Par. 1.2 Il cambiamento degli assetti e dell’organizzazione del lavoro.
Bauman contrappone la modernità liquida, dei giorni nostri, alla modernità
solida della prima industrializzazione.« La modernità solida corrispose di
fatto all‟epoca del capitalismo pesante: del legame tra capitale e lavoro for-
tificato dalla reciprocità della loro dipendenza»(Z. Bauman,2000, modernità
liquida, p 166). L‟intradipendenza che si era instaurata tra il capitale e il suo
alter, la forza lavoro, conferivano staticità all‟assetto sociale. Entrati nelle
fabbriche gli operai potevano ben sperare di rimanerci a lungo, addirittura
di esaurire la propria capacità lavorativa nella fabbrica. A legare insieme il
capitale e la forza lavoro era la transazione della compravendita:per restare
in vita ciascuno doveva soggiacere a questa transazione:i proprietari del ca-
pitale dovevano essere in grado di comprare il lavoro, i lavoratori dovevano
stare all’erta, sani, forti e appetibili per non scoraggiare i potenziali acqui-
renti. Lo Stato, inoltre, supremo organismo politico, si prodigava per tenere
attiva la rimercificazione del capitale e del lavoro muovendosi su due diret-
trici: in una garantendo che i capitalisti fossero in grado di retribuire la for-
za lavoro, secondo il prezzo stabilito, nell‟altra proteggendo la forza lavoro
attraverso sostegni economici, che tenevano coloro che erano disoccupati,
in buone condizioni per entrare o rientrare nel mondo del lavoro. Insomma
lo Stato assistenziale era uno strumento capace di contrastare le anomalie e
le deviazioni dalle norme, e mitigarne gli esiti quando si fossero verificate.
La norma era il« rapporto diretto e reciproco tra capitale e lavoro, nonché il
compito di risolvere tutte le importanti e fastidiose questioni sociali inerenti
tale rapporto»(Ivi, p 168). L‟aspettativa lavorativa degli individui era lunga
nel tempo; entrare a lavorare in fabbrica equivaleva a conservare quel posto
di lavoro per un periodo di tempo lungo tutto l‟arco della vita attiva, fino
alla pensione. Ovviamente anche gli altri settori, come quelli dei servizi,
subivano la stessa sorte; il che significa che come in un puzzle, tutti i lavo-
ratori avevano la loro precisa collocazione, dalla quale sarebbe stato diffici-
le essere estratti. Questo soprattutto dopo la seconda guerra mondiale quan-
do la necessità di un nuovo riassetto solidificò ancora meglio questa realtà,
con la «nascita di forti sindacati, garanzie di stato sociale, e grandi azien-
de»,(Sennet,1998,ivi p168), che riunite tutte in uno stesso luogo e tempo
7
diedero impulso ad una nuova era di relativa stabilità. Stabilità, badiamo
bene, non esente da conflitti, laddove i conflitti disponevano anche di un
terreno adatto alla negoziazione ed alla necessità, per i lavoratori, come per
i capitalisti, di confrontarsi e di giungere a conclusioni e risoluzioni tollera-
bili per tutti. Le lotte e le rivendicazioni sindacali diedero dignità ai singoli
lavoratori, riuscendo a delineare normative migliori per i loro diritti, e dei
freni per la libertà di movimento dei datori di lavoro. Infine l‟odiato lavoro
ripetitivo, scandito dai calcoli scientifici, teorizzati da Taylor, gli atti di do-
minazione e repressione praticati dal management, avevano creato un‟arena,
dove i lavoratori potevano avanzare richieste, o quantomeno lottare affinché
tali richieste venissero accettate.
Questi sono i ricordi del passato: al lungo termine di allora, si contrappone
il breve termine di oggi. La flessibilità, meraviglioso termine che ci fa pre-
conizzare la libertà, non è altro che un tempo determinato, in un dato seg-
mento di vita, una serie di lavori, tutti diversi, nei quali reinventarsi ogni
volta, uno spendere competenze differenziate che ciascuno cerca di acqui-
sire nel proprio bagaglio formativo. Afferma Bauman che«il successo nella
vita di uomini e donne postmoderni dipende dalla velocità con cui riescono
a sbarazzarsi di vecchie abitudini piuttosto che di quelle con cui ne acqui-
siamo di nuove». (Zygmunt Bauman, l‟istruzione nell‟epoca postmoderna,
p160). Alain Touraine, traccia un parallelismo tra organizzazione del lavoro
e mondo dell‟informazione. Nella prima, durante il periodo taylorista, si
puntava sul trarre il massimo profitto dal lavoro dell‟operaio, creando così
una forma estrema di dominio di classe; il mondo dell‟informazione, inve-
ce, essendo puramente tecnologico, risulterebbe essere socialmente neutro.
Ciò non significa, secondo il sociologo, che non esistano rapporti di domi-
nio, ma questi non si manifestano attraverso conflitti di classe, ma su scala
più globale, soprattutto finanziaria. Nella fabbrica tradizionale si erano col-
locati i sindacati, con le loro rivendicazioni, gli scioperi, le contrattazioni
collettive. L‟immagine delle imprese che esternalizzano le loro produzioni,
conservando un proprio nucleo, costituito da manipolatori centrali, svilisce
la capacità produttiva, la materialità della produzione.« La lotta di classe
dunque scompare non tanto perché i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori
8
siano diventati pacifici, ma perché i conflitti si sono spostati dai problemi
interni della produzione alle strategie mondiali delle imprese transnazionali
e delle reti finanziarie(.A. Touraine, 2004, p 38)». La riflessione poi prose-
gue su questa linea spiegando che la nozione di classe sociale, si è imposta
quando i lavoratori salariati definivano anche i loro rapporti sociali. At-
tualmente si sono assunte, anche nel linguaggio, terminologie che esprimo-
no categorie molto generali, come umanità, nuove generazioni, e che inve-
stono un‟area geografica talmente ampia, da non permettere mobilitazioni
di categoria, perdendo così sia la forza di mobilitazione, sia la capacità di
definire strategie di lotta. Non bisogna dimenticare i movimenti altermon-
dialisti, che pure riescono a far parlare di sé e che tentano di perorare lo svi-
luppo sostenibile, dal punto di vista economico e ambientale, del pianeta
terra, ma sono lontane le soluzioni concordate, e la capacità di contrattazio-
ne è ancora troppo debole e frammentaria.
Ulrich Beck ci parla del lavoro partendo da lontano: dalla schiavitù
dell‟antichità, in cui solo gli schiavi avevano il compito di lavorare, con
l‟unico fine di salvaguardare la propria vita, passando per il medioevo,
quando il lavoro era assolutamente inviso agli aristocratici, e pertanto anco-
ra demandato ai ceti più bassi, fino ad arrivare all‟epoca industriale, quando
grandi masse di lavoratori hanno fatto irruzione sulla scena, modificando il
significato« del lavoro per la vita delle persone nella società industriale.
Nell‟epoca industriale, lavoro retribuito e professione sono diventati l‟asse
della condotta di vita. Assieme alla famiglia, questo asse costituisce il si-
stema di coordinate bipolare al cui interno è situata la vita di quest‟epoca»
(Beck, 1986,, p 199). Il lavoro dunque, occupa tutti i segmenti della vita:
l‟infanzia, attraverso la formazione scolastica e l‟identificazione con la per-
sona adulta di riferimento (madre o padre), l‟età adulta, dove le premesse
formative si traducono in lavoro retribuito, l‟età della pensione, non sempre
coincidente con la vecchiaia vera e propria. Ora, a parte questa invasività
del lavoro industriale nella vita degli individui, Beck riflette sul fatto che
spesso il tipo di lavoro svolto caratterizza così tanto l‟essere umano, da ren-
dere la propria professione un modello di riconoscimento reciproco tra due
soggetti. Egli fa l‟esempio di quando si chiede a qualcuno “Lei cos‟è?”, nel-
9
la maggioranza dei casi si tende a fornire una risposta circa la propria attivi-
tà. «Nella società in cui la vita è infilata sul filo del lavoro, quest‟ultimo
contiene effettivamente alcune informazioni-chiave: reddito, status, abilità
linguistiche, possibili interessi, contatti sociali, ecc.»(Beck, 1986, p 200).
Per tutto il XX secolo, il lavoro, assieme alla famiglia, ha rappresentato
l‟unico punto fermo della vita degli individui, l‟unica possibile forma di
stabilità individuale. Attraverso il lavoro, anche l‟individuo più insignifi-
cante poteva aspirare a costruire una microscopica parte di mondo. Inoltre
l‟ambiente di lavoro è un luogo di socializzazione importante, dal momento
che vi si acquisiscono le regole della partecipazione. «La società industriale
è in tutto e per tutto una società del lavoro retribuito , nell‟organizzazione
della sua vita, nelle sue gioie e nei suoi dolori, nel suo concetto di presta-
zione, nella sua giustificazione di disuguaglianza, nel suo diritto sociale, nel
suo equilibrio dei poteri, nella sua politica e nella sua cultura. Se essa si tro-
va di fronte ad una trasformazione sistemica del lavoro retribuito, allora si
trova di fronte anche ad una trasformazione sociale»(Ivi,p 201).
Torno a ripetere che Beck è tedesco, e quindi parte dalle osservazioni sulla
politica del lavoro, che caratterizzano il proprio Paese, che, non a caso, rap-
presenta, ora più che mai, il traino dell‟Europa, e che quindi svolge questo
ruolo di leadership, ci piaccia o no. Egli critica coloro che in Germania
promettono la sconfitta della disoccupazione, ed il ritorno alle vecchie per-
centuali di cittadini non disoccupati. Beck traccia un parallelo tra l‟alto gra-
do di standardizzazione del lavoro, sopravvissuto fino a tutti gli anni 70 e la
flessibilizzazione, che l‟attuale automazione rende possibile. Il lavoro stan-
dardizzato si basa su dei principi base che sono: contratto di lavoro, luogo
di lavoro, orario di lavoro. Tali condizioni sono frutto di concertazioni e ne-
goziati, avvenuti nel corso del tempo, anche tra ampie categorie di lavorato-
ri, i cosiddetti contratti collettivi nazionali. In questo sistema così delineato
e standardizzato è facile distinguere il lavoro dal non lavoro. Nel sistema at-
tuale, che vede sempre più l‟affermazione dell‟automazione del lavoro, si
assiste alla flessibilizzazione dei tre pilastri sui quali si fonda il lavoro stan-
dardizzato: il diritto del lavoro, il luogo di lavoro, l‟orario di lavoro; ciò de-
10
termina che «i confini tra lavoro e non lavoro sono diventati fluidi. Si stan-
no diffondendo forme flessibili e plurali di sottoccupazione.(Beck,1986 , p
203)». Si allenta la relazione tra lavoro sociale e processi produttivi: si crea
un diffuso mondo di sottoccupazione, che a sua volta ha pesanti risvolti ne-
gativi sui redditi, nonché induce ad una privatizzazione dei rischi del lavoro
per la salute fisica e mentale. Dalla prospettiva di chi è sottoccupato il ri-
schio di restare senza lavoro, o di non avere garanzie sufficienti, a livello
pensionistico o di malattia, è controbilanciato da una relativa autonomia ri-
spetto al proprio lavoro, autonomia utile per riuscire a gestire altri ambiti
della propria esistenza (famiglia, studio, tempo libero).
Anche se, conclude Beck,« la cesura dal sistema industriale standardizzato
che ci è familiare al sistema futuro della sottoccupazione pluralizzata, fles-
sibile, decentralizzata avviene secondo una logica inalterata di razionalizza-
zione orientata al profitto».(Ivi, p 212).
Ormai la disoccupazione fa parte della biografia di tantissimi individui, e la
sottoccupazione è stata, a pieno titolo, integrata all‟occupazione tradiziona-
le. Tutto questo processo è accompagnato da una condiscendenza politica di
cui non si possono conoscere gli esiti: «senza un‟estensione del sistema del-
la protezione sociale incombe un futuro di povertà. Con la creazione di un
reddito minimo garantito per tutti potrebbe essere strappata al futuro un po‟
di libertà» (ivi, p. 213).
Par. 1.3 individualismo, opportunità o svantaggio?
Alexis de Tocqueville (nel secondo volume del suo “la democrazia in A-
merica) osservò che se l‟egoismo, quella iattura che ha ossessionato il gene-
re umano in tutti i periodi della sua storia, essiccò i semi di tutte le virtù, al-
lora l‟individualismo, un‟afflizione tipicamente nuova e tipicamente mo-
derna, prosciuga solo la fonte delle virtù pubbliche. Gli individui si rifugia-
no nel proprio piccolo spazio abbandonando la grande società alla propria
sorte.
11
In “Modernità liquida”, si legge « chi inizia la propria carriera alla
Microsoft» osserva Cohen(1998, p57) «non sa dove la terminerà. Entrare al-
la Ford o alla Renault, viceversa significava la quasi certezza di iniziare e
finire la propria carriera nello stesso posto». Bauman continua nella sua di-
samina delle differenze tra il capitalismo pesante, solido, ed il capitalismo,
leggero, che non è più ancorato a nessuna base solida terrena, ma sempli-
cemente ad« una cartellina portadocumenti, un telefono cellulare e un com-
puter portatile»(Ivi p 57). Il tramonto del fordismo e di quel modo ordinato
di concepire l‟esistenza ha fatto sì che si creassero infinite opportunità pos-
sibili, dove nulla dura troppo a lungo, dove non esiste più un Ufficio Su-
premo che detta le indicazioni da seguire, e se nell‟epoca moderna del capi-
talismo l‟individuo era un produttore, oggi l‟individuo è diventato un con-
sumatore, allettato dalle tante proposte ed aspettative, ma mai fermo troppo
a lungo per goderne fino in fondo. In quest‟ottica non è più la meta ad eser-
citare il suo fascino nella vita dei singoli, ma acquista valore il percorso, per
giungere a quella meta. Una vita, dunque, piena di desideri. «E‟ stato detto
che lo spiritus movens dell‟attività del consumatore non è più gamma misu-
rata di bisogni articolati, bensì il desiderio, un‟entità molto più volatile ed
effimera, evasiva e capricciosa, ed essenzialmente avulsa dai “bisogni”, una
forza autoprodotta e autoalimentata che non abbisogna di altra giustifica-
zione o “causa”».(Ivi, p 77).
Questo desiderio, proprio per la sua volatilità ed inconsistenza, finisce per
diventare insaziabile, e non è certo facile per i fornitori di beni di consumo
instillarlo nei consumatori. Produrre consumatori è forse più dispendioso
che produrre beni di consumo, tuttavia, secondo H. Ferguson, il consumi-
smo nella sua forma odierna non è fondato sulla stimolazione del desiderio,
ma sulla liberazione di capricciose fantasie.(Ivi, p 78).
Uno dei passaggi cruciali dall‟epoca dei produttore all‟epoca del consuma-
tore riguarda la tendenza sviluppata allo shopping, che finisce col diventare
un rito di esorcismo, mediante il quale sedare le incertezze profonde, le in-
sicurezze insondabili. In questa ottica poi Bauman analizza anche il pro-
blema dell‟identità. Partendo dalla considerazione che le vite dei nostri si-
12
mili ci appaiono sempre migliori, di quello che sono, e che questa apparen-
za è solo frutto della distanza che esiste da quelle vite, ci sforziamo in tutti i
modi di imitarle. Poiché “Tutti cercano di rendere la propria vita un‟opera
d‟arte”. L‟opera d‟arte che vorremmo plasmare dalla vita è la nostra identi-
tà. È estremamente difficile, però, riuscire a costruire qualcosa di solido e
duraturo su ciò che continuamente appare liquido e mobile. Le identità ap-
paiono solide solo quando sono percepite dall‟esterno, ma «qualsiasi solidi-
tà possano avere allorché contemplate dall‟interno della propria esperienza
personale, essa appare fragile, vulnerabile e costantemente lacerata da forze
disgreganti che ne mettono a nudo la fluidità e da correnti incrociate che
minacciano di ridurre in pezzi e spazzare via qualsiasi forma possano aver
acquisito».( Ivi p 87).
Infine in una società di malati di shopping/spettacoli, solo chi possiede suf-
ficienti risorse può sperare di vivere meglio. Le risorse garantiscono la li-
bertà di scegliere le merci, ma soprattutto la libertà di potersene disfare non
appena queste diventano superate e obsolete, cioè molto presto. Dalle merci
il discorso può essere esteso anche alle altre scelte, come quelle più impor-
tanti di acquistare o meno un paio di scarpe, e che riguardano gli episodi
che capitano nella vita umana, come per esempio sposarsi ed avere dei figli:
anche in questo caso le scelte di chi ha più risorse sono più libere, di chi
queste risorse non le possiede... insomma nel caso dei ricchi e dei potenti
che divorziano, la possibilità di contare su sostegni economici considerevo-
li, fanno la differenza rispetto a chi, non solo non può attingere a queste ri-
sorse, «ma finisce col disseminare tanta miseria, agonia e sofferenza umana
ed un numero sempre crescente di vite spezzate, prive di amore e di pro-
spettive».(Ivi, p 97).
Touraine pone una domanda, in relazione alla possibilità della società attua-
le di continuare a perseguire il progresso e la modernità, così come nel se-
colo scorso si è stati capaci di lottare per modernizzare lo status
dell‟umanità, almeno di quella del mondo occidentale. «E‟ possibile un
nuovo modello di modernizzazione? C‟è spazio nelle nostre società sempre
più statiche, per un nuovo dinamismo?[...] E quale principio può impedire
13
alle nostre società di sprofondare in una concorrenza generalizzata e spos-
sante, senza tuttavia far ricorso allo spirito di dominio, di conquista e di
crociata, per mobilitarle di nuovo ed imporre loro obblighi e sacrifici?»
(A.Touraine,2004,, p116). L‟autore riflette sui movimenti di liberazione
che hanno caratterizzato la nascita e crescita del cammino dei diritti: le lotte
operaie, i movimenti di liberazione anticolonialisti, i movimenti delle don-
ne. In tutte queste lotte sostenute da soggetti diversi tra di loro, si sono af-
fermati individui che hanno avuto la capacità di rinnegare le ingiustizie, le
disuguaglianze, le oppressioni, e si sono affermati non solo come attori so-
ciali, ma come soggetti personali. È antica la querelle sul fatto se sia la so-
cietà a determinare l‟individuo, designato come vittima di forze soverchian-
ti, o se l‟individuo sia totalmente libero, e unico responsabile
nell‟organizzare la propria esistenza. Touraine opta per la terza via, affer-
mando che è altrettanto vero che l‟individuo è determinato dalla società nel-
la quale cresce e vive, ma che contemporaneamente è capace di perseguire
una libertà creativa, fine a se stessa: «l‟affermazione creativa del soggetto,
nel cuore della modernità, resiste all‟organizzazione sociale,
un‟organizzazione che valuta in termini positivi o negativi a seconda che
l‟affermazione di sé risulti soddisfatta o meno»(Ivi, pag 117). In quanti casi,
in passato, anche le lotte per l‟affermazione dei diritti sono sfociate in altro,
come la distruzione di ciò per cui si era lottato? Pensiamo alle lotte proleta-
rie che hanno generato anche la dittatura del proletariato, oppure per ragio-
nare di fatti più recenti quante volte l‟ossessione per i diritti culturali, im-
pongono princìpi e pratiche che negano la libertà di coscienza e le libere
scelte culturali? (Si pensi alla questione del velo per le donne musulmane,
che vivono in Europa);« l‟universo degli attori sociali ha potuto prendere
forma solo lottando, e lottando su due fronti: contro la riproduzione dei va-
lori e delle forme di autorità tradizionali e contro un autoritarismo sia tec-
nocratico sia comunitario»(Ivi p 120). Come si può difendere il mondo mo-
derno dalla deriva che talvolta il comunitarismo estremo può produrre? Non
nel tentativo, estremamente vano, di costruire il migliore dei mondi possibi-
le, ma nel porsi e mantenere ben saldi, nel combinare l‟organizzazione so-
ciale, due obiettivi di fondo: «il pensiero razionale e i diritti fondamentali,
14