5
fiorentini visse il periodo in modo attendista, stringendo i denti e sperando
che tutto finisse al più presto. Significativo a questo proposito è l’aneddoto
raccontato da Curzio Malaparte nel suo “Maledetti toscani”
1
. Secondo tale
racconto una mattina dell’agosto ’44, quando gli alleati erano ormai entrati
in città, un “omìno” con il suo carretto a mano carico di fiaschi di vino,
attraversando via Calzaioli, si trovò ad intralciare una colonna corazzata
inglese, che gli stava dietro. Alle grida di un carrista che ordinava all’uomo
di spostarsi, il fiorentino, anziché obbedire, gli urlò contro frasi del tipo: “O
che modi sono coresti? Ho furia anch’io!”, o, rivolgendosi ai passanti
commentando la situazione: “o che prepotenze son queste? Non s’è mai
finito di vederne di nuove! ’E vanno via quelli e arrivano quest’altri! O sora
guardia, la ‘un n’ha nulla da dire, lei? La ‘un sente come ‘e bociano? Bocia,
bocia! T’hai voglia a bociare, io non mi sposto, io vo per la mi’ strada! E se
t’hai furia, passa da un’altra parte!…” e ancora “ o che vi credete d’essere a
casa vostra? C’è tanto posto nel mondo per andare a far la guerra, proprio
qui vu’ avete a venire?…”. In sostanza, come avremo modo di vedere nel
corso dei capitoli, i fiorentini volevano fortemente la pace, per tornare alla
tanto agognata situazione di “normalità”.
L’analisi della vita fiorentina si articola in dieci capitoli. Il primo, dopo una
sintetica presentazione del quadro generale della situazione cittadina al
momento della caduta di Mussolini, tratta dei cosiddetti “45 giorni di
Badoglio”. In particolare si evidenziano i cambiamenti ai vertici del potere
politico-militare e le ripercussioni che gli avvenimenti ebbero sulla vita e
sullo stato d’animo della popolazione. Per l’esame specifico delle giornate
del 25 luglio e dell’8 settembre le fonti utilizzate provengono dai fondi
conservati presso l’Archivio Centrale di Stato a Roma, con particolare
riferimento a quello della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza presso
il Ministero dell’Interno, Divisione Affari Generali e Riservati, categoria
A5G II G.M. Per il resto, la maggior parte dei dati è stata ricavata dalle
cronache fiorentine della Nazione e tenendo ben presenti due libri, che sono
1
C. MALAPARTE, Maledetti toscani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, ’97, pp. 96 e 97.
6
risultati molto utili, il primo per un’analisi efficace del movimento della
Resistenza, il secondo per un’ottima visione d’insieme del modo di vivere
dei fiorentini, seppur portata avanti con taglio giornalistico: “La Resistenza
a Firenze” di Carlo Francovich e “Firenze 1943–’45” di Alberto Marcolin.
Con il secondo capitolo si apre il nucleo centrale della tesi, che arriva sino
all’ottavo. Nasce la Repubblica di Salò e Firenze ne farà parte per nove
mesi. Escludendo il periodo più tormentato del passaggio del fronte, il
capoluogo toscano e i suoi abitanti saranno esaminati sotto vari aspetti. Nel
capitolo due sono presentate le nuove autorità politiche, ovvero i tedeschi, i
primi ad entrare in città dopo lo sfaldamento dell’esercito e il fuggi fuggi
generale dell’8 settembre, e i fascisti, ora repubblicani, che presero il potere
cercando di affrettarsi a rimettere insieme per quanto possibile la necessaria
organizzazione. Così, oltre ai vertici, vengono presentati gli organi di
polizia (agenti di Pubblica Sicurezza e Guardia Nazionale Repubblicana),
gli squadroni autonomi, l’apparato militare e l’Ufficio Affari Ebraici. Le
fonti (in questo caso ci si è avvalsi del Fondo Micheletti conservato presso
l’Istituto Storico della Resistenza Bresciana e in parte presso l’Istituto
Storico della Resistenza Toscana, di vari fondi presso l’Archivio Centrale di
Stato a Roma, in particolare Segreteria Particolare del Duce, Carteggio
Riservato R.S.I e Archivio Generale UPI, oltre a informazioni contenute in
libri citati nelle relative note) ci permettono in parte di ricostruire anche il
rapporto, non propriamente idilliaco, tra tedeschi e fascisti. Un cenno è fatto
alle altre autorità che assunsero – o più propriamente cercarono di assumere
- un ruolo politico nel periodo in esame, con riferimento alla Chiesa e al suo
massimo rappresentante nel capoluogo toscano, ovvero il Cardinale Elia
Dalla Costa.
Nel terzo capitolo sono ancora analizzati i vertici del potere, ma questa volta
ad essere sotto esame sono le autorità amministrative e giudiziarie. Per
quelle amministrative, ovvero per il podestà e i suoi collaboratori, i dati e le
informazioni sono stati ricavati principalmente dal libro scritto dallo stesso
podestà Giotto Dainelli, intitolato “Le attività da me svolte in Firenze nella
primavera 1944”. Con più difficoltà si riesce a ricavare informazioni sul
7
sistema giudiziario. Quelle utilizzate provengono essenzialmente dai
quotidiani, e in particolar modo dalla Nazione. Dei tribunali, dei magistrati e
del funzionamento della giustizia ordinaria a Firenze durante la Repubblica
di Salò si sa in effetti piuttosto poco.
I giornali, sia quotidiani che periodici, sono fondamentali per ricavare lo
stato d’animo dei fiorentini, che rappresenta l’argomento centrale del quarto
capitolo. Fondamentale in questo ambito è anche l’apporto che viene dai
“mattinali” della Guardia Nazionale Repubblicana, contenuti nel già citato
Fondo Micheletti, e dai diari di alcuni intellettuali che hanno vissuto quel
tormentato periodo, quali Arturo Loria, Bernard Berenson e Primo Conti.
Mettendo insieme tutto il materiale, si ricostruisce, così, l’atteggiamento
prevalente nella cittadinanza, a partire dall’8 settembre per arrivare ai giorni
della liberazione di Firenze, e si cerca nei paragrafi successivi di cogliere le
sfumature presenti nei vari strati della popolazione, classificata per età e per
classe sociale. Nel paragrafo 4.4, l’ultimo di questo capitolo, si studiano i
fiorentini dal punto di vista dei tre “blocchi” nei quali risultavano divisi,
ovvero la grande massa attendista e le due minoranze, ovvero fascisti e
antifascisti. Infine, si accenna a un tema che non ha ancora trovato una
risposta definitiva negli studi fatti: è possibile fare un’ipotesi, ma non
affermare con sicurezza e precisione quale fosse il numero effettivo di
fascisti repubblicani e di partigiani presenti in città.
Nel quinto capitolo si approfondiscono gli aspetti economici che aiutano a
comprendere certi comportamenti dei fiorentini. Oltre alla situazione
relativa alla produzione agricola e industriale, ci si sofferma sul sistema del
razionamento, che coinvolse praticamente tutti gli strati della popolazione, e
sul caro-vita, confrontando quando possibile i prezzi ufficiali e quelli del
mercato nero. In questo caso le fonti che ci vengono in aiuto sono quasi
esclusivamente i quotidiani, sia la Nazione che il Nuovo Giornale, che sono
in questo ambito esaustivi e che aiutano anche a comporre un quadro
d’insieme per i servizi pubblici, il cui andamento è analizzato nel sesto
capitolo.
8
I primi ad essere presentati sono i mezzi di trasporto, e quindi tram, corriere,
treni e le biciclette, che, pur non essendo un mezzo di trasporto pubblico,
furono a volte disciplinate come tali. Nei paragrafi successivi si illustra
l’andamento degli altri servizi pubblici, quali gas, luce, telefono, servizio
postale e sistema sanitario-assistenziale, che, pur fra alti e bassi e con
interruzioni determinate soprattutto dai bombardamenti, funzionarono per
quasi tutto il periodo della R.S.I. Il sesto capitolo si conclude con un’analisi
dell’organizzazione dei soccorsi, e si riportano in dettaglio le conseguenze
di allarmi e bombardamenti sulla vita cittadina, ricavati anch’essi dai
notiziari del Fondo Micheletti, ma anche dalla Nazione, che, per ragioni
sostanzialmente propagandistiche, si soffermava con dovizia di particolari
sui danni provocati da bombe, schegge e ordigni esplosivi.
Argomento centrale dei capitoli settimo e ottavo è la cultura, nei suoi vari
aspetti. Nel capitolo settimo si parte con un’analisi della situazione nelle
scuole e nella università e si prosegue esaminando il mondo culturale in
senso stretto (le istituzioni e le varie attività culturali, l’atteggiamento degli
intellettuali, i principali quotidiani e periodici fiorentini dell’epoca). Un
paragrafo è dedicato anche alla questione importante delle opere d’arte
cittadine, che, per essere protette dai bombardamenti e dalle razzie dei
tedeschi, comportarono un grande sforzo da parte delle autorità. Le
informazioni relative a questo argomento sono state ricavate essenzialmente
da due libri: “Firenze, guerra e alluvione” di P. Paoletti, e “Le gallerie di
Firenze e la guerra” di C. Fasola.
Nel capitolo ottavo l’attenzione è posta sulle manifestazioni e sulle varie
attività che avvennero in città durante la R.S.I e che rappresentarono in
pratica i possibili divertimenti per i cittadini. Cinema, spettacoli teatrali
(riviste, arte varia, prosa, musica sinfonica e operistica), mostre di pittura e
scultura, gare sportive contribuirono a dare una sostanziale apparenza di
normalità alla vita fiorentina e i giornali cittadini, infatti, non persero
occasione per annunciare tutti questi eventi e dare loro ampio spazio.
La parte conclusiva della tesi comprende i capitoli nove e dieci, che trattano
in particolar modo dei giorni del passaggio del fronte e dello “stato di
9
emergenza”. In quel momento il movimento antifascista, seppure da
minoranza, fu indiscutibile protagonista. Ad esso è dedicato il nono
capitolo, nel quale sono sinteticamente riportati gli eventi salienti che hanno
caratterizzato la lotta tra fascisti e partigiani (sono stati ricavati per la
maggior parte, oltre che dai già citati libri di Francovich e di Marcolin,
anche dal Fondo Micheletti e dal fondo dell’Archivio Centrale di Stato,
Ministero dell’Interno, Divisione Affari Generali e Riservati 1943-‘45).
Parlando del movimento antifascista non si può non associare ad esso la
conseguente repressione da parte delle autorità e quindi la gestione della
cosiddetta giustizia politica, con particolare riferimento al Tribunale
Speciale, costituitosi nel febbraio ’44, sotto il controllo del generale Adami
Rossi. Come per la giustizia ordinaria, anche per quella politica le fonti
risultano essere molto scarse. Le notizie che si riportano sono ricavate quasi
esclusivamente dal quotidiano fiorentino la Nazione.
L’ultimo capitolo, il decimo, offre una panoramica sul modo in cui i
fiorentini e le autorità rimaste in città affrontarono il passaggio del fronte.
Sono i giorni più drammatici e quelli che sono stati più ampiamente trattati
dagli studiosi. Se nella ricostruzione dell’arco temporale che va dalla fine di
giugno alla fine di luglio ’44 ci vengono in aiuto i quotidiani cittadini, dopo
la loro chiusura e dopo la fuga dei fascisti, le notizie ricavate provengono da
tutti quei libri (e sono numerosi) che trattano la “battaglia di Firenze”. Tra
di essi, oltre ai già citati, si ricordano - senza la presunzione di voler dare un
giudizio di merito o di esaurire l’argomento - quelli che possono essere
considerati più efficaci nel rendere l’atmosfera del momento, quali “La
guerra finisce, la guerra continua” di Maria Luigia Guaita, “Firenze in
guerra” di Ugo Cappelletti, “Ponti sull’Arno” di Orazio Barbieri, “La
liberazione di Firenze” di Giovanni Frullini.
10
CAPITOLO 1
Firenze nei 45 giorni di Badoglio
1.1. Quadro generale
Alla data del 25 luglio 1943 l’Italia era in guerra da 3 anni, 1 mese e 15
giorni. A Firenze solo pochi abitanti si erano trovati direttamente coinvolti
nel conflitto: il fronte era ancora lontano, gli alleati erano appena sbarcati
in Sicilia e la splendida città d’arte – amatissima tanto dagli anglo-
americani quanto da Hitler, che nel ’38 la definì “Schaufenster der Welt”,
ovvero “finestra sul mondo” - era considerata da tutti intoccabile. Gli
stessi fiorentini sembrarono tornare alla cruda realtà solo dopo il 25
settembre, quando il primo bombardamento sul capoluogo toscano fece
loro pensare che, forse, non si trovavano più così tanto protetti all’ombra
del Cupolone. In effetti, la vita in città trascorreva tutto sommato tranquilla,
almeno nella sostanza, sebbene sia innegabile che si erano
progressivamente verificati dei cambiamenti di carattere politico, sociale ed
economico che avevano avuto dirette conseguenze sui pensieri e sul modo
di vivere dei fiorentini.
Con la guerra, infatti, anche se essa si combatteva lontano da Firenze,
erano stati introdotti gli allarmi aerei, il coprifuoco e l’oscuramento. I
negozi dovevano chiudere alle 19 e nei periodi di illuminazione elettrica
era obbligo porre due tende sulla porta della bottega, in modo da non far
trapelare luce all’esterno; in casa occorrevano le luci azzurrate; le
lampadine dei cimiteri dovevano rimanere spente; i fanali dei pochi veicoli
circolanti dovevano essere schermati; durante l’orario di coprifuoco
nessuno doveva farsi trovare per strada, tranne chi aveva l’autorizzazione
delle autorità. Di conseguenza, quando era buio pesto, i fiorentini uscivano
di casa portandosi con loro delle piccole lampadine tascabili per non
correre il rischio, come in effetti spesso avveniva, di andare a sbattere
contro qualche lampione o contro qualche muro che sporgeva dai palazzi
11
più antichi. A volte, quando l’oscuramento era più rigido, i passeggeri dei
tram non riuscivano neanche a capire in quale parte della città si trovassero
e non era inusuale che scendessero alla fermata successiva o precedente a
quella utile. Anche se nessuno, come già accennato, credeva alla possibilità
di un bombardamento, fu deciso che sei suoni della durata di 15 secondi
ciascuno avrebbero annunciato l’inizio dell’allarme aereo, mentre un lungo
suono continuo di due minuti avrebbe informato la popolazione che poteva
uscire dai rifugi e tornare a dedicarsi a ciò che stava facendo prima di
essere interrotta. Per non creare confusione le sirene delle fabbriche e
quelle dei vigili del fuoco non furono più fatte suonare. In realtà nei primi
anni di guerra gli allarmi furono molto sporadici. Secondo i dati forniti da
Giuseppe Albi
2
, un fiorentino, che, all’epoca, annotò su un blocco tutti gli
allarmi, risulta che nel ’40 ne suonarono 3, 9 nel ’41 e 7 nel ’42. D’altronde
la maggioranza dei fiorentini, spinta da un’irrefrenabile curiosità e da una
sconfinata fiducia, continuava ad ignorare gli appelli delle autorità che
pregavano i cittadini di accorrere immediatamente nei rifugi non appena
avessero udito l’allarme. A proposito di rifugi, di questi ne erano già stati
costruiti molti e altri furono aggiunti proprio durante il mese di luglio del
'43. I più importanti e capienti erano quelli che si trovavano nelle maggiori
piazze della città, quali piazza Taddeo Gaddi, piazza Pier Vettori, piazza
Donatello, piazza Savonarola, piazza d'Azeglio, piazza Tasso, piazza Santa
Croce, piazza Vittorio Veneto, piazza Leopoldo, piazza Ciano (attuale
piazza Libertà), piazza Indipendenza, piazza della Vittoria, piazza Vittorio
Emanuele (attuale piazza della Repubblica), piazza Santa Maria Novella e
piazza San Lorenzo (che poteva ospitare sino a 2000 persone). Altri rifugi
si trovavano poi a Rifredi, due erano a Campo di Marte, al Largo dello
Statuto, presso il Gruppo Fascista Corridoni, nel Giardino dei Semplici e in
quello dell'Orticoltura. A questi, in luglio ne furono aggiunti altri dieci. Tra
di essi potevano ospitare un numero consistente di persone quello costruito
in piazza del Carmine e quello presso la scuola Gian Battista Niccolini a
2
Cfr. A. MARCOLIN, Firenze in guerra, edizioni Medicea, Firenze, ‘94, p. 28.
12
Legnaia, che disponevano entrambi di 900 posti. 650 posti c'erano presso la
scuola Vittorio Veneto in via XXVIII Ottobre e 510 nel Palazzo Bartolozzi
in Via Maggio 11. Insieme ad essi erano state costruite anche delle trincee,
una a Porta Romana con 750 posti e una in via Lorenzo di Credi (una
traversa di piazza Alberti) con 300. In via della Fornace, adiacente a piazza
Ferrucci, si trovava invece una galleria, considerata a prova di bombe e
crolli, che poteva ospitare sino a 750 persone.
A dimostrazione che neanche le autorità locali fasciste prendevano sul serio
l’eventualità di un bombardamento su Firenze, nei primi anni di guerra i
provvedimenti per proteggere le inestimabili opere d’arte fiorentine furono
esigui e limitati a una “protezione in loco”, ovvero senza trasferire, né tanto
meno spostare il patrimonio artistico fiorentino. In pratica, se gli anglo-
americani avessero bombardato Firenze negli anni precedenti il ’43, le
protezioni aeree non sarebbero riuscite a fare il loro dovere. Ciò nonostante
la città, già al 28 ottobre ’40, in occasione della visita di Hitler e Mussolini,
era irriconoscibile. Un po’ ovunque si potevano vedere gli inquietanti
gabbiotti che nascondevano i più importanti capolavori, quali il Perseo del
Cellini e il Ratto delle Sabine del Giambologna. La statua di Cosimo I si
trovava, invece, sotto un tetto di eternit, la Porta del Paradiso era coperta da
un muro di mattoni (ma il resto del Battistero non aveva protezioni),
mentre dai tabernacoli erano stati tolti tutti i bassorilievi. Il tabernacolo di
via Ricasoli, detto delle “Cinque Lampade” e quello di via Nazionale, detto
delle “Fonticine”, erano spariti sotto una muratura. In un primo momento il
pulpito del Donatello nella chiesa di San Lorenzo fu protetto
esclusivamente da supporti di legno, che furono però successivamente
rinforzati
3
.
Alla fine del '42, mentre i fiorentini continuavano a pensare a Firenze come
“città aperta”, le autorità iniziarono a dimostrare maggiore preoccupazione,
tanto che ci si adoperò per trovare dei rifugi per le opere d’arte. Furono
così messi a disposizione dai proprietari i seguenti edifici: la Villa di
3
Cfr. P. PAOLETTI, Firenze guerra e alluvione, Becocci, Firenze, ’91, p. 15 e segg.
13
Poggio a Caiano, la Villa della Petraia, il Palazzo Pretorio di Scarperia, il
Castello dei Conti Guidi a Poppi, il Convento di Camaldoli, il Castello di
Montegufoni, quello di Poppiano, la Villa di Oliveto del Conte
Guicciardini, la Villa di Torre a Cona, quella di Montagnana dei marchesi
Bossi-Pucci, la Villa di Monte a Gugliano a Barberino di Mugello, la Villa
della Bastia a Ponte a Elsa, quella di Montalto nel comune di Fiesole,
l'Oratorio di Sant'Onofrio a Dicomano, la Villa dei Leoni a Barberino di
Mugello, la Galleria ferroviaria Sant'Antonio a Incisa, la Villa di
Cafaggiolo, la Villa Bocci a Soci, la Villa di Pian di Collina dei Sigg.
Beretta, la Villa di Striano della Signora Giulietta Mendelsohn-Gordigiani,
Villa Demidoff, Villa Salviati e la Torre del Castellano di proprietà Pegna.
In effetti, dal novembre '42, si intensificò il trasferimento delle opere in
luoghi più sicuri. Ad esempio, al Castello di Oliveto dei Conti Guicciardini,
situato nei pressi di Castelfiorentino, arrivarono, tra gli altri, i dipinti del
Pontormo che erano nella Chiesa di Santa Felicita, quelli di Bernardo
Daddi in Orsanmichele e altri provenienti dalle chiese di San Miniato e di
San Lorenzo, dagli Uffizi e dal Museo Horne. Seguirono altri trasferimenti
diretti al Castello dei Conti Guidi a Poppi, dove arrivarono anche le opere
del Museo del Bargello, e a Poppiano, vicino a Montespertoli.
Se questi cambiamenti coinvolsero soprattutto l’aspetto della città, ve ne
furono altri che ebbero conseguenze dirette sull’economia domestica dei
fiorentini.
Anche se ancora gli abitanti non soffrivano la fame, si era già entrati nel
pieno del “clima di austerità”. Il riscaldamento poteva essere usato solo nei
giorni più freddi, il gas veniva erogato a orari precisi (dalle 7.30 alle 8.30,
dalle 10.30 alle 14.30, dalle 18.45 alle 20.45). Tutti i mezzi di trasporto e le
giacenze di combustibile liquido, di carta, cartoni, pneumatici e ferro
andavano denunciati. Era già stato introdotto il razionamento per farina,
riso e pasta, progressivamente esteso ai più svariati tipi di cibo (pane
compreso) e anche ai capi di vestiario, a cappelli, guanti e cravatte. Per i
vestiti uomini e donne adulti potevano infatti spendere annualmente
massimo 120 punti, 80 punti i ragazzi, 72 i bambini. Ma non era molto se si
14
considera che un abito di lana da uomo toglieva 75 dei 120 punti alla
tessera degli adulti e 50 degli 80 punti a quella dei ragazzi
4
.
Per cercare di alleviare il problema della carenza di alcuni prodotti agricoli,
erano sorti in città i cosiddetti “orti di guerra”, per un totale di 22 mila
metri quadrati coltivati. Gli “orti” situati in centro erano quelli di piazza
Santa Maria Novella, il numero 317, di piazza Stazione, piazza Adua,
Giardino dei Semplici, piazza San Marco, piazza Donatello, piazza
Oberdan e presso la Fortezza. Nella zona delle Cascine ce n'era uno presso
il Quercione, coltivato a patate, poi in piazza Pier Vettori, via Solferino e
via Curtatone. Numerosi gli orti anche nella zona del piazzale
Michelangelo, come quelli sul viale dei Colli, al Poggio Imperiale, sul
Monte alle Croci e a Porta San Miniato. Gli altri erano nel Giardino
dell'Orticoltura presso il Ponte Rosso, nella zona di Novoli e a Villa
Favard. Le vasche della Villa Reale di Castello venivano utilizzate per
allevare pesci. Nonostante tutte queste misure volte ad ottenere una
quantità maggiore di cibo per la popolazione, molti divieti disciplinavano e
quindi limitavano la somministrazione di alcune vivande. Pasticceria
fresca, gelati e carne bovina e suina potevano essere venduti solo il sabato,
la domenica e il lunedì, il caffè non poteva più essere venduto al pubblico,
il latte si poteva acquistare presso i lattai, ma nei bar era vietato proporlo ai
clienti, ad esclusione del cappuccino, che, però, poteva essere preparato
solo in determinati orari della giornata. Le uova potevano essere utilizzate
per gli zabaioni, ma non per fare i dolci. Proprio i prodotti di pasticceria
furono quelli che subirono le maggiori trasformazioni. Senza uova né
farina di grano si inventavano ricette in cui si utilizzava fecola di patate,
farina di castagne, farina di mandorle, farina di segale, canditi e frutta cotta.
Questi, in sintesi, i cambiamenti più evidenti che trasformarono l'aspetto e
la vita della città. Vi erano già stati, però, ormai da tempo, dei mutamenti di
carattere diverso, quelli interiori, che influenzavano lo stato d'animo dei
fiorentini. All'entrata in guerra dell'Italia si erano avute anche a Firenze
4
U. CAPPELLETTI, Firenze in guerra, edizioni del Palazzo, Prato, ’84, p.111.
15
manifestazioni di esultanza. Si pensava, in effetti, che la guerra fosse
necessaria per riscattare l'immagine del Paese e, soprattutto, si pensava che
sarebbe stata una guerra breve e vittoriosa. Dopo anni di propaganda, non
erano pochi quelli che credevano ancora nel Duce, sebbene a molti non
fossero andate giù l'alleanza con la Germania e le conseguenti leggi
razziali. La fiducia venne meno quando ci si rese conto che il conflitto
sarebbe stato lungo e duro. Cominciò a risultare evidente che l'Italia non
era all'altezza della situazione e che le vittorie italiane erano state ottenute
solo grazie al concreto e decisivo apporto dei tedeschi. Piano piano, con lo
scorrere del tempo e il moltiplicarsi delle difficoltà militari, si fece strada
negli italiani, e anche nei fiorentini, un senso di stanchezza, di disagio, di
delusione e di impotenza. Da ciò derivò un progressivo e più deciso
distacco dal fascismo. Non si credeva più al Duce e i tedeschi, che
iniziavano ad essere presenti qua e là anche in Italia, non piacevano e
suscitavano diffidenza. A quel punto molti ebbero la netta sensazione che
la fine della guerra sarebbe avvenuta in modo cruento e catastrofico e
qualche ulteriore timore lo provocarono in effetti i numerosi arresti
effettuati dai fascisti nel capoluogo toscano nella prima metà del '43.
Questo stato d’animo rimase però tale, e, per il momento, non sfociò in
alcun modo in manifestazioni concrete di antifascismo.
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1.2. 25 luglio – 8 settembre 1943: cambiamenti al vertice e ripercussioni
sulla vita cittadina
Il 25 luglio colse Firenze in una quiete piuttosto surreale. A poche ore dalla
caduta di Mussolini, i cittadini trascorrevano tranquilli - chi più chi meno -
la loro giornata di riposo. Alle 8 di mattina 33 atleti si dettero
appuntamento davanti alla GIL (Gioventù Italiana Littorio) di piazza
Beccaria per disputare l'XI campionato nazionale ciclistico. Vinse
l'anconetano Ubaldo Pugnaloni che tagliò per primo il traguardo sul viale
del Re e che venne premiato con 70 lire. Nel pomeriggio, invece,
precisamente alle 17.30, allo stadio Berta, attuale Artemio Franchi, i
fiorentini poterono assistere gratuitamente alla finale del IV Gran Premio
dei Giovani che vide circa 132 Avanguardisti (ragazzi dai 14 ai 18 anni)
gareggiare nel salto con l'asta, nel salto in lungo e in alto, nei 110 metri a
ostacoli, nel lancio del disco e del giavellotto e nei 100, 400, 800 e 3000
metri. Altro appuntamento sportivo fu rappresentato dagli incontri di
pugilato che si tennero in Oltrarno presso il Gruppo Rionale Fascista
Luporini. Ma a chi non interessava lo sport, quel giorno poté scegliere di
assistere a una delle Messe che si celebravano nelle chiese cittadine o, in
alternativa, andare a vedere un bel film in una delle 24 sale
cinematografiche aperte. In quella calda domenica estiva niente, perciò,
faceva supporre che di lì a qualche ora sarebbe ufficialmente finita la
dittatura che durava da ben venti anni.
In città la notizia della caduta di Mussolini e della costituzione del governo
Badoglio arrivò per radio alle 22.45. Contrariamente a quanto si possa
pensare, non vi furono incredibili manifestazioni di gioia e grandi problemi
per l'ordine pubblico. Rispetto all'importanza dell'evento, infatti, le reazioni
furono minime da una parte e dall'altra. I fascisti, pur avendo in mano i
punti nevralgici della città e pur detenendo armi, si fecero da parte e
rinunciarono al potere senza opporre resistenza. Gli antifascisti e in
particolare gli esponenti dei movimenti clandestini, che da tempo si erano
ricostituiti in città, sfilarono qua e là negli spontanei cortei cittadini, ma, a
17
parte piccoli scontri con la polizia, non accadde niente di grave. I cittadini,
in generale, si comportarono correttamente e si limitarono ad esporre il
tricolore e a mostrare in volto un limpido sorriso. Così, durante la mattinata
del 26 luglio, come riporta la cronaca dei due quotidiani cittadini - ovvero
la Nazione, diretta allora da Bruno Micheli, poi sostituito nello stesso
periodo badogliano da Carlo Scarfoglio, e il Nuovo Giornale, diretto da
Enrico Novelli (il famoso Yambo) - si notò un “fiorire di tricolori”, ma
l'ordine pubblico venne perfettamente mantenuto. Da piazza Vittorio
Emanuele partì un corteo che sfilò per le vie del centro. Venne chiesta la
liberazione dei detenuti politici rinchiusi nel carcere delle Murate. Un altro
corteo partì da Santa Croce e arrivò in via del Corso, dove, però, accorsero
anche polizia e carabinieri per disperdere il piccolo gruppo di dimostranti e,
in effetti, riuscirono nel loro intento. Anche in piazza San Marco si formò
un assembramento di studenti sotto la Loggetta dell'Accademia delle Arti e
del Disegno. I carabinieri intervennero anche qui e, dopo qualche scontro
fisico, gli studenti se ne andarono. Qualcuno pensò anche di invadere le
sedi del Nuovo Giornale e della Nazione in via Ricasoli, ma l'azione non
andò in porto. Alla Galileo di viale Morgagni alcuni operai smisero di
lavorare e si incontrarono in piazza Dalmazia, alcuni di essi salutarono con
il pugno chiuso. Altri piccoli tafferugli ebbero luogo in Borgo Ognissanti e
presso il Ponte alla Carraia. In alcuni punti della città vennero buttate giù
insegne, targhe fasciste e busti del Duce. Di questi, l'episodio più
importante fu quello che avvenne nell'atrio del Conservatorio Cherubini,
dove fu appunto abbattuta una statua di Mussolini. All'evento
5
avrebbero
partecipato anche due professori del Conservatorio, in particolare il
maestro Enzo Borrella e niente meno che il professore Luigi Dallapiccola,
compositore nato in Istria e trasferitosi nel '22 a Firenze, dove dal '34
deteneva la cattedra di pianoforte complementare presso il Conservatorio.
Proprio Dallapiccola racconta nel libro “Firenze: dalle Giubbe Rosse
5
Cfr. ACS, documento emesso dal comando fiorentino della GNR il 25 febbraio ’44.
18
all'Antico Fattore”
6
un aneddoto che riguarda la giornata del 26 luglio. In
città, tra le tante voci, si era sparsa anche quella che sosteneva che Hitler si
fosse sparato. Così, il maestro, giunto presso il famoso ristorante di Via
Lambertesca, l'Antico Fattore appunto, celebre ritrovo di pittori, scrittori e
letterati, chiamò “sor Giulio”, il proprietario, e gli chiese se avesse saputo
qualcosa di quell'incredibile notizia che dava il Führer per suicida. Sor
Giulio rispose, lapidario: ”L'avrebbe fatto 'i su' dovere!”.
Ad ogni modo anche nei giorni seguenti si diffusero tra la gente le storie
più incredibili e si parlò di gravi atti di violenza avvenuti. Il 28 luglio
qualcuno mise in giro la notizia della firma dell'armistizio
7
, pochi giorni
dopo si sparse la voce secondo la quale i prodotti agricoli non dovevano
più essere conferiti agli ammassi, mentre altre voci confermarono che
Gambacciani, il famoso e temuto aguzzino di San Frediano, era finito
arrosto in forno. D'altronde i fiorentini, che leggevano poco i giornali,
apprendevano molte notizie parlando con il vicino o con l'amico del bar,
cosicché spesso la verità veniva distorta e ingigantita. Un caso esemplare è
quello di un macellaio ottantenne che fu costretto a pubblicare sulla
Nazione un avviso con il quale faceva sapere a tutti i suoi conoscenti che
non era morto, come invece molti lo credevano a causa della scomparsa di
un omonimo. In realtà, dicerie a parte, il conto dei feriti per la giornata del
26 luglio ammontò in tutto a una cinquantina
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massimo (secondo alcune
fonti sarebbero stati addirittura solo una trentina
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) e questo a testimonianza
di un passaggio di poteri tutto sommato pacifico.
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L. DALLAPICCOLA in “Firenze: dalle Giubbe Rosse all’Antico Fattore”, a cura di M.
Vannucci, Le Monnier, Firenze, ’73.
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In ACS, M.I, Dir. Gen. P.S, Div. AA. GG. e RR., cat. A5G II GM, b. 143 fasc. 214 s.f. 2 ins. 28.
In “Relazione settimanale sullo spirito pubblico” del 28/07/43 si legge però: “..il 26 (luglio ndr)
alle 11 è circolata la notizia dell’armistizio. Il Prefetto ha fatto suonare le sirene di allarme per dare
prova della infondatezza della notizia, ma i militari hanno dovuto comunque usare le armi per
indurre i dimostranti a entrare nei rifugi”. Il che fa supporre che più volte in più giorni tale notizia
si fosse diffusa in città.
8
Cfr. ACS, M.I, Dir. Gen. P.S, Div. AA. GG. e RR., cat. A5G II GM, b. 143 fasc. 214 s.f 2 ins.
28.