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gestione della malattia, in particolar modo di quella terminale, nel contesto
socioculturale della realt� urbana occidentale. Anche se una ricerca definita in
tal senso pu� apparire paradossale, dato che la malattia, la salute e la morte si
costituiscono in base al loro carattere �fisico� e �naturale�, attraverso un�analisi
pi� approfondita si � voluto dimostrare il carattere sociale della malattia,
soprattutto nell�analisi delle sue conseguenze. In una visione del mondo legata
all�economia, come pu� essere quella occidentale, nella quale l�uomo si
definisce �produttore�, il malato sar� considerato come deviante perch�
improduttivo. Tutti i meccanismi afferenti ai ruoli di malato e di medico
avranno come scopo quello di ridurre questa distanza e reintegrare il paziente
nella �normalit��. Questa tesi, cerca di illustrare che il linguaggio attraverso il
quale si esprimono la salute e la malattia, non � solo un linguaggio del corpo,
ma � anche espressione del rapporto dell�individuo con la societ�. Nel primo
capitolo si analizza il modo in cui, ogni epoca �sceglie�, fra le diverse
incarnazioni del male, una malattia che domina la realt� dell�esperienza e
struttura le rappresentazioni in base all�insieme delle condizioni di vita, dei
valori e delle concezioni dell�esistenza. La figura del malato � esaminata in
rapporto a queste differenti configurazioni del �male� che sono l�epidemia dei
tempi passati, la tubercolosi del XIX secolo e il cancro di oggi.
5
Una attenzione particolare si dedica al significato etimologico della parola
�cura� che, in definitiva, implica un rapporto in cui la sofferenza � oggetto
di partecipazione, solidariet�, comprensione e aiuto. In questo senso, si �
valutato se, pur esistendo questo termine nel nostro vocabolario, sia mai esistito
nella nostra cultura un periodo in cui la parola �cura� corrispondesse al
significato che veicola. I processi attraverso i quali la cura diventa terapia hanno
offerto la possibilit� di volgere lo sguardo all�organizzazione medica, per capire
che genere di cura concepisce, ma soprattutto che tipo di guarigione vuole
ottenere. Particolare risalto � riconosciuto alle condizioni sociali nelle quali
oggi si affrontano malattie inguaribili, quali il cancro e l�Aids, che pi� di altre
esaltano i processi di trasformazione e di adattamento psicologico alla morte
che si profila all�orizzonte. La morte � quindi individuata non soltanto come
problema privato del morente ma dell�intera famiglia, su cui graver� la
responsabilit� delle cure, delle decisioni e delle scelte dalle quali il paziente �
ancora, ingiustamente escluso. Singolare importanza � data alla mancanza di
protezione e di solidariet� che devono affrontare le famiglie urbane, a differenza
di quelle tradizionali. Attualmente, infatti, agli elementi esteriori del lutto, quale
mezzo per comunicare agli altri che si vive un momento di sofferenza e quindi
si ha bisogno della sospensione temporanea di alcune regole sociali, viene
conferita un�attenzione superficiale.
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Oggi chi accompagna il morente � solo. Inoltre, la medicalizzazione della vita, e
di conseguenza della morte, ha confuso il morire con la malattia e ha delegato
ogni tipo di intervento all�organizzazione sanitaria, la cui massima
espressione � l�ospedale. Esaminando la paura e l�ansia come fenomeni tipici
della malattia terminale, una posizione chiave � ritenuta quella del ricovero
ospedaliero, dove, a causa delle leggi dell�ordinamento generale, le
ripercussioni psicologiche della malattia divengono molto pi� evidenti. Nel
secondo capitolo � stato privilegiato, pi� che altro, l�interesse verso i parenti del
malato incurabile, visto che nel sistema sanitario occidentale sono loro ad
assumersi gran parte dei compiti che dovrebbero, invece, essere sostenuti in
prima istanza dai medici. Data l�incapacit� ad accettare la sentenza di morte che
molto spesso le malattie inguaribili veicolano, i familiari che si trovano da soli
ad affrontare questa circostanza, spesso sviluppano un penoso senso di colpa.
Pertanto, analizzando questa situazione, si pu� concludere che l�insieme delle
strutture assistenziali non � quasi mai in grado di affrontare il problema di chi
muore. Dal punto di vista culturale, una societ� prevalentemente industriale e
produttiva non riesce, infatti, a dare senso alla morte, che sembra rappresentare
una sfida all�efficientismo. La famiglia, quindi, sente gravare su di s� il peso
delle decisioni, da quelle puramente assistenziali a quelle che indicano la
diagnosi da comunicare al malato.
7
A questo proposito, � giusto dire che quasi mai i congiunti del paziente hanno
la possibilit� di parlare della loro sofferenza al personale curante, riuscendo cos�
ad abbattere quella cortina di silenzio che costituisce l�intercapedine tra la loro
disperazione e la presa di distanza di chi opera ed � costretto a interagire
continuamente con la morte. Nel terzo capitolo, invece, il tema privilegiato �
quello della capacit� dell�istituzione ospedaliera di controllare la
disperazione dei malati, producendo con il linguaggio neutro e specifico della
routine burocratica, una totale esperienza di disintegrazione del corpo. Si
sottolinea, inoltre, l�aspetto, forse pi� drammatico dell�ospedale, che non
si risolve tanto nella visione di un corpo sofferente ma nella riduzione
dell�esperienza e della persona ad un racconto medicalizzato e indistinto. In tal
senso, esami e terapie pi� che curare alleviano il senso di colpa del medico,
senza valutare che la domanda di cura rivolta dal malato non � mai solo una
richiesta di prestazione tecnica, bens� la ricerca di un senso che autorizzi il
sofferente a vivere in condizioni di precariet�. La domanda di cura, pertanto, ha
confini la cui ampiezza corrisponde a ci� che il malato avverte essergli venuto
meno e la relazione con il medico, quindi, � sempre e comunque desiderio di
rassicurazione. Nel rapporto medico-paziente si coagulano, dunque, sia elementi
di una complessa reazione esistenziale e culturale sia di una ricerca di
significato che spesso uno sguardo strettamente biomedico impoverisce e
trascura. Sempre nell�ambito di questo capitolo si analizza il problema
8
dell�accanimento terapeutico, invocato dalla famiglia e volentieri praticato
dall��quipe medica. L�attivismo consente ai familiari e al malato, quando � al
corrente della situazione, una momentanea diversione dalla reale fonte di
angoscia, ma ad un prezzo transitoriamente sopportabile: quello di generare
falsi aggiustamenti e mantenere in piedi la commedia degli inganni. Si rileva
che alla base di questa inutile difesa sta la presunzione della societ� occidentale,
e quindi dell�istituzione medica, di ottenere la signoria sulla malattia mortale e
l�illusione di sconfiggere la mortalit�. In questo modo la scienza medica si
assume il compito di evitare la morte, considerando ogni decesso come
prematuro, quasi un fallimento del medico stesso. In questo frangente la
questione dell�eutanasia �attiva� - quella del colpo di grazia - o �passiva� -
quella che si accontenta di sospendere le terapie - ha assunto le dimensioni di
uno dei grandi problemi morali dell�epoca. In conclusione, il nostro modello
culturale mantiene e coltiva un sogno di onnipotenza: quello di nascondere e
negare la morte. La pratica manipolatoria su ogni realt� naturale
contraddistingue l�occidente e alimenta questa onnipotenza, la quale per� �
costantemente minacciata dalla malattia, dalla vecchiaia, dai disastri naturali e
bellici. La tranquillit� e l�ottimismo che ci conferisce il risultato di questi rimedi
parziali riguarda, per�, quelle morti che non ci toccano da vicino e non quella di
una persona a noi cara, unico dramma al mondo capace di sconvolgere la nostra
esistenza. Questo, senza dubbio, comporta l�imbarazzo di fronte alla morte
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altrui, implica la mancanza di solidariet� e di aiuto concreto verso chi si trova a
vivere una situazione di dolore estremo, quale pu� essere la malattia terminale
di un familiare. � stato il controllo esasperato della morte, quindi, che insieme
al dominio dei sentimenti, alla paura di commuoversi, allo sforzo stoico di
trattenere le lacrime, ha comportato spesso l�impersonale professionalit� degli
operatori sanitari che assistono il morente e rischiano di varcare la soglia
dell�indifferenza e dell�insensibilit�, soffocando ogni sentimento di umana
solidariet�
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PRIMO CAPITOLO
SALUTE-MALATTIA: DUE FENOMENI CULTURALI DI SEGNO OPPOSTO
1.1 Il concetto di malattia e la sua dimensione sociale
Non � possibile parlare di malati senza parlare di malattia o, meglio, di malattie.
L�ordine delle rappresentazioni e dei sentimenti collettivi non si pu� mai
separare dalle malattie che, in ciascuna epoca, hanno modellato la coscienza e
l�identit� dei malati. Ogni era ha le sue malattie. Nei diversi periodi, un
particolare morbo ha incarnato agli occhi di tutti il male assoluto, sia per la
frequenza che per il pericolo che rappresentava, ma anche perch� materializzava
le condizioni di vita, le concezioni dell�esistenza, i valori del momento.
Claudine Herzlich e Janine Pierret
1
, ripercorrono le grandi linee di questa
evoluzione, le ripercussioni sulla coscienza collettiva, l�esperienza dei malati,
facendo riferimento al periodo che si pu� definire l�ancien r�gime del male,
quello in cui la malattia si manifesta inizialmente nella sua pi� funesta realt�:
l�epidemia, fenomeno collettivo e sociale che incarna il male. Nell�epidemia
non si � malati individuali, non si muore da soli, ma in massa, dato che insieme
all�individuo possono essere colpiti la sua famiglia, il suo villaggio o zone
ancora pi� ampie.
1
Claudine Herzlich, Janine Pierret, Malati di ieri malati di oggi. Dalla morte collettiva al dovere della
guarigione, Lucarini Editore, Roma, 1986, p. 17
11
A differenza di oggi, in cui una malattia cronica � una forma di vita, l�epidemia
pu� essere concepita solo come forma di morte, immediata come la peste o lenta
e ritmata da rituali come la lebbra. A fronte di questa minaccia, l�esclusione �
l�unica arma di difesa. La risposta della societ� passer� dunque attraverso la
reclusione. D�altronde, proprio il dettaglio di queste pratiche � giunto fino a noi,
assai pi� del vissuto individuale: i malati, infatti, non hanno quasi mai parlato,
perch� � attraverso queste pratiche che la vita � riuscita ad avere la meglio sulla
morte e a sconfiggere l�epidemia. Dopo i tempi dell�epidemia, nel XIX secolo la
malattia assume un volto nuovo: la tubercolosi, inizialmente chiamata tisi. In
questa nuova configurazione, si delinea una figura che fino ad allora non era
stata percepita con precisione: il malato. Nel XIX secolo in generale, e con la
tubercolosi in particolare, il paziente si cristallizza nella sua forma moderna.
Egli appare in quanto individuo nella sua esperienza concreta, ma anche e
indissociabilmente a livello collettivo: il malato � definito per il posto che
occupa dal punto di vista sociale. A tal proposito Susan Sontag afferma che �Fu
con la tbc che venne chiaramente formulata l�idea della malattia individuale,
insieme con quella che una persona acquista consapevolezza quando deve
affrontare la propria morte�
2
e da qui descrive non la realt� della vita nel regno
della malattia, bens� le fantasie punitive costruite intorno a questa condizione.
2
Susan Sontag, Malattia come metafora. Aids e cancro, Einaudi, Torino, 1992, p. 30
12
Oggetto della sua indagine � l�immaginario che la societ� da sempre costruisce
intorno alla malattia e �i modi in cui la malattia viene usata come figura o come
metafora�
3
. La tbc � spesso immaginata come malattia derivante da privazioni:
stanze non riscaldate, cattive condizioni igieniche, alimentazione inadeguata. Si
pensava infatti, che il tubercolotico traesse giovamento da un cambiamento
d�aria, capace di asciugare l�interno del corpo, deteriorato e infradiciato dalla
malattia. L�insieme di metafore tratte dalla tbc, si rivela persino adatto a
descrivere l�amore. �Il tubercolotico � una persona consumata dall�ardore,
quello stesso ardore che porta alla dissoluzione del corpo (...) all�immagine di
un amore malato, di una passione che consuma�
4
: con queste parole Susan
Sontag ci spiega perch� un tempo si riteneva che la tbc derivasse da un eccesso
di passione e colpisse gli spericolati e i sensuali, come del resto oggi molti
credono che il cancro sia una malattia della passione insufficiente e colpisca le
persone sessualmente represse, prive di spontaneit� e della capacit� di esprimere
la collera. Susan Sontag
5
ha potuto esaminare a questo proposito, una massa
crescente di ricerche a sostegno della teoria sulle cause emozionali del cancro,
che annuncia a un pubblico generico il legame scientifico tra questa malattia e
le sofferenze sentimentali. Molti malati di cancro affermano, infatti, di essere
depressi o insoddisfatti della loro vita e di aver sofferto per la perdita di una
persona cara. Queste storie cliniche vengono riferite in un linguaggio carico di
3
Susan Sontag, op. cit., p. 5
4
Ibidem, p. 21
5
Ibidem, pp. 50-51
13
disperazione, di malcontento, di preoccupazione per l�io isolato o
insoddisfatto delle sue relazioni e portano il marchio inconfondibile
della nostra societ� dei consumi. Al giorno d�oggi, dunque, le malattie croniche
e degenerative di cui soffrono le societ� industriali hanno ben poco in comune
con la tubercolosi e le epidemie di ieri. �La malattia� per noi ha il volto
dell�influenza, o di una persona che vive con uno stimolatore cardiaco o ancora
quello di un�altra colpita da un�affezione maligna. In tutti questi casi, realt� e
immagine della malattia hanno cessato di essere collettive finendo con
l�individualizzarsi. �Nella cultura occidentale, la condizione dell�uomo consiste
essenzialmente nell�essere una presenza attiva e vigile nella sua verticalit�: il
corpo eretto coincide con lo spirito che tende ad un ideale che lo trascende. Il
corpo in quanto inerzia, orizzontalit�, passivit� e dipendenza � quindi
culturalmente vissuto come negativit� pura, non come uno degli elementi
costitutivi della realt� umana. L�inerzia (il giacere, l�essere disteso, che va dal
riposo, alla malattia, fino alla morte) � dunque il negativo della vita. (...) Il
positivo, ci� che rende la vita una somma da cui viene sottratto qualcosa, sono
l�attivit�, la salute, il lavoro, la partecipazione, l�essere vigile e presente, dove la
malattia e la passivit� ad essa conseguente giocano il ruolo di una sospensione
dalla norma che � implicitamente sospensione dalla vita�
6
.
6
Franca Ongaro Basaglia, Salute/malattia. Le parole della medicina, Einaudi, Torino, 1982, p. 3