ac ostentorum chronicon (1557) di Conradus Lycosthenes ad innumerevoli altre opere dalla presunta
vocazione scientifica e storica.
20