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Introduzione
In questa tesi ho esaminato come nasce e si sviluppa una nozione di ambiente
in un contesto agricolo in rapida trasformazione. Ho dunque scelto di esaminare
come le piantagioni di palma da olio, che costituiscono un caso noto nel dibattito
internazionale oltre che un fenomeno fra i più controversi, svolgano un
importante ruolo sociale, politico ed economico.
Ho perciò preso in esame il caso delle piccole piantagioni di palma da olio
nella provincia di Aceh, sull’isola di Sumatra in Indonesia. Inoltre mi sono
interessata ai movimenti ambientalisti, situati soprattutto nell’area urbana,
presenti in questa particolare provincia indonesiana, colpita da un forte sisma e
da uno tsunami nel dicembre 2004.
Durante i mesi di ricerca ho prestato attenzione a tre argomenti in particolare.
Ho cercato di indagare se ci fosse un concetto locale di risorsa naturale e come i
miei interlocutori vi si rapportassero. Inoltre ho analizzato le differenze che
caratterizzano le diverse aree della provincia di Aceh, abitando in diversi distretti
al fine di studiare la complessità del contesto socio-agricolo in cui ho condotto la
ricerca. Infine ho ragionato sulla costruzione del futuro ambientale da parte dei
miei interlocutori; ho lavorato sull’ipotesi che sebbene in Aceh non ci fossero
situazioni di deforestazione comparabili con quelle di altri contesti
dell’arcipelago, si avesse un’idea di quale sia l’impatto di una piantagione
intensiva e di quali siano le criticità future di questo modello agro-economico.
Ho condotto la ricerca sul campo rivolgendomi a due tipologie di interlocutori.
La prima è quella dei contadini e dei proprietari di piantagione di palma da olio,
mentre la seconda quella costituita dalle ONG ambientaliste cittadine, delle
organizzazioni studentesche e da semplici amanti della natura.
Il mio studio si è incentrato principalmente in tre distretti di Aceh: il distretto
di Aceh Jaya in particolare i villaggi di Pasir Tebe e Panga, il distretto di Aceh
Besar, e in particolare la città di Banda Aceh e il distretto di LhokseUmawe,
specialmente il villaggio di Paloh Meriah. Nel corso dei mesi però mi sono
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spostata più volte con permanenze più brevi in diversi distretti di Aceh, come il
distretto di Sabang e quello di Benar Meriah.
Una delle autrici che più mi ha aiutata a definire il mio elaborato è stata Kay
Milton (1996, 2002), i cui lavori mi hanno fornito lo spunto per approfondire la
tematica della nascita della coscienza ambientalista e del sentimento empatico tra
gli individui e la natura. Milton ha ragionato sull’ambientalismo come prodotto
culturale ed io ho cercato di fare lo stesso nel contesto in cui ho condotto la mia
ricerca, a partire dai dati che avevo raccolto durante le varie interviste. Ho
cercato di indagare se i miei intervistati fossero preoccupati che l’ambiente
naturale di cui si circondavano potesse trasformarsi o deturparsi nel futuro a
causa delle attività umane sul territorio. Prima della ricerca sul campo mi
aspettavo che le persone che avrei incontrato fossero a conoscenza dei problemi,
dei rischi e dei disagi ambientali che le piantagioni di palma da olio causano nei
villaggi adiacenti e che ne fossero in qualche modo preoccupati.
Mi sono servita anche dello studio di Olivier De Sardan (1995) a proposito
degli stereotipi utilizzati nei progetti di sviluppo. Alcuni stereotipi proposti
dall’autore si ritrovano anche all’interno dei discorsi e delle pratiche delle ONG
acehnesi cittadine che ho incontrato. Queste organizzazioni descrivono l’altro, in
questo caso il contadino o il proprietario di una piccola piantagione, a partire da
stereotipi apparentemente fissi che non sono in grado di restituire la complessità
sociale degli abitanti dei villaggi o dei lavoratori agricoli. Una delle mie ipotesi
era che le ONG dipingessero i loro interlocutori, i lavoratori agricoli e gli abitanti
dei villaggi tramite categorie immobili e non sfaccettate. Inoltre ipotizzavo che i
contadini non gradissero l’interferenza delle organizzazioni ambientaliste nei
villaggi o nei campi e che l’incapacità di questi due attori, ONG e contadini,
impedisse l’innesto di progetti di educazione ambientale condivisi.
Infine ho utilizzato il concetto di frizione elaborato da Tsing (2004) per
analizzare la complessità di flussi culturali, economici, politici, sociali o ideali
che attraversano la piccola piantagione di palma da olio. L’autrice spiega il
concetto di frizione come quello “stabilirsi di dinamiche di interconnessione
goffe, inique, instabili e creative che passano attraverso la differenza” (2004, p.
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4). Nel momento in cui prodotti e persone sono vengono in contatto fra di loro, in
luoghi e momenti diversi, questa connessione non è assoluta, ma anzi è
caratterizzata da trasformazioni, da significati mutevoli e dalle differenti
prospettive di coloro che sono coinvolti in questo interscambio. La piantagione si
propone come un luogo in cui la frizione prodotta da politiche differenti, letture
del paesaggio complesse, capacità personali ed intenzioni multiple dei lavoratori
e proprietari si scontra con un ambientalismo cittadino, incentrato più sulla tutela
di aree-parco già esistenti, che sull’approfondimento della dinamica di
modificazione del paesaggio implicita nel lavoro agricolo.
Nel primo capitolo di questo lavoro analizzerò il concetto di ambiente così
come studiato dalla disciplina antropologica, per poi soffermarmi sulle teorie del
rapporto uomo-ambiente che hanno segnato il corso delle analisi proprie della
geografia umana e dell’antropologia culturale. Successivamente mi concentrerò
sulla metodologia di ricerca utilizzata: la ricerca multi-situata ha permesso un
continuo aggiustamento dell’oggetto di studio grazie all’analisi delle diverse
visioni del mondo fornite dai miei interlocutori. Inoltre focalizzerò l’attenzione
sulle molteplici vesti che il ricercatore può assumere durante un’esperienza di
ricerca al fine di illustrare la complessità di cui la propria figura viene rivestita
sul campo.
Nel secondo capitolo approfondirò il dibattito pubblico italiano relativo
all’utilizzo dell’olio di palma. Negli ultimi due anni in Italia si è prestata grande
attenzione a questa tematica grazie ad articoli di divulgazione e reportage
alimentando due tipi di discorso: quello salutista e quello ambientalista. Parlare
di olio di palma in Italia è tuttora possibile solo tramite il discorso salutista, in cui
questo grasso si configura come nemico della salute umana, e attraverso il
discorso ambientalista, in cui la coltivazione della palma viene ascritta alla sola
dimensione della distruzione del manto forestale. In questo stesso capitolo
rifletterò anche sul tema dell’adat, la legge consuetudinaria che regola diversi
aspetti della vita acehnese in particolare, e indonesiana in generale, e che
influisce anche sulla gestione e sul controllo delle piantagioni. Infine illustrerò il
caso della provincia di Aceh, in cui la dimensione familiare e domestica,
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fortemente legata al villaggio è ciò che caratterizza il settore delle piantagioni di
palma da olio.
Nel terzo capitolo mi soffermerò sulla nascita della coscienza ambientalista.
Vorrei indagare fino a che punto e in che modalità sia possibile pensare il
cambiamento ambientale. Per far ciò analizzerò la coscienza ambientalista come
prodotto culturale, fortemente connesso con la sfera emotiva, dei saperi e della
sensibilità individuale. Illustrerò brevemente inoltre anche lo sviluppo dei
movimenti ambientalisti contemporanei, cercando di comprendere come
dall’interesse e dalla preoccupazione del singolo individuo possano emergere
organizzazioni su base volontaria che cercano di tutelare l’ambiente. Inoltre mi
focalizzerò sulla situazione acehnese e sulla capacità di immaginare il
cambiamento ambientale. Successivamente riproporrò il punto di vista delle
ONG ambientaliste e quello dei lavoratori e dei piccoli proprietari che, sebbene si
trovino su due fronti opposti per quanto riguarda la “gestione delle risorse
naturali”, abbracciano però la stessa idea: il sentirsi speciali ed esclusi da quelle
dinamiche di deforestazione intensiva presenti in altre parti della stessa isola di
Sumatra.
Infine, nell’ultimo capitolo, affronterò il problema ambientale cercando di
ribaltare una questione precedentemente posta: come una preoccupazione
ambientale percepita dalla collettività possa contagiare anche individui che si
sentono lontani da queste problematiche. Approfondirò la figura dello stereotipo
del contadino, così come costruita da Olivier De Sardan (1995), in relazione alle
letture e alla critica sociale elaborata dalle ONG cittadine. Le piantagioni che ho
studiato si configurano come luoghi in cui più poteri, visioni del mondo, ideali e
attori sociali si confrontano. Mi servirò anche del concetto di “arena politica”
elaborato dallo stesso autore al fine di mostrare la complessità di questi luoghi
contemporaneamente centrali per l’economia locale e marginali per le dinamiche
del mercato globale. Successivamente tenterò di analizzare, attraverso il concetto
di frizione formulato da Anna Tsing (2004), le molteplici produzioni di senso
sociale derivanti dall’incontro tra flussi politici, economici, sociali e culturali che
attraversano e permeano la piccola piantagione di palma da olio. Questi luoghi
venivano vissuti con ambiguità da parte delle ONG e dei contadini: da un lato i
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miei interlocutori ne vedevano le negatività, connesse con disagi ambientali
vissuti in prima persona, dall’altro essi riconoscevano l’importanza strategica
delle piantagioni al fine di garantire un adeguato sviluppo socio-economico del
villaggio.
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Capitolo 1. Ambientarsi: concetti e metodi per un’antropologia
dell’ambiente
La disciplina antropologica si è sempre interessata delle società umane e dei
rapporti che esse costruiscono, giorno dopo giorno, non solo con gli appartenenti
al proprio gruppo sociale, ma anche con i vari ambienti naturali. L’ambiente,
inteso come lo spazio in cui i gruppi umani agiscono, riveste un’importanza
particolare per gli individui e non è possibile discutere delle relazioni sociali
senza prendere in considerazione anche la vasta gamma di significati che si
attribuiscono alla natura.
Parlare di antropologia dell’ambiente significa anche discutere di
un’antropologia del conflitto; molti sono gli ambienti nei quali si incapsulano
conflitti sociali. Disastri naturali si inscrivono sempre di più all’interno di
questioni politiche di disagio e di diseguaglianza sociale e l’antropologia
politicizza questi conflitti socio-ambientali gettando luce sulle conseguenze
culturali e sociali (Rossi 2012, p. 13). Attraverso l’intervento diretto nel processo
che si intende esaminare, l’antropologia ambientale analizza pertanto quello che è
il proprio posizionamento e sul tipo di impatto che possa venir generato
dall’esperienza della ricerca di campo.
1.1. Cenni di antropologia ambientale
1.1.1. Il concetto di ambiente in antropologia
Dal momento in cui sono state abbandonate le poltrone delle biblioteche, il
confronto tra etnografi e ambienti naturali è divenuto parte integrante della
ricerca sul campo. Ad esempio Evans-Pritchard durante il suo lungo periodo di
ricerca presso i Nuer, situati nell’allora Sudan anglo egiziano, si ritrovò in un
ambiente particolarmente ostile: ad abbondanti piogge che causavano allagamenti
e ciclico allontanamento del gruppo dalle proprie dimore, seguivano periodi di
intensa siccità che misero alla prova l’antropologo inglese (Evans-Pritchard
1940, pp. 94-143).
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All’interno del discorso antropologico le prospettive di ricerca che indagavano
il rapporto dell’individuo con la natura sono state differenti. Il lavoro di Claude
Lévi-Strauss mise in evidenza come ogni gruppo sociale possieda un nucleo di
scientificità attraverso il quale interpreta la natura. Per l’antropologo francese
l’analisi della natura diveniva prettamente scientifica e non interrelata con l’opera
umana: accanto a questo tipo di indagine non veniva posta attenzione ad
un’antropologia indigena. La natura umana era indiscutibile e le antropologie
indigene divenivano fuorvianti al fine di un’indagine scientifica. L’indiscutibilità
della natura umana, in questa prospettiva, genera delle strutture di idee e concetti
che sono fuorvianti nell’interpretazione ambientale da parte degli individui.
Questi ultimi agiscono in un ambiente che non li compenetra, ma che rimane
esterno e perde importanza al fine dell’interpretazione dell’altro (Remotti 2011,
pp. 329-334).
Un cambiamento importante è quello derivante dall’opera di Philippe Descola
(2014), in cui si critica la nozione di natura distaccata, esterna ed inferiore
all’individuo. Per Descola gli individui hanno allontanato tutto ciò che è
considerato naturale, ponendosi in una posizione di centralità, attorno a cui
ruotano animali, paesaggi e vegetali. È interessante notare che la società umana
condivida con i non-umani molti più aspetti di quanto si creda, come ad esempio
la continuità genetica. Nonostante si possa provare una passione smisurata per
l’ambiente e la natura, è difficile comprendere l’intreccio tra il gruppo umano e il
gruppo non-umano: eppure l’ambiente non è esterno, ma gli individui sono
formati dalla natura che abbiamo esternalizzato e che li pervade anche dal punto
di vista biologico. In questa prospettiva si pone la dialettica uomo-ambiente ad un
livello superiore, tale da scorporare lo stesso binomio, perché difatti la ricerca di
Descola punta a decostruire la dimensione altra nella quale è stato rilegato
l’ambiente.
Nel corso della storia dell’antropologia e della geografia umana, il
diffusionismo statunitense fu in grado di porre al centro del suo studio l'ambiente,
focalizzando l’attenzione in particolar modo sulla distribuzione geografica delle
culture indiane. Proprio negli anni in cui si affermava lo studio delle culture nella
loro specifica individualità, il diffusionismo ribaltava la questione, dando ampio
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respiro ai fondamenti geografici ambientali di trasmissione dei saperi (Fabietti
2001).
Successivamente, le spedizioni allo stretto di Torres, 1888-1889 e 1898-1899,
divennero pietre miliari per l'antropologia, non solo perché segnarono l'inizio di
progetti collaborativi con esperti di altri settore scientifici, ma soprattutto perché
fecero luce sulla necessità della ricerca sul campo. La fine dello studio delle
culture dalle sale delle biblioteche, ha permesso agli etnografi di prendere in
considerazione anche gli ambienti in cui le comunità locali oggetto di studio
vivevano.
La connessione profonda tra il mondo sociale e quello naturale si evidenzia
anche all’interno di studi sulle pratiche mitico-religione (Geertz 1987) o
sull’organizzazione spaziale ed economica (Malinowski 1922). L'ambiente
diviene parte integrante dunque dello studio antropologico. Inizialmente esso si
configura come il luogo in cui i vari gruppi studiati vivevano e costruivano il loro
insieme di senso; successivamente venne scoperta la relazione ricorsiva tra
sistemi della cultura e sistemi della natura, permettendo all'ambiente di divenire
un soggetto attivo nella definizione dei significati culturali.
Ad esempio il caso del pangolino dei Lele del Kasai, riportato da Mary
Douglas (Douglas 1993, pp.231-258) può essere un valido esempio della
relazione natura/cultura. L’impossibilità di catalogare questo animale, e dunque
di inserirlo all’interno del proprio sistema di senso, derivava dalle particolarità
del pangolino: mammifero a bassa natalità, con le squame e notturno. Il
pangolino assumeva quindi una carica spirituale estremamente forte, celebrata
durante particolari riti. La natura dunque veniva investita dal sistema culturale
stesso, anzi ne faceva pienamente parte (Douglas 1993).
Altro esempio è quello della divisione sociale ed economica degli spazi
all’interno del pensiero Nuer, gruppo etnico situato nel Sudan anglo egiziano.
Evans-Pritchard (1940) offre un’analisi approfondita delle differenze di
significato inscritte nel binomio villaggio/foresta. Se il primo è il luogo
dell'ordine, del pulito, delle regole e dell'uomo, la seconda viene descritta come
misteriosa, sporca, regno degli animali selvaggi e pericolosa. Da questa divisione
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scaturita da una profonda analisi ambientale, veniva fatto derivare dai Nuer un
insieme di regole sociali.
Lo strutturalismo francese diresse il proprio interesse verso lo studio delle
diversità naturali presenti in un dato luogo. Venne posta attenzione sulle
classificazioni che permettessero di avere sì un quadro completo della dinamicità
ambientale, ma che potessero anche dar forma ad uno schema di pensiero nel
quale si inscrivevano i significati culturali. Lo sviluppo di diverse modalità di
lettura-percezione dell'ambiente circostante, restituiva agli etnografi una specifica
visione del mondo. Si cercava di comprendere l'insieme di senso che le comunità
locali, solitamente extra-europee, costruivano proprio a partire dalla natura in cui
vivevano.
Particolarmente importante per lo studio dell'ambiente in antropologia fu
l'etnoscienza, disciplina che si è occupata dell'organizzazione delle conoscenze di
un dato gruppo sociale e che ha raccolto una grandissima quantità di dati
riguardanti lo studio delle varietà naturali. Queste ultime non sono solamente
oggetto di ricerca scientifica, ma vengono investite di senso da parte delle
comunità locali, diventando parte significativa dell'assetto culturale adottato.
L'etnoscienza ha permesso di superare le concezioni primitivistiche dei gruppi
altri, mostrando la complessità di pensiero, il livello di logica e la capacità
organizzativa delle varie culture, ma ha anche posto in primo piano, in quanto
soggetti attivi, l'ambiente e la natura, non più rilegati a semplice sfondo.
Le critiche connesse con questa disciplina sono fondamentalmente legate alla
problematicità della distinzione tra sapere scientifico "universale" e quello
popolare, cioè quello vissuto dalle comunità locali valide solo in un determinato
tempo e spazio. Attualmente l'attenzione viene posta proprio su quella
discrepanza tra l'universale e il popolare, cercando di analizzare e comprendere
tutte quelle sfumature con cui si costruiscono significati ambientali. Se i saperi
naturalistici scientifici riducono l'ambiente ad un oggetto da conservare,
proteggere e gestire, riproponendo dunque l'antico assioma uomo-ambiente, in
cui il secondo domina fermamente sul primo, i saperi popolari si trovano ad avere
un rapporto diverso con l'ambiente, un rapporto tra soggetti.
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L'ambiente dunque non è più solo un contenitore dell'uomo, ma diventa un
soggetto indispensabile nel cercare di comprendere l'azione sociale nel processo
di produzione di cultura, un attore che si intreccia con l'uomo stesso in maniera
attiva e non più esclusivamente passiva. Ispirata dai lavori di Philippe Descola
(2014) e Tim Ingold (2000), vorrei prima offrire una panoramica di quali siano le
teorie che hanno posto al centro del proprio ragionamento il rapporto uomo-
ambiente e successivamente vorrei approfondire l’importanza assunta dalla
tematica ambientale all’interno degli studi sociali.
Vale la pensa soffermarsi brevemente sul concetto di natura e sulla sua
complessità. Natura e ambiente vengono spesso confusi nella discussione
pubblica e questo a causa delle molteplici interpretazioni di significato che vi
possono essere attribuite. Idee diverse di ambiente portano inevitabilmente a idee
differenti di cosa sia la natura: interessante a tal proposito è l’esempio proposto
da Von Uexküll concernente i diversi significati attribuiti da parte di soggetti
diversi ad un albero del bosco. Così una quercia può apparire diversamente ad un
boscaiolo o ad un bambino e ancora diversa può apparire ai non-umani, ad
esempio a volpi o gufi. La molteplicità di interpretazione di un elemento naturale
porta inevitabilmente ad una visione differente dell’ambiente in cui ci si ritrova
immersi (Rasini V., 201. P.263)
Ad esempio il Fai, Fondo per l’ambiente italiano (2015), definisce natura
come il complesso degli esseri viventi, delle forze e dei fenomeni che hanno in sé
un principio costitutivo che ne stabilisce l’ordine e le regole. Natura indica anche
un ambiente fisico poco condizionato o modificato dall’intervento dell’uomo.
Questa interpretazione del concetto di natura propone una univocità di lettura
dell’ambiente, del paesaggio e dei soggetti di natura restituendone una
dimensione quantitativa. Al contrario l’interpretazione di natura proposta da Von
Uexküll è incentrata su una concezione singolare, unica e qualitativa che
sottolinea la molteplicità delle visioni rispetto al concetto di “natura” (Rasini V.,
2011, p. 270).
La natura è stata spesso definita attraverso una serie di opposizioni ed
esclusioni rispetto alla finzione, all’artificio, come nell’arte, oppure rispetto alla