32
«Nel momento in cui avviene uno strappo nel sistema delle protezioni ravvicinate
14
, la sociabilità primaria
è tesa più che lacerata e la riuscita delle operazioni dipende dalla sua elasticità, che non è infinita. Possono
prodursi delle dismissioni, degli abbandoni, dei rifiuti. Le reti primarie di solidarietà possono essere
squilibrate da tali sovraccarichi e rompersi. Queste prese in carico, a causa del sovrasfruttamento, possono
anche essere pagate a caro prezzo, con piccole persecuzioni o con un pesante disprezzo» (1995, 76).
1.4 La condizione di essere senza casa: effetti sulla costruzione del sé e sulle
possibilità di uscita dalla povertà
Io: «Quindi tu Giorgio… dormi per strada?»
G: «Sì, dormo per strada, sono un barbone come si dice. Però non è una cosa che ho accettato subito. Le
prime due settimane le ho passate a dormire seduto su una panchina. Stavo al parco e dopo un po’ mi
addormentavo lì sulla panchina, ma da seduto eh. Non riuscivo proprio ad accettare questa cosa. Col
passare del tempo mi sono detto che non potevo andare avanti così, allora sono venuto qui [in Galleria].
Ora per lo meno dormo coricato, sto molto meglio ora» (Giorgio, 35 anni).
Attraverso la sua testimonianza, Giorgio ci mostra come abbia dovuto affrontare la difficile
accettazione della sua condizione di senza casa, dopo la quale è iniziato un processo di adattamento
alla vita in strada che lo ha portato a modificare i propri comportamenti. In questo paragrafo,
analizzo quali sono gli effetti che la mancanza di un’abitazione esercita nei confronti delle persone
che si trovano in questa situazione.
La mancanza di una casa – materialmente intesa – è l’aspetto più evidente della condizione oggetto
di studio. Questa privazione impedisce agli individui di porre un confine tra loro e gli altri,
generando l’assenza di uno spazio intimo e privato che ha conseguenze nella sfera di costruzione
del sé. Come scrive Goffman, per le persone senza casa è difficile «edificare una frontiera fra ciò
che sono e ciò che li circonda» (1961, 53). Infatti, nell’analisi del sociologo canadese, è nel definire
i propri limiti riguardo al contatto fisico con gli altri e nel creare e proteggere uno spazio personale
che si manifesta una delle più elementari tecniche di presentazione di sé
15
.
14
Con tale concetto, Castel si riferisce al variegato insieme di pratiche di assistenza che vengono intraprese nei
confronti della parte di popolazione deprivata (1995).
15
Goffman afferma che «l'insieme delle proprietà personali ha un particolare rapporto con il sé. L'individuo ritiene, di
solito, di esercitare un controllo sul modo in cui appare agli occhi degli altri. Per questo ha bisogno di cosmetici, vestiti,
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Secondo Douglas (1991), acquisire un senso di controllo, agency ed espressione personale è
essenziale per costruire il significato di home. A differenza di altri luoghi pubblici, dove la nostra
condotta è controllata dagli altri, a casa possiamo essere noi stessi. L’abitazione è un luogo nel
quale le persone possono esprimere la propria identità personale in molteplici modi, incluso in
relazione al genere, all’orientamento sessuale, all'etnia, alla classe sociale, alla nazionalità e simili,
ma anche in termini di identità e gusti subculturali (ibidem)
16
. Il legame tra abitazione e identità si
manifesta anche nella scelta del tipo di casa, nel suo arredamento o nella sua posizione, poiché
anche i quartieri sono presumibilmente espressione dell’identità di una persona; il legame tra questi
due elementi si mostra nella scelta che viene fatta, o anche solo nelle possibilità di scelta,
determinate dal gusto culturale o dalle possibilità economiche.
Secondo Meo (2008), la mancanza di una casa ha un effetto su numerosi altri aspetti della vita di
un individuo, tra cui le attività riproduttive, la propria privacy, la possibilità di scegliere con chi
condividere un pasto o il luogo dove dormire e la custodia dei propri oggetti. Più in generale, come
scrive l’autrice:
«Le condizioni del non abitare influenzano la definizione di un calendario della giornata: comportano
l'esigenza di dover sincronizzare i propri ritmi temporali con quelli delle varie istituzioni con cui si entra
in contatto e che forniscono i beni di prima necessità (mense, dormitori, centri distribuzione di indumenti,
centri di ascolto). Implicano dover subire l'imposizione di un ciclo di vita giornaliera che è del tutto
estraneo» (2008, 119).
Inoltre, la mancanza di un’abitazione limita significativamente la capacità di trovare soluzioni per
uscire dalla condizione di senza casa, creando una situazione che perpetua se stessa. Ciò avviene a
causa delle difficoltà che le persone incontrano nel trovare e mantenere un lavoro nel tempo. Infatti,
da una parte, scegliere di usufruire dei dormitori significa dover sottostare rigidamente agli orari
di ingresso e di uscita, non avere un domicilio ed essere stigmatizzato per il fatto di doversi
dichiarare ospite della struttura (ibidem). Dall'altra parte, chi dorme per strada deve affrontare
e di strumenti per adattarli [..]; di un luogo accessibile, sicuro, dove poter conservare queste scorte e gli strumenti di
lavoro - in breve, l'individuo ha bisogno di un corredo per la propria identità per mezzo del quale poter manipolare la
propria facciata personale» (1961, 49-50).
16
È importante sottolineare che ciò non è sempre vero. Situazioni domestiche difficili, come quelle caratterizzate da
condizioni materiali non dignitose, violenza psicologica o fisica, tossicodipendenza o rigidità mentale dei genitori nei
confronti delle forme di espressione dei figli, possono rendere la casa un luogo oppressivo.
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difficoltà riguardanti la cura della propria persona, il riposarsi adeguatamente e l’accumulo di
risorse, le quali esercitano un’influenza negativa sulla questione. Durante una conversazione a
pranzo presso una delle mense della Città, Roberto ha espresso in questi termini la questione:
«Guarda, avere una casa aiuta anche a mantenerlo un lavoro: a dormire per terra ti spezzi la schiena. Ma
poi giusto per darsi una sistemata sai… farsi una doccia, la barba, cambiarsi i vestiti. Sembra una cosa
banale, ma alla fine fa la differenza» (Roberto, 49 anni).
Secondo Meo (2008), la mancanza di una casa che determina la difficoltà dell’individuo di
mantenere un’occupazione stabile si sostanzia nell’impossibilità di proiettarsi nel futuro. Inoltre,
chi si trova in questa situazione deve adattare il proprio comportamento alle necessità di
sopravvivenza, investendo tempo ed energie nell’acquisizione di beni primari necessari al
sostentamento quotidiano (ibidem).
Dall’altra parte, durante la mia permanenza in Galleria, ho avuto l’opportunità di assistere a
un’interessante conversazione avvenuta tra un volontario che distribuiva del cibo e Giorgio,
riguardo alla possibilità di avere un lavoro.
Nota del 14/02/2023, Galleria
Sono quasi le 21, dopo una settimana più calda di quello che ci si aspettava per questo periodo
dell’anno, da qualche giorno è tornato il freddo, ci saranno cinque o sei gradi al massimo ora.
Passando per le vie che circondano la Galleria, ho fatto la conoscenza di Abe, un uomo di circa
quarant’anni di origini africane che dorme in uno dei portici qui attorno. I suoi modi tranquilli e
cordiali lo rendono una persona molto piacevole e rassicurante.
Ci siamo seduti per terra a parlare, l’ambiente circostante era piuttosto sporco. Questo portico era
quello meno in vista e meno curato di tutti quelli che si trovano attorno alla Galleria, tant’è che a
meno di cento metri da dove eravamo c’era quello che veniva utilizzato come bagno da chi dorme
qui. Il bagno non era altro che un grosso portone in lamiera abbastanza grande per far passare una
macchina, con una rientranza nel muro di un paio di metri che permetteva qualche secondo di
privacy tra il passaggio di una persona e l’altra. Non mi sentivo a disagio a stare seduto in quel
luogo, però considerando che eravamo così vicini alla Galleria, molto più pulita e riparata dal vento,
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l’unico motivo che vedevo per decidere di dormire sotto questo portico era la “privacy” data dalla
minor presenza di persone, con casa o senza che fosse.
Suonò il cellulare di Abe: «È la mia famiglia, devo rispondere», mi disse. Prima di mettersi al
telefono chiamò vicino a noi Giorgio. Come capii più avanti, i due passavano molto tempo insieme
durante la sera, tutti i giorni. Giorgio era un ragazzo sui trentacinque anni, alto poco meno di un
metro e ottanta, abbastanza atletico, originario del sud Italia, occhi azzurri, barba folta non fatta da
un paio di settimane. Aveva una bella parlantina. Era senza una casa da cinque mesi e da un paio
passava le notti nella Galleria.
Intanto che parlavamo arrivarono anche tre giovani ragazzi a distribuire del cibo, facevano
volontariato per una cucina solidale della Città, chiamata Sant'Egidio. Mi era evidente che questi
ragazzi avessero già visto altre volte Giorgio e Abe, inizialmente era solo una mia percezione basata
sui modi in cui interagivano, a tratti amicali. Come poi capii parlando con diversi volontari durante
la mia ricerca, la Città veniva suddivisa in percorsi per consegnare il cibo, i quali venivano
assegnati agli stessi gruppi. In questo modo si cercava di creare un legame tra volontari e persone
aiutate.
Prima di andarsene, uno dei tre ragazzi si rivolse direttamente a Giorgio: «Tu sei il ragazzo che
viene dalla Campania, vero? Mi hanno parlato di te in associazione. Stai cercando un lavoro?».
Intanto che ascoltavo la conversazione pensai: «Ecco, hai trovato la soluzione ai tuoi problemi
Giorgio!». E invece mi sbagliavo. La sua risposta fu: «Per ora no, grazie». Inizialmente rimasi
sinceramente spiazzato da quanto detto da Giorgio.
Provai a chiedere a Giorgio come mai avesse risposto così: «Ho risposto così perché mi sentivo
che quella era la risposta giusta per ora».
È difficile capire esattamente cosa abbia spinto Giorgio a rispondere in questo modo, ma il fatto
che non stesse cercando lavoro in quel momento non significa che non lo farà in futuro.
Nei giorni successivi, durante una discussione con Abe, Giorgio gli disse: «Guarda che io non
lavoro per te! O meglio, sì, lavoro per te, ma lo faccio a modo mio». Non ho mai capito cosa volesse
dire con quella frase. Forse si riferiva a qualche lavoro illecito che veniva svolto anche da altre
persone senza casa che ho conosciuto, ma non lo potremo mai sapere con certezza. Dopo quella
conversazione, uscii dal campo per farvi ritorno un paio di giorni dopo, ma Giorgio non c’era più,
era tornato a casa nel suo paese nativo.
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Un’ulteriore conseguenza del vivere per lungo tempo in strada consiste nella possibilità di perdere
la capacità di abitare una casa. Sono molti gli esempi riportati in letteratura di persone senza casa
alle quali viene fornita un’abitazione che non sanno più come utilizzare. Ciò avviene perché la vita
“in strada” socializza l’individuo ad un abitare la città che mal si coniuga ai modi del vivere una
casa. Come sostiene Meo:
«Il problema abitativo, per molti soggetti, non può esaurirsi con l'assegnazione del bene “casa”, ma deve
coinvolgere quei funzionamenti della persona non adeguati, disattivati o compromessi dal permanere in
strada, quali per esempio la cura della propria persona, l'autocontrollo, la competenza nella gestione del
tempo, il superamento della vergogna, la capacità di amministrazione del denaro, l'individuazione di
soluzioni di fronte agli imprevisti» (2008, 130).
Secondo l’autrice, il tempo è il fattore determinante della questione. Ne consegue, che
l’assegnazione di un’abitazione risulta utile quando la persona senza casa è tale da relativamente
poco tempo ed è ancora dotata «di risorse motivazionali, di capacità di autogestione e di reattività
alla situazione» (ibidem).
La questione della capacità di abitare una casa costituisce un elemento di differenziazione tra le
persone senza casa e influisce sulle possibili soluzioni per questa difficile condizione. Nel caso in
cui si attribuisca solo l'oggetto "casa", in questo caso si rischia di applicare un palliativo, curando
l'effetto di una condizione, invece della sua causa.
1.5 La ri-significazione dei luoghi da parte delle persone senza casa
In questo paragrafo analizzo il processo di ri-significazione dei luoghi da parte delle persone senza
casa, con particolare attenzione alle modalità tramite le quali essi attribuiscono alle porzioni di città
dei significati alternativi rispetto a quelli dominanti. Senza una casa a disposizione, le persone che
si trovano in questa condizione sviluppano tecniche di adattamento all'ambiente urbano con
l'obiettivo di garantirsi la possibilità di riprodurre tutte quelle azioni e comportamenti che sono
tipici di chi ha una casa propria.
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Un utile punto di riferimento per questo studio è il lavoro proposto da Genova e Becchis (2010), i
quali riflettono sulla nozione di “città invisibile”
17
definendola come:
«[...] l’idea di una città, o di una porzione di città, in riferimento alla quale emergono processi interpretativi
divergenti, con la conseguenza che l’adozione di una sola prospettiva di osservazione tra le molteplici
esistenti oscura di fatto tutte le altre, rendendo invisibili all’osservatore i luoghi stessi di cui la città è
composta, intesi quali processi di significazione dello spazio» (ivi, 133).
Secondo gli autori, adottare una determinata prospettiva di osservazione dell’ambiente – dalla
quale derivano significati e modalità di utilizzo specifici – potrebbe rendere invisibili gli usi
alternativi dello stesso. Questo approccio si basa sui processi di interpretazione messi in atto dagli
attori nella comprensione e interpretazione dello spazio: laddove non avvengono tali processi si
configura la sua invisibilità. In questa prospettiva, l’ambiente è inteso come oggetto socioculturale,
poiché:
«[...] l’organizzazione dello spazio sulla quale si fondano [le sue modalità di utilizzo] si sviluppa a sua
volta a partire dai significati che l’attore assegna/riconosce alle diverse porzioni di spazio con le quali
entra in interazione» (Becchis e Genova 2010, 134-5).
Attraverso l'utilizzo di sistemi di classificazione, le società conferiscono forma e ordine allo spazio
circostante, delineandone l'identità e le funzioni che lo caratterizzano. Dove i processi di
significazione assumono maggiore evidenza, si delineano delle porzioni distinte tra di loro sulla
base dei significati, delle funzioni e delle norme afferenti. In tal senso, queste aree, separate da
confini più o meno fisici, vengono definite luoghi (ibidem). Ciò porta all’osservazione che
l’invisibilità della città è innanzitutto culturale, «derivante da una difficoltà nella decodifica e
nell’individuazione delle chiavi interpretative dei luoghi di cui tali città sono composte» (Becchis
e Genova 2010, 135).
17
Gli autori, oltre alla visione riportata in questo scritto, guardano all’invisibilità della città da altri tre punti di vista:
la “città impossibile”, rappresentata da «un disegno-progetto all’interno del quale vengono trasgredite le regole della
stessa logica a partire dalle quali siamo soliti valutare la plausibilità di una rappresentazione» (2010, 132); la “città
possibile ma non esistente”, rappresentata dall’utopia e la “città esistente ma invisibile”, in quanto tende a non attirare
l’attenzione di chi l’attraversa. Tuttavia, il lavoro degli autori si focalizza sul quarto punto di vista, ripreso in questo
studio.
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Nell’analisi della relazione tra l’individuo e l’ambiente in cui agisce, Becchis e Genova (2010)
sostengono che, quando ci si trova in un determinato luogo, si agisce nella maggior parte dei casi
all’interno di spazi preconfigurati, ai quali sono associati significati condivisi, ma aperti a possibili
messe in discussione e contrattazioni. D’altra parte, se da un lato l’interpretazione e
l’organizzazione dello spazio sono influenzati dalle azioni degli individui al suo interno, allo stesso
tempo, tali azioni sono a loro volta modellate dall’organizzazione del medesimo. In questo modo,
si crea un circolo continuo di influenza reciproca tra l’individuo e lo spazio in cui si muove
(ibidem). Come scrivono gli autori, vengono così a delinearsi tre modalità di significazione:
«1) trasformazione di uno spazio in luogo, attraverso l'assegnazione ed il riconoscimento della sua
identità/funzione; 2) mutamento sequenziale del significato di un luogo, attraverso una ridefinizione della
sua identità/funzione; 3) mutamento ciclico del significato di un luogo, attraverso la composizione di
identità/funzioni differenti» (Becchis e Genova 2010, 139).
Nell’ambito di questa ricerca, la modalità che più ci interessa è la terza, la quale prende in
considerazione il processo di ri-significazione temporanea che si pone come alternativa alla
definizione dominante di un luogo.
Innanzitutto, Genova (2011, 194) afferma che «Il concetto di ri–significazione riferito a un luogo
indica quel processo attraverso il quale gli si assegna un significato differente rispetto ad uno
preesistente». Possiamo considerare la ri-significazione come un processo composto da diverse
fasi, la prima delle quali è quella che Thomas (1923) ha denominato definizione della situazione.
Nella sua prospettiva, «preliminare a qualsiasi atto di comportamento auto-determinato vi è sempre
una fase di esame e decisione che possiamo chiamare la definizione della situazione» (ivi, 42). A
partire da tale definizione, l’individuo attribuirà significati specifici agli elementi del contesto in
cui si trova, agendo e reagendo agli eventi in un modo da esso ritenuto consono all’ambiente. In
altre parole, l’interpretazione dell’ambiente da parte dell’agente definisce le possibilità di utilizzo
dello stesso. In questa prima fase, si trova risposta alla domanda “che cos’è questo luogo?”,
definendo di conseguenza le possibilità di azione che chi agisce – e gli altri individui presenti –
possono, devono e non possono compiere al suo interno.
Il modo in cui percepiamo e consideriamo un luogo è determinato da quelli che Goffman (2006)
definisce frame, i quali si concretizzano nelle linee di azione che ciascuno adotta in determinati
contesti. Sono elementi influenzati dalle linee di azione intraprese da altri individui presenti
39
nell’ambiente, mutevoli nel tempo e che possono sovrapporsi nello stesso momento alle
interpretazioni degli altri presenti. È in questo senso che la persona senza casa incornicia, per
esempio, una panchina della stazione in un posto dove dormire, mettendo in discussione la sua
funzione di non-luogo
18
e reinterpretandola come un luogo del riposo.
Come scrive Genova (2011, 199), riprendendo Goffman (2006):
«Se le diverse definizioni di una situazione sono costruite in accordo con i principi di organizzazione che
governano gli eventi sociali e il coinvolgimento soggettivo al loro interno, il concetto di frame richiama
l’insieme di tali elementi».
È da sottolineare che l’adozione di diversi frame nello stesso luogo e nello stesso momento può
portare a contrattazioni – fino ad arrivare a veri e propri conflitti – tra gli individui, in base alla
compatibilità o incompatibilità delle loro linee di azione. È inoltre importante notare che i frame
possono variare nel tempo: un individuo potrebbe abbandonare una linea di azione ritenuta
precedentemente compatibile con un determinato luogo per un’altra, adottando un nuovo frame
(Goffman 2006), con conseguente rivalutazione delle azioni considerate accettabili o non
all’interno del luogo stesso.
La scelta del frame più adatto al contesto in cui si trova immerso l’agente poggia sul processo di
individuazione di marker (MacCannel 1976) in grado di orientare l’individuo nella scelta della
linea di azione ritenuta più adatta. I marker sono elementi che ci danno informazioni riguardo alla
situazione in cui ci troviamo, senza bisogno di «un’analisi organica di ogni elemento – umano e
materiale – presente» (Genova 2011, 201). Così, per esempio, il ritrovarci all’interno di una stanza
nella quale troviamo una scrivania, una sedia e un computer – che rappresentano in questo caso tre
marker – potrebbe indicarci il nostro essere all’interno di un ufficio.
Attraverso l’esperienza, il ripresentarsi degli stessi marker e l’adozione dei relativi frame ritenuti
adatti al contesto in cui agiamo, creiamo dei tipi di situazioni che ci guidano in una più veloce e
facile interpretazione dell’ambiente, aiutandoci nella determinazione della nostra linea di azione.
18
Il concetto di "non luogo" comprende due realtà interdipendenti ma separate: i luoghi creati con uno scopo specifico
(come quelli per il trasporto, il transito o il tempo libero) e la relazione che gli individui stabiliscono con questi spazi.
Inoltre, Augé (1996, 73) afferma che «Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale e storico, uno spazio che
non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico, definirà un non luogo». È da sottolineare, inoltre, che sia il
luogo che il non luogo sono da intendere come idealtipi, che nel mondo reale non si trovano in una forma pura: «sono
delle polarità sfuggenti, il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente»
(Augé 1996, 74).
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In altre parole, quando un individuo vive un'esperienza in un luogo specifico, può ricondurre tale
luogo a categorie più ampie, sviluppate in precedenza attraverso la propria esperienza diretta o
tramite l'assunzione delle esperienze altrui durante i processi di socializzazione. Così facendo, le
categorie costruite forniscono gli strumenti per la definizione della situazione, determinando
«l’agire fluente che caratterizza comunemente il viver quotidiano» (Genova 2010, 197).
Berger e Luckmann (2003) sostengono che tramite la tipizzazione la realtà della vita quotidiana
viene normalmente data per scontata, concretizzandosi in routine. Tuttavia, questa realtà rimane
immutata solo finché la routine non viene messa in discussione da se stessi o da qualcun’altro.
Infine, la presenza di diverse interpretazioni della situazione nello stesso momento e luogo può
portare a un tentativo di negoziazione dei significati volta a raggiungere una loro sintesi condivisa
(Strauss et al. 1963) che, se non ottenuta, può condurre a vere e proprie dispute (Goffman 2007)
nelle quali i significati contrastanti tentano di ottenere riconoscimento.
Genova sottolinea la difficoltà che le persone senza casa devono affrontare per affermare la propria
definizione della situazione, in quanto:
«[...] i processi di abitualizzazione e istituzionalizzazione sociale (oltre che quelli legislativi) forniscono
maggiore potere a definizioni diverse dalle loro, rispetto alle quali tendono appunto a emergere condizioni
di mutua esclusività» (2010, 203).
I luoghi in cui gli individui senza casa vivono influenzano, a loro volta, i protagonisti di questa ri-
significazione, determinando una relazione reciproca tra individuo e spazio. Come indicato da
Signorelli (1996, 60), «Dalla forma e dalla modalità di fruizione dello spazio che trova disponibili,
l’uomo è condizionato a organizzare in un certo modo la sua vita e la propria visione della realtà».
Nel caso delle persone senza casa, l'interazione con lo spazio urbano si traduce nel ricostruire una
home in assenza di una house (Meo 2008).