Presentazione
Scopo della tesi è delineare il lavoro registico di Luchino Visconti
nel panorama teatrale italiano tra il 1945, anno del suo esordio sulle
scene, e il 1973, quando andò in scena l‟ultimo spettacolo, Tanto tempo
fa, di Harold Pinter.
Il primo capitolo ha il compito di definire, seppur brevemente, il
panorama teatrale entro cui collocare il debutto di Visconti: il contesto di
quegli anni è fondamentale per capire non solo la forza con cui il regista
milanese si impose sulle scene, ma anche le innovazioni che a partire dal
secondo dopoguerra si succedono nel teatro italiano, che vede il
definitivo tramontare di una tradizione secolare e il nascere di un sistema
produttivo e di un orizzonte culturale diverso, anche se dai contorni
piuttosto confusi.
Nel secondo capitolo si affronta la critica: partendo da un articolo di
Ferdinando Taviani, che mette in luce le difficoltà nel definire con
esattezza chi sia il regista, si passa per quello che può essere definito lo
spunto iniziale di questa tesi: Fondamenti del teatro italiano. La
generazione dei registi di Claudio Meldolesi, forse una delle opere più
complete e ricche riguardanti il teatro italiano di quegli anni.
Attraverso la definizione delle tre categorie di “regia a
orchestrazione stilistica”, “regia a spettacolo unico” e “regia critica”,
Meldolesi individua un raggio di azione molto chiaro, che vede il
definirsi di elementi scanditi e precisi che dettano gli aspetti salienti dei
tre approcci registici.
Nello “spettacolo unico” Meldolesi pone anche Visconti e vedremo
che questa attribuzione ha un valore specifico in rapporto ad alcune
scelte stilistiche, organizzative e artistiche del regista, ma fin dall‟inizio
5
diviene rilevante come l‟approccio viscontiano alla materia spettacolare
susciti già negli anni del suo esordio un dibattito sulla funzione del
regista e sulla differenza fra “regia creativa” e “regia critica”.
Il tutto sottolinea non solo una confusione nella terminologia, ma
anche una impossibilità di applicare certe categorie storiografiche in
modo assoluto.
In questo secondo capitolo, si fa strada il principale filo tematico di
questa tesi: il rapporto fra Visconti e il testo da mettere in scena.
La ricerca fatta ha così portato all‟idea di un regista, Luchino
Visconti, che per personalità, formazione e approccio si può definire
“autore teatrale” poiché sfrutta il testo, allargando le maglie della
superficie verbale, così da realizzare un ingranaggio testuale e,
successivamente, spettacolare originale e spesso autonomo.
Il terzo capitolo raccoglie, per questo, le linee interpretative e
critiche che hanno mosso questo studio: l‟educazione letteraria, la
formazione cinematografica e, infine, l‟approccio etico al testo diventano
tutte un tentativo di lettura del lavoro viscontiano, un tentativo che ha
condotto costantemente a nuove domande, ha prodotto un ampliamento
della sfera di ricerca, arrivando a puntualizzare che l‟intenzione spesso
scandalosa da cui partiva Visconti non è semplicemente un
atteggiamento, ma è essa stessa sostanza, metodo. Il suo immergersi nel
testo è un arrivare a quanto di più nascosto c‟è nel dramma, è la ricerca
di quel filo teso e pronto a spezzarsi che scandisce il ritmo e le azioni dei
personaggi, che delinea l‟ambiente che li circonda e li avvolge.
Il “conflitto” non è mero elemento reiterato; al contrario, è il nodo
tematico di trent‟anni di lavoro, il nucleo da cui sorge l‟idea che informa
lo spettacolo, cui Visconti tenta di restituire dignità e integrità.
6
Introduzione
Nel 2006 in Italia si sono svolte le celebrazioni per il trentennale
della morte di Luchino Visconti.
Questo nome è normalmente associato alla storia del cinema
italiano: nei suoi film da sempre la critica ha rintracciato nodi tematici e
stilistici sui quali dibattere, anche aspramente; il tutto si è poi spesso
tradotto in una serie snocciolata di etichette che, a ben vedere, irretiscono
ogni argomento cristallizzandolo.
Non a caso, Pio Baldelli, introducendo il suo lavoro monografico
sul regista, ricorda come a lungo Visconti sia stato identificato come
“l‟autore nazional – popolare – gramsciano: autore rivoluzionario, dalla
parte dell‟ideologia operaia, demistificatore della storia aulica, di
rompitore del passato. Esaltato oppure ingiuriato e tenuto in quarantena
(a seconda dei punti di vista) per la dialettica marxista che introdurrebbe
nelle sue storie, per i suoi personaggi positivi, per la vittoria del «sano»
sul marcio.”
1
Ecco comparire la prima categoria entro cui il personaggio –
Visconti viene incanalato: l‟ideologia marxista
2
, accompagnata
1
Pio Baldelli, Luchino Visconti, Milano, Gabriele Mazzotta editore, 1973, pp. 8 – 9.
2
Certo, le dichiarazioni dello stesso regista contribuiscono non poco a questa convinzione. Quando parla della sua
formazione artistica, Visconti cita come suo maestro Jean Renoir, con cui collabora nel 1938 per Une partie de
campagne. Oltre a riferirsi all‟apprendistato artistico, Visconti afferma “Furono proprio il mio soggiorno in Francia e la
conoscenza di un uomo come Renoir che mi aprirono gli occhi su molte cose. Capii che il cinema poteva essere il
mezzo per avvicinarsi a certe verità da cui eravamo lontanissimi, specialmente in Italia. […] Durante quel periodo
ardente – era quello del Fronte Popolare – aderii a tutte le idee, a tutti i principi estetici e non soltanto estetici, ma
anche politici. Il gruppo di Renoir era schierato nettamente a sinistra e Renoir stesso, anche se non era iscritto, era
certamente molto vicino al partito comunista. In quel momento ho veramente aperto gli occhi: venivo da un paese
fascista dove non era possibile sapere niente, leggere niente, conoscere niente, né avere esperienze personali. Subii uno
choc. Quando tornai in Italia, ero veramente molto cambiato.” Giuliana Callegari, Nuccio Lodato, Leggere Visconti,
Pavia, Amministrazione Provinciale di Pavia, 1976, p. 100. Nel 1946, alla vigilia delle elezioni politiche in Italia, scrive
un articolo in cui dichiara esplicitamente il suo voto per il PCI: Luchino Visconti, Perché voterò per il partito
Comunista, “L‟Unità”, 12 maggio 1946.
7
fedelmente dall‟idea di un neorealismo viscontiano che detta le linee
fondanti il suo stile.
Negli anni ‟50 poi, dopo l‟uscita di Senso (1954), la critica
individua un nuovo corso nella produzione filmica che si lega
indissolubilmente al concetto di decadenza: “a questo punto si stabilisce
la separazione tra «positivo» e «negativo», e si divide l‟ideologia (intesa
come concezione del mondo, militanza politica) dallo stile (linguaggio),
nel senso che si proclama: come ideologia il regista «sta a posto»,
aderisce, vota per il partito ossia per la rivoluzione; la scelta politica sta
dalla parte del marxismo […]. E subito dopo si aggiunge: nell‟artista,
invece, prevale «la natura», lo stile e la passione che si scatena nella
contemplazione delle cose che crollano, fatiscenti.”
3
Non più neorealismo, quindi, ma un approccio con la realtà che
sembra ricercare una bellezza perfetta e sul punto di appassire
4
: secondo
la critica, è questo processo di deperimento a stimolare l‟immaginazione
di Visconti e a sostanziare i contenuti dei suoi successivi film.
Si profila così una dicotomia quasi irrisolvibile fra il “pensiero” e la
“forma”, una divisione netta che rispecchia anche un aspetto biografico
del regista: in molti si chiedono come sia possibile che il discendente di
una delle famiglie aristocratiche italiane più in vista, quei Visconti che
per secoli hanno governato Milano, possa professarsi comunista.
Questo dettaglio si rivela la prima vera fonte di scandalo agli occhi
di chi guarda il conte Luchino Visconti.
Sotto la superficie ingombrante del cinema, sta però tutto il vasto ed
effimero territorio della sua attività teatrale.
3
Pio Baldelli, Luchino Visconti, op. cit., pp. 9 – 10.
4
In una intervista televisiva, riproposta in un documentario della BBC Four, The life and times of Luchino Visconti,
andato in onda nell‟agosto del 2003, Visconti, parlando di Morte a Venezia, film del 1971 ripreso dal romanzo
omonimo di Thomas Mann, afferma che non è la morte del protagonista a interessarlo e affascinarlo, quanto piuttosto le
modalità di questa morte, che definisce intellettuale: “è la storia di un intellettuale che ha inseguito la bellezza, la
bellezza assoluta nel mondo, e quando la trova accidentalmente nella vita, nel giovane ragazzo, tocca con mano che la
bellezza assoluta esiste. Posare lo sguardo sulla bellezza equivale a posare lo sguardo sulla morte.” [traduzione nostra].
8
Dal 1945 Luchino Visconti si applica con audacia e costanza al
teatro di prosa e fino al 1976, anno della sua morte, porta in scena
quarantadue spettacoli, senza prendere in considerazione i due
esperimenti di danza e la grande e fiorente produzione nel campo della
lirica.
Rimanendo nei limiti della prosa, ci proponiamo di individuare,
attraverso il repertorio, quelle strategie registiche e non che Visconti
adottava nella creazione dei suoi spettacoli.
Vedremo come certe scelte, spesso indicate come imposizioni di
una “sensibilità «stravagante»”
5
, rivelino una forza innovativa e
un‟autorevolezza metodica che ai più facevano banalmente pensare al
desiderio di scandalizzare il pubblico e trasgredire lo “spirito del testo”.
Una delle questioni più spinose nel campo degli studi teatrali è
proprio quella di delineare il rapporto fra regista e autore: quest‟ultimo è
normalmente ritenuto lo scrittore del testo che informa lo svolgimento
dello spettacolo.
Il regista, allora, chi è? Semplice esecutore del testo o autore egli
stesso di un nuovo testo che prende avvio dalla lettera stampata per
dirigersi in direzioni anche opposte a essa?
La dialettica fra letteratura drammatica e spettacolo teatrale ha
contribuito a creare un ampio territorio di discussione sulla relazione fra
i due ambiti e, come capita in tutti i confronti, il rischio è sempre quello
di cadere in una ostinazione del pensiero e delle posizioni: “sarà bene
liberare la letteratura drammatica dal rischio di una doppia rigidità:
quella in agguato per ogni testo letterario, derivante dalla superstizione
secondo cui il «contenuto profondo» starebbe davvero dentro l‟opera ed
il significato sommerso sarebbe fisso e uno, il senso sarebbe stabilito; ed
5
Gerardo Guerrieri, Luchino Visconti, regista teatrale, in Stefano Geraci (ed.), Il Teatro di Visconti, scritti di Gerardo
Guerrieri, Roma, Officina Edizioni, 2006, p. 60.
9
una fissità specifica e ulteriore per cui il legame fra testo e
rappresentazione andrebbe visto come un qualcosa di intimo e
d‟indissolubile e non come il semplice provvisorio e non necessario
incontro fra letteratura e spettacolo in una normale vita di relazione.”
6
In questo senso, la figura di Visconti ci offre notevoli spunti e
motivi di riflessione: le sue scelte di repertorio, alternando testi classici a
testi moderni, ci mostrano la via di un regista che, come un viaggiatore,
cerca e scruta nella lettera per trovare uno spazio più ampio di
espressione.
Il suo percorso poetico non attiene a un semplice metteur en scène,
ma a un originale “autore aggiunto”, la cui strategia appare chiaramente
nella ricerca costante di riferimenti esterni al testo - dai grandi romanzi
ottocenteschi al melodramma -, nella cura della messa in scena, nella
capacità di elaborare con gli attori una recitazione sempre diversa e ricca
di risonanze, nella combinazione di tecniche teatrali e tecniche
cinematografiche nel montaggio dello spettacolo.
Non siamo più nell‟ambito della fedeltà al testo, ma saltiamo
direttamente a qualcosa di ulteriore: “il regista deve saper leggere
correttamente l‟opera che mette in scena, ma non basta: egli deve saper
costruire nella propria immaginazione quello che io chiamo il «secondo
piano». Checchè si dica, il copione è per il teatro semplice materiale. Io
posso leggere il testo senza cambiarne una sola lettera, ma in uno spirito
diametralmente opposto a quello dell‟autore mediante pochi tocchi di
regia e di recitazione. Perciò la lotta per conservare e incarnare l‟idea
dell‟autore non è una lotta per rispettare la lettera del testo.”
7
A questo “secondo piano” Visconti sembra costantemente tendere:
il suo distacco dalla condizione del teatro italiano degli anni Quaranta si
materializza in modi e forme talmente innovative e talmente prepotenti
6
Ferdinando Taviani, Uomini di scena, uomini di libro, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 16.
7
Donatella Gavrilovich (ed.), Vsevolod Mejerchol‟d, La rivoluzione teatrale, Roma, Editori Riuniti, 2001, p. 338.
10
che, pur avvalendosi di collaborazioni di lunga durata e pur essendo un
ottimo “allevatore” di attori
8
, non riuscì mai a fare scuola e le tracce del
suo passaggio sembrano affievolirsi con il passare del tempo.
“Negli anni del neorealismo e della «guerra fredda», Luchino
Visconti – che non lasciò scritto quasi niente – fu l‟incarnazione dell‟alta
cultura trapiantata nel mondo dello spettacolo. Fu il solo – come più tardi
farà Carmelo Bene – a saper dominare teatro e cinema con eguale
maestria ed eguale originalità. Nell‟Opera, fu il regista della Callas. Nel
teatro di prosa estirpò dagli spettatori il loro sguardo di routine, fece loro
vedere Alfieri e Goldoni, Cechov e la sgradevolezza di Arthur Miller e di
Testori. Gerardo Guerrieri che gli fu accanto nei primi anni della sua
ascesa teatrale scrisse di lui come d‟un artista che applicava alla regia i
criteri dei Grandi attori ottocenteschi, facendoli passare nei sensi degli
spettatori. È uno dei grandi autori del teatro italiano del secondo
Novecento, un narratore che poiché non mise i suoi drammi sulla carta
rischia di sparire dal panorama della drammaturgia.”
9
8
Il termine “allevatore” non è casuale: negli anni Trenta Visconti fu effettivamente allevatore e allenatore di cavalli, e
Sanzio, uno degli stalloni della sua scuderia, fu un famoso vincitore di derby. E proprio Visconti spesso, riferendosi agli
attori, afferma: “Devi capirli. Devi capirli come si capirebbe un cavallo. Ho sempre detto che gli attori assomigliano ai
cavalli. Un cavallo ha bisogno di fare 2000metri ogni mattina; un altro ha bisogno di fare una passeggiata,
semplicemente. Bisogna che tu capisca. Se fai fare 2000 metri a quello della passeggiata sei fregato.” Caterina D‟Amico
De Carvhalo, Renzo Renzi (ed.), Luchino Visconti: il mio teatro, Bologna, Cappelli, 1979, v. I, p. 89.
9
Ferdinando Taviani, Uomini di scena, op. cit., p. 237.
11
Il teatro italiano al debutto di Visconti
1.1 Il tramonto del sistema dei ruoli
Ancora nei primi anni del „900, nelle compagnie italiane di prosa
non era possibile prescindere dal sistema dei ruoli nella distribuzione
delle parti.
Il vecchio e antiquato sistema dei ruoli è ancora il nucleo delle
formazioni drammatiche, pur avendo cominciato a perdere la sua forza e,
soprattutto, la sua essenza stessa.
Nel XIX secolo esso rappresentava il percorso formativo che ogni
attore doveva intraprendere per poter essere considerato a tutti gli effetti
un comico. Non era possibile prescindere da questa formazione per
gradini e tutti procedevano di scalino in scalino prima di arrivare ai ruoli
principali.
Il „900 segna un momento estremamente difficile per questo
sistema convenzionale, che lentamente sparirà dalle compagnie.
Gli elementi che portano al suo tramonto sono di vario genere.
Innanzi tutto, bisogna ricordare che la famiglia dei comici nell‟800 si
formava principalmente di figli d‟arte: “Noi italiani chiamiamo figlio
d’arte colui che nasce da parenti comici”
10
e in quanto tale è destinato a
seguire le orme dei suoi avi. Per un attore nato e cresciuto in compagnia
è molto più difficile allontanarsi dalle abitudini e dalle convenzioni,
tanto è vero che solo due personaggi assolutamente fuori dal comune
tentarono nel corso del XIX secolo una riforma del sistema dei ruoli, che
assunse spesso i connotati di una vera e propria battaglia.
10
Luigi Rasi, I comici italiani, biografia, bibliografia, iconografia, Firenze, Bocca, 1897 – 1905, vol. I, p. 12. I due
volumi di Rasi consentono di seguire e conoscere le vicende delle famiglie comiche, attraverso la chiarezza del filo
genealogico e una ricchezza di fonti e di immagini.
12
Il primo è stato Gustavo Modena
11
, con la sua Compagnia dei
Giovani
12
, l‟altro è Giovanni Emanuel
13
, filodrammatico, cui si devono i
primi grandi successi di Eleonora Duse.
Per entrambi, il ruolo non era un codice fisso: la distribuzione delle
parti doveva essere basata sulle attitudini e le capacità dei vari interpreti
presenti in compagnia; questo era l‟unico principio cui si rifacevano, ma
in pochi seguirono il loro esempio.
A cavallo dei due secoli, la famiglia dei comici si frantuma: non ci
sono più solo i figli d‟arte, ma sempre più spesso capita che gli attori
allontanino i propri figli volontariamente dalle scene, forse consci delle
difficoltà di una vita in continuo movimento e senza alcuna certezza.
Questa nuova tendenza permette di creare i primi spiragli nel
sistema dei ruoli: i filodrammatici sono giovani che, non essendo
cresciuti nelle famiglie d‟arte, sono molto lontani dalle convenzioni e
attuano un primo slabbramento nel concetto stesso di ruolo.
Ma cos‟è il ruolo?
11
Gustavo Modena nasce a Venezia nel 1803. Era figlio d‟arte: la madre era Luigia Lancetti, “attrice di non comune
levatura”, e il padre Giacomo era “grande attor tragico, impareggiabile nelle parti dove campeggiava la paterna
autorità”, come ci racconta Luigi Bonazzi nel suo Gustavo Modena e l’arte sua, Città di Castello, S. Lapi, 1884.
Bonazzi si può a tutti gli effetti definire come il biografo ufficiale di Modena, con cui per altro aveva lavorato. La sua
opera ci racconta la vita del capostipite delle successive generazioni di grandi attori, oltre che maestro di Tommaso
Salvini ed Ernesto Rossi. Come fa notare Claudio Meldolesi “Modena fu un riformatore, poiché sviluppò l‟arte della
recitazione a un livello superiore e sollevò molti problemi sul destino del teatro. […] Ma in pratica egli non riuscì a
portare a compimento una sola delle iniziative riformatrici che balenarono alla sua mente. […] Modena fu uno sconfitto
in politica come in teatro. E però fu il grande padre del teatro italiano. […] L‟essenza della riforma in Modena consiste
nella nuova dignità conferita alla recitazione come espressione in sé, come linguaggio di creazione, come evocazione di
una realtà ideale.” In Claudio Meldolesi, Profilo di Gustavo Modena, Roma, Bulzoni editore, 1971, pp. 59 – 60.
12
La Compagnia dei Giovani nasce nel 1843 per volontà di Modena, che vedeva nei giovani aspiranti attori, senza
alcuna preparazione specifica in fatto di recitazione, una possibilità per riformare il teatro e affermare un nuovo modo di
recitare, privo delle convenzioni che caratterizzavano lo stile degli attori dell‟epoca. Lo scopo era “ringiovanire il teatro
italiano con elementi novelli […] raccogliendo filodrammatici non viziati da protensioni, attori novelli non guasti da
esempi contagiosi e da diuturne abitudini e soprattutto comici provetti che avessero prole da educare, e fossero docili
essi stessi per cavar frutto dalla docilità dei figliuoli.” Luigi Bonazzi, Gustavo Modena e l’arte sua, op. cit., p. 28.
13
Giovanni Emanuel è un dilettante. La sua esperienza è una cesura tra la prima grande generazione di attori, Rossi,
Salvini, Ristori, e la seconda, quella di Novelli, Zacconi e Duse. La sua opera di rinnovamento segue le linee di quella
modeniana, poiché anch‟egli si oppone ai ruoli come standard recitativi e come motivazione della distribuzione dei
ruoli. In una lettera del 1887 a Icilio Polese, suo impresario teatrale, leggiamo: “Ti prego di non propormi dei comici
troppo consumati. Sapessi quanto soffro io quest‟anno a non poter manovrare certi miei attori! Se tu sapessi che po‟ po‟
di cariatidi […] No! Ho giurato di non far più compagnia coi ruoli: chi non vuole se ne vada.”, in Cristina Jandelli, I
ruoli nel teatro italiano tra Otto e Novecento, con un dizionario in 68 voci, Firenze, Le Lettere, 2002, p.212. Sembra
essere molto chiara la necessità per Emanuel, come per Modena, di attori malleabili e disponibili a uscire dal solco della
tradizione.
13
Sergio Tofano racconta così quel mondo: “La lunga tradizione delle
maschere, che delle maschere aveva insegnato la fissità del modello,
aveva finito col generare certe determinate formule di recitazione di cui
gli attori, solo a mettere piede in palcoscenico, restavano imbevuti e che
immutabilmente ripetevano. Questi schemi fissi, nettamente distinti, che
erano il lasciapassare indispensabile ad ogni attore per conquistare il suo
ruolo, diventavano a poco a poco una nuova natura sulla quale si
foggiavano tutti i personaggi da interpretare.
[…]Ogni ruolo aveva il suo solco tracciato e dissodato: ogni
personaggio aveva il suo precedente da ricalcare, senza sforzo.”
14
Il ruolo era quel modo “standard” che permetteva all‟attore di
apprendere e recitare la propria parte e, al tempo stesso, permetteva allo
spettatore di riconoscere immediatamente chi aveva di fronte, se un
personaggio principale o uno secondario.
Ben presto, il guscio protettivo e identificativo del ruolo comincia a
dissolversi.
In I ruoli nel teatro italiano tra Otto e Novecento, Cristina Jandelli
dedica un lungo capitolo alla crisi e alla successiva riforma del ruolo.
Fino agli anni Venti del „900 la struttura essenziale del sistema resistette,
“nonostante le crepe si infittissero con preoccupante rapidità tanto da
decretare la scomparsa pressochè definitiva nelle compagnie maggiori di
alcuni ruoli secondari e la nascita di significative specializzazioni
all‟interno di quelli primari.”
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I primi ruoli a scomparire sono quindi quelli secondari, come la
“servetta” o il “mamo”; al tempo stesso i ruoli principali allargano le
proprie competenze, così da rispondere alle riduzioni di organico che le
compagnie stanno attuando, di fronte alla crisi economica che investe gli
14
Sergio Tofano, Il teatro all’antica italiana, Roma, Bulzoni Editore, 1985, pp. 81-82
15
Cristina Jandelli, I ruoli nel teatro italiano, op. cit., p. 137
14