6
INTRODUZIONE
Dal welfare state così come inizialmente concepito, in cui lo Stato costituiva il
centro entro cui si sviluppava la politica sociale, al raggiungimento di un modello di
welfare locale entro il quale i concetti di “prossimità territoriale” e “sussidiarietà”
costituiscono le basi di un sistema che intende il cittadino come parte attiva del processo
di costituzione di un nuovo modello di welfare.
Questo il concetto posto in analisi, il quale attraverso una disamina concettuale,
storica e normativa, permetta di comprendere come si è giunti ad intendere il welfare in
chiave locale, attraverso un cambiamento dei poteri istituzionali ed una nuova
concezione di cittadinanza.
Dunque, che cos’è il welfare state, o meglio, che cosa è stato? La dottrina attuale
suggerisce che non è possibile definire tale concetto attraverso una definizione univoca,
in quanto oggetto di svariate interpretazioni nel corso del tempo e della storia.
Vari autori negli anni hanno concepito delle personali definizioni circa il termine in
analisi; a riguardo, lo studioso Alber introduceva nel 1988 il concetto di welfare state
come di “un insieme di risposte di policy al processo di modernizzazione consistenti in
interventi politici nel funzionamento dell’economia e nella distribuzione societaria delle
chances di vita; tali interventi mirano a promuovere la sicurezza e l’uguaglianza dei
cittadini al fine di accrescere l’integrazione sociale di società fortemente mobilitate
1
”.
Questa definizione rimanda innanzitutto al concetto di “modernizzazione”, intesa
soprattutto in seno ai processi di industrializzazione e capitalizzazione, quale causa
principale dell’innesto relativo ad interventi di natura politica conseguente dunque a
cambiamenti di natura economica, sociale e politico-istituzionale, che interagendo tra
loro hanno definito il contesto entro cui si sono sviluppate le politiche sociali a partire
dal XIX secolo.
1
M. Ferrera, Modelli di solidarietà, Bologna, Il mulino, 1993, Cfr., J. Alber, Continuities and Change in
the Idea of Welfare State, in Politics and Society, XVI, 1988, pag. 456.
7
La definizione posta da Alber è stata semplificata ed integrata da Ferrera, il quale a
sua volta definisce il welfare state come “un insieme di interventi pubblici connessi al
processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza,
assicurazione e sicurezza sociale nel caso di eventi prestabiliti nonché specifici doveri
di contribuzione finanziaria
2
”.
Ferrera, proponendo tale definizione, non considera pertanto il processo di
modernizzazione quale causa primaria, ma lo inquadra “come contesto ‘necessario’ per
la creazione dei sistemi di welfare
3
”, introducendo altresì il concetto di contribuzione
finanziaria quale motore tramite cui vengono poste in essere tutt’oggi, in Italia, le
politiche di protezione sociale.
Il welfare state conobbe la sua massima espansione durante il cosiddetto “trentennio
glorioso” (1945-1975) e a causa in primis di un ribaltamento dei processi che
connotarono la fase espansiva iniziale (si fa riferimento in tal caso alla “de-
industrializzazione” e al “rallentamento economico”, nonché al mutamento delle
strutture demografiche) si è trovato in uno stadio di grande crisi.
Fu così che a quel punto ci si trovò dinnanzi ad una situazione che obbligò la
revisione di tutte le logiche iniziali e a maggior ragione a causa della spinta inferta dalla
globalizzazione, i Paesi europei e l’Italia in particolare dovettero discostarsi dall’idea
iniziale di Stato-nazione, giungendo così ad una riprogrammazione del welfare in chiave
territoriale.
La prima parte dell’elaborato si concentra su tali assunti, procedendo ad analizzare i
primi avvenimenti storici che hanno connotato l’idea iniziale del welfare state, nonché i
Paesi europei rinvenuti quali i precursori dello stato del benessere; dapprima inteso in
contrapposizione al warfare state (lo stato di guerra) fino a giungere, in seguito ai
processi di modernizzazione, alle nuove caratteristiche che veniva ad assumere il
fenomeno della “povertà”, mutamento che costituì il retroterra storico del moderno
concetto di welfare state, giunto ad una vera e propria instaurazione in seguito
all’introduzione dell’assicurazione pubblica, prima intesa in senso “occupazionale” e in
seguito in senso “sociale”, caratterizzando il senso di “uguaglianza dei cittadini”
2
M. Ferrera, Modelli di solidarietà, Bologna, Il mulino, 1993, pag. 49.
3
Rovelli R., Welfare State, 10 maggio 2010, in www.webethics.net. Tratto da S. Leone, S. Privitera,
Nuovo Dizionario di Bioetica, Roma-Acireale, Città Nuova-ISB, 2004.
8
introdotto inizialmente con la definizione di Alber.
L ’analisi procede con una disamina circa il “trentennio glorioso” che conobbe il
welfare state in Europa dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni Settanta,
periodo in cui, per le cause sopra affermate, il modello di stato sociale entrò in grande
crisi; giungendo poi a concentrarsi sul modello di welfare italiano e sulle riforme che
furono protagoniste negli anni Novanta, le quali costituirono il tentativo di uscita dalla
crisi e di discostamento dalla logica assistenziale che lo ha sempre caratterizzato; tutto
ciò venne esplicitato dall’entrata in gioco di attori non istituzionali nel panoramica del
welfare e concretamente dalla promulgazione della legge quadro 8 novembre 2000, n.
328 recante “Sistema integrato di interventi e servizi sociali”.
La disamina di tale normativa costituisce l’analisi relativa al secondo capitolo
dell’elaborato, in cui vengono esaltate le prerogative concettuali e i caratteri innovativi
che tale legge introduce. La legge quadro 328/2000 viene infatti definita come la prima
legge organica sui servizi sociali dello Stato italiano, entro la quale il principio di
“sussidiarietà orizzontale” costituisce l’asse portante.
Principio, quest’ultimo, che, come verrà descritto all’interno dell’elaborato,
concentra l’attenzione in particolare verso il ruolo che il Terzo settore sarà chiamato ad
esercitare in questa nuova concezione di sistema integrato, che tramite l’articolazione
nelle sue principali forme giuridiche, tra le quali le più importanti il volontariato, le
cooperative sociali e le associazioni di promozione sociale, è chiamato a riprogettare il
sistema di protezione sociale secondo una visione progettuale e non più marginale
rispetto all’Ente pubblico.
L ’enfasi sarà rivolta altresì verso i nuovi strumenti della programmazione sociale
introdotti dalla normativa 328/2000, procedendo tramite una disamina iniziale del Piano
Nazionale introdotto dalla normativa, fino a giungere al Piano di zona; strumento,
quest’ultimo, rappresentante uno degli elementi maggiormente esplicativi introdotti
dalla normativa in quanto tramite la sua applicazione trova luogo l’auspicato
decentramento delle funzioni assistenziali previsto a livello locale.
La disamina procede verso l’analisi di un ulteriore punto chiave introdotto con la
legge quadro di riforma dei servizi sociali, riguardante il riordino delle ex Istituzioni
9
Pubbliche di Assistenza e Beneficienza, procedendo infine verso una considerazione
sugli effetti prodotti dalla riforma, nel 2001, del Titolo V della Costituzione e dal ruolo
giocato dal “Libro bianco sul welfare”, che con la sua entrata in scena si propone il
tentativo di prefigurare “un assetto delle politiche sociali decisamente alternativo a
quello sancito nelle leggi in vigore
4
”: sarà così?
Nel terzo capitolo si entra in quella che è la fase di implementazione vera e propria
della legge quadro 328/2000, normativa che vede tra i suoi recettori principali la regione
Emilia-Romagna, la quale tramite l’emanazione della legge regionale 12 marzo 2003, n.
2 recante“Norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione
del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, costituisce una tra le prime regioni
italiane a comprendere l’impulso di riforma delle politiche sociali conseguente alla
normativa quadro.
L ’attenzione verrà posta verso l’analisi dei capisaldi relativi al “Piano Sociale
Sanitario Regionale 2008-2010”, strumento tramite cui si intende pervenire ad un reale
processo di concertazione e partecipazione di tutti gli attori in gioco, il quale introduce
altresì la figura dello “Sportello sociale”, costituente una delle più importanti novità
introdotte dalla normativa.
Tramite un exursus relativo ai soggetti coinvolti nel nuovo sistema integrato di
servizi sociali, si procede a descrivere quali sono le principali politiche che la Regione
pone in essere relativamente alle più importanti tipologie di ambiti sociali, ovvero
infanzia e adolescenza, anziani e disabili, immigrazione; il tutto in un’ottica di
orientamento verso la promozione sociale.
In chiusura di tale disamina verte una riflessione finale circa l’importanza
dell’economia sociale intesa come l’investimento del futuro, pensiero che si concluderà
nell’ultimo capitolo, quando si procederà ad analizzare il concetto di rendicontazione
sociale all’interno degli Enti locali quale principio su cui gettare le basi in vista di un
sempre maggior coinvolgimento dei cittadini alle scelte dell’Amministrazione.
Procedendo per gradi, si giunge nel quarto capitolo ad analizzare quello che la legge
quadro e la successiva riforma del Titolo V della Costituzione considerano come il
4
A. Bova, D. Rosati, Il terzo settore e l’impresa sociale: sostegni o sfide per il welfare state?, Roma,
Apes, 2008, pag. 186.
10
braccio operativo dell’intero sistema integrato, ovvero il Comune, l’ente più prossimo al
cittadino.
L ’analisi è ricaduta su Bologna, scelta maturata in quanto trattasi di una città che ha
sempre costituito un’eccellenza riguardo alle politiche di welfare, nonché per la sua
particolare struttura.
A tal proposito si procede in primis ad analizzare la concezione alla base della
politica del decentramento che caratterizza dagli anni Sessanta l’organigramma politico-
amministrativo della città, la quale ha portato dal 1985 alla sua suddivisione in nove
Quartieri cittadini, con l’obiettivo di giungere alla concretizzazione del concetto di
prossimità territoriale. Principio, quest’ultimo, continuamente confermato, fino ad
arrivare nel 2007, a tal proposito, all’approvazione del decentramento ai Quartieri in
materia di servizi alla persona.
L ’analisi approfondita circa la gestione delle politiche di welfare nel territorio
bolognese permette di far emergere con chiarezza la struttura organizzativa dei servizi
sociali della città, la quale tramite l’istituzione dei “Servizi Sociali Territoriali” e il
centro di erogazione dei servizi rinvenuto nelle tre Aziende Pubbliche di Servizi di
Persona presenti a Bologna, le quali in un orizzonte di riforma dei servizi sociali volta
alla semplificazione organizzativa e all’ottimizzazione delle risorse, vedrà nel corso dei
prossimi mesi la concretizzazione della loro fusione in un unico centro di erogazione dei
servizi, o almeno queste sono le volontà, si propone la costruzione di una rete integrata
di servizi in cui il cittadino svolge una funzione di centrale importanza.
Grazie ai colloqui intrattenuti con l’Assessore al Welfare del comune di Bologna,
Amelia Frascaroli, con la Direttrice dell’Asp Irides, Marina Cesari, nonché con il
Presidente, Daniele Ara, e il Direttore, Andrea Cuzzani, del Quartiere Navile della città
di Bologna, è stato possibile effettuare una disamina articolata circa gli obiettivi che la
città si propone negli anni a venire al fine di porre in essere un nuovo modello di
welfare locale.
La presente dissertazione si conclude richiamando la riflessione effettuata in chiusura
del terzo capitolo relativa al concetto di economia sociale espressa a livello regionale in
un recente convegno nato nell’ambito del “Tavolo Economia Sociale”, in un’ottica qui
riferita all’importanza della rendicontazione sociale all’interno degli Enti locali, posta in
11
essere innanzitutto tramite lo strumento del bilancio sociale; procedendo in concreto a
verificare come è stato recepito tale concetto da parte del comune di Bologna e dei suoi
Quartieri, analizzando nello specifico una realtà particolare come quella del Quartiere
Navile.
Le conclusioni finali contengono una personale riflessione circa il futuro del welfare
locale, con particolare riferimento alla città Bologna, in cui si auspica la
concretizzazione degli obiettivi volti al miglioramento dell’intero sistema, in un
orizzonte sociale che si preannuncia, certamente, non privo di insidie.
12
PARTE I. LA RIORGANIZZAZIONE TERRITORIALE DELLE
POLITICHE SOCIALI: LA SITUAZIONE IN ITALIA
CAPITOLO 1. DAL WELFARE STATE AL WELFARE DI COMUNITA’
1.1. Il welfare state in Europa: nascita ed evoluzione della “questione sociale”
L'evoluzione temporale di epoche, luoghi, ideologie e circostanze politiche,
scandisce ciò che rappresenta quel fenomeno elaborato e complesso che sottende il
termine welfare state, ovvero lo “stato del benessere”.
I termini welfare (benessere) e state (stato) consentono già di comprendere che si ha
a che fare con due concetti complessi per natura, il cui uso ambiguo caratterizza non
solo il vocabolario politico, bensì anche quello filosofico, economico, sociologico e
giuridico, in un ventaglio di significati che mutano nel tempo.
Nella Germania del 1879, il termine Wohlfahrstsstaat (welfare in lingua tedesca) fu
utilizzato per la prima volta da uno studioso socialista di scienza delle finanze, tale
Adolf Wagner, che nelle sue opere teorizzò il ruolo interventista dello Stato nella
garanzia del benessere verso i cittadini, ipotizzando un miglioramento in senso
qualitativo dello stesso e la nascita di nuove istituzioni, i cui costi si sarebbero potuti
ammortizzare con delle imposte progressive sul reddito; questo meccanismo è ancora in
uso nella gran parte dei paesi industrialmente avanzati.
Diametralmente opposto il pensiero del cancelliere tedesco V on Papen, che nel 1932
criticò aspramente il Wohlfahrstsstaat della Repubblica di Weimar, che nel frattempo
aveva ancorato i diritti sociali nella sua Costituzione del 1919, dichiarando con toni
polemici che in tal modo lo Stato veniva sovraccaricato con compiti superiori alle sue
possibilità.
Dobbiamo però a William Temple, arcivescovo di York (GB), la nascita del termine
welfare state, che egli impiegò per analizzare il contrasto che perveniva tra il welfare
state britannico, ovvero, lo “stato del benessere” e il warfare state, lo “stato di guerra”
dei nazisti
5
.
5
Y. Kazepov, D. Carbone, Che cos'è il welfare state, Roma, Carocci, 2007, pag. 11.
13
Un ventaglio di significati attribuiti ad un solo termine, il che denota
l'imprescindibile collegamento dello “stato del benessere” alle diverse connotazioni
dello Stato e all'importanza di esso, nonché del suo ruolo, concepito storicamente nei
diversi paesi.
Ora, quali sono le caratteristiche che possiamo rinvenire negli attuali sistemi di
welfare e quali sono le sue possibili definizioni?
L'attuale dottrina concernente il welfare, è stata oggetto di svariate interpretazioni e
definizioni, per cui si può asserire che non esiste una definizione univoca del termine.
Senza dubbio, però, vi sono degli elementi in comune rinvenibili nelle diverse teorie
proposte, ed essi fanno riferimento al processo di “modernizzazione”.
Questo termine riassume una serie di cambiamenti di natura economica, sociale e
politico-istituzionale che, interagendo tra loro, definiscono il contesto all'interno del
quale si sono sviluppate le politiche sociali che iniziarono ad emergere nelle società
europee a partire dal XIX secolo.
I cambiamenti che hanno avuto luogo nella sfera dei modelli di organizzazione
sociale hanno contribuito all'affermazione di una nuova struttura sociale in cui la
prevalenza dell'ambito urbano su quello rurale, il passaggio dalla famiglia estesa alla
famiglia “nucleare” e un'elevata opera di alfabetizzazione tramite la scuola di massa,
hanno portato al miglioramento del tenore di vita, ma altrettanto ad un elevato grado di
rischio derivante dalla maggiore esposizione a determinate eventualità, come ad
esempio le malattie, che quando si verificano, producono degli effetti negativi e
generano di conseguenza dei bisogni
6
.
Sotto il profilo politico-istituzionale, la politica sociale affronta le sfide della
modernizzazione facendo emergere nuove forme di statualità, le quali si affermarono in
conseguenza del progressivo superamento della dispersione dei poteri in seno alla
società feudale. Per ciò che concerne il profilo economico, invece, le trasformazioni
delle strutture produttive e occupazionali sono da rinvenire nelle nuove caratteristiche
organiche assunte dal fenomeno della “povertà” nei secoli che favorirono la transizione
dal feudalesimo al capitalismo
7
.
6
Y. Kazepov, D. Carbone, op. cit., pag. 30., v. anche M. Ferrera, Le politiche sociali. L'Italia in
prospettiva comparata, Bologna, Il mulino, 2006, pagg. 13-16.
7
F. Girotti, Welfare State. Storia, modelli e critica, Roma, Carocci, 2000, pag. 93.
14
Ed è proprio in seno al fenomeno della “povertà” e dalle prime forme di assistenza ai
poveri (poor relief), che prende forma il retroterra storico della moderna concezione di
welfare state.
La regolazione tramite gli strumenti legislativi della povertà, causata dalla
proletarizzazione dei contadini liberi, ha costituito nell'arco del tempo “uno degli assi
portanti della politica della Corona inglese nel processo che va dalla dissoluzione
dell'economia tradizionale al precoce e vigoroso sviluppo di un capitalismo agrario e
industriale
8
”.
La Poor Law (legge sui poveri), promulgata dal Parlamento inglese nel 1601,
costituisce l'emblema del cambiamento strutturale dell'economia dell'epoca, in
concomitanza con lo scatenarsi di guerre ed epidemie che provocarono una grande crisi
demografica che pervase per tutto il XVII secolo.
Fu così che per la prima volta, con un atto legislativo, venne sancito il “diritto a
vivere” per i cittadini dell'Inghilterra. La legge prevedeva un forte piano di
istituzionalizzazione dei poveri anche attraverso il divieto di mendicare e
l'intensificazione dell'azione repressiva attuata con la creazione di specifici corpi di
polizia. Alle parrocchie venne affidato il compito di occuparsi dei diseredati, e ad esse
venivano trasferite le risorse scaturite dalla tasse sui poveri che tutti i proprietari terrieri
(ricchi e poveri) dovevano pagare a seconda della rendita della terra o delle case in
possesso. La Poor Law può essere definita come una “politica sociale negativa” inserita
in un “insieme organico di leggi a carattere assistenziale-repressivo
9
”, in quanto il suo
intento primario era costituito innanzitutto dal controllo dei diseredati e dalla difesa
della sicurezza pubblica.
Sempre in Inghilterra, con l'introduzione della Speenhamland Law del 1795, venne
introdotta la questione “occupazione”, ovvero, veniva fatta pervenire a qualsiasi
individuo fosse titolare di un lavoro che non prevedeva un salario sufficiente a
raggiungere una soglia standard fissata in base al prezzo del pane, un'integrazione che
poteva garantire a ciascuno un reddito minimo assicurato.
8
F. Girotti, op. cit., pag. 98.
9
M. Ferrera, Le politiche sociali. L'Italia in prospettiva comparata, Bologna, Il mulino, 2006, pag. 22.
15
Questa normativa venne introdotta per fronteggiare la questione “povertà”,
proponendo l'abolizione del “diritto di vivere” costituito dalla Poor Law.
Essa però, si rivelò di fatto un ulteriore abominio per la popolazione, in quanto
costituiva un disincentivo per i datori di lavoro all'adeguamento dei salari alle esigenze
della classe lavoratrice
10
.
A cavallo tra il XVII e i XIX secolo, l'abolizione della suddetta legge e della
normativa sui poveri del 1601, diede atto ad una nuova presa di coscienza, la quale
fondava le sue radici nel cambiamento dei fattori fondanti l'insicurezza, ora non più
legati ad elementi politici e naturali ma alla trasformazione dell'economia.
Fu infatti nell'ultimo ventennio del XIX secolo e negli anni immediatamente
successivi alla Grande guerra che si ebbe la nascita vera e propria del moderno sistema
di welfare state. L'origine dello stato sociale industriale, nelle società europee, risale alla
sperimentazione delle prime forme di assicurazione sociale, anche se di natura
privatistica e volontaria. Molti tra i più importanti studiosi di scienze politiche, come
Peter Flora (1981), Hugh Heclo (1983), ed A. J. Heidenheimer (1983) rinvengono nello
sviluppo delle democrazia di massa e dell'economia capitalistica le principali variabili
che dettero origine alle trasformazioni delle politiche sociali.
L'instaurazione vera e propria del moderno welfare state, fu però rappresentato
dall'introduzione dell'assicurazione obbligatoria, la quale prevedeva l'offerta di
prestazioni standardizzate sulla base di alcuni precisi diritti individuali e secondo
modalità istituzionali specializzate. Essa inaugurò, per la prima volta, una forma di
collaborazione tra le due principali forze antagoniste dello sviluppo capitalistico:
lavoratori e datori di lavoro. Il livello dei contributi e delle prestazioni restava legato al
reddito, ma l'obbligo della contribuzione veniva espanso anche ai datori di lavoro, in
maniera equivalente o (inizialmente) inferiore al corrispettivo dovuto dai lavoratori.
La fase di sperimentazione delle assicurazioni pubbliche si concentrò nel trentennio
compreso tra la legislazione “bismarkiana” e gli inizi della Prima guerra mondiale, le
cui realizzazioni maggiormente significative presero luogo, in successione temporale,
intorno a quattro “rischi” primari: gli infortuni sul lavoro, la malattia, la vecchiaia e la
disoccupazione
11
.
10
Y. Kazepov, D. Carbone, op. cit., pagg. 36-38.
11
F. Girotti, op. cit., pag. 156.
16
Il primo paese ad introdurre la forma assicurativa obbligatoria fu la Germania, ad
opera del cancelliere Bismarck, secondo un modello basato su una pluralità di schemi
professionali, finanziato prevalentemente tramite contributi sociali
12
.
Tale sistema si evolse nel 1883 attraverso le assicurazioni contro le malattie;
nell'anno seguente contro gli infortuni e nel 1889 contro vecchiaia e invalidità. L'Austria
fu il primo paese che seguì l'esempio tedesco per ciò che riguarda gli infortuni (1887) e
le malattie (1888), seguita nel 1894 dalla Norvegia riguardo agli infortuni, dalla
Finlandia nel 1895 (infortuni) e infine dall'Italia nel 1898 (infortuni)
13
.
Come si evince dalla classificazione appena descritta, il primo schema assicurativo
obbligatorio fu quello contro gli infortuni; il quale fu dovuto innanzitutto dalla crescita
esponenziale di infortuni sul lavoro in concomitanza del progressivo avanzare del
processo di industrializzazione che andava creando un grave problema sociale.
Questo schema fu seguito temporalmente dall'assicurazione contro le malattie e la
vecchiaia o invalidità
14
. Un ritardo maggiore avvenuto nella sperimentazione di questa
tipologia di interventi, si spiega innanzitutto con la mancata agevolezza di
predisposizione di strutture amministrative e gestionali di maggior dimensioni, costo e
complessità. Tra le forze liberali in particolare, v'era altresì la consapevolezza che
l'introduzione di un di un salario posticipato, che andava calcolato sulla base di stime
attendibili di incidenza dei rischi, “fosse destinato ad innescare un processo di
progressiva demercificazione della forza lavoro, tale da compromettere i requisiti
essenziali dell'assetto capitalistico
15
”. Su questa scia, nell'anno 1898 l'Italia costituì una
Cassa Pubblica ad adesione volontaria per l'assicurazione di vecchiaia, ma
successivamente, nel 1919, passò all'assicurazione obbligatoria.
L'ultima assicurazione ad essere istituita, in ordine temporale, fu quella contro la
disoccupazione. Lo studioso Jens Alber (1986) considera la rottura dei tradizionali
12
M. Ferrera, op. cit., pag. 26. Si fa qui riferimento al cosiddetto “modello occupazionale” di welfare,
detto anche “modello bismarkiano” perché inaugurato, appunto, dalle riforme del cancelliere Bismark.
13
Ibidem pag. 153, cfr., M. Ferrera, op. cit., pagg. 19-23.
14
M. Ferrera, op. cit., pag.23. La sequenza malattia - vecchiaia – invalidità varia a seconda dei paesi che
aderirono al nuovo sistema assicurativo.
15
F. Girotti, op. cit., pag. 157.
17
schemi di previdenza liberale, basati su un approccio paternalistico e sull'assicurazione
obbligatoria da parte dei beneficiari, la principale causa che diede il via alla
sperimentazione dell'applicazione delle assicurazioni contro la disoccupazione.
Lo schema della disoccupazione fu maggiormente contrastato rispetto a quello
infortunistico e della malattia/vecchiaia, in quanto le forze imprenditoriali
manifestarono una forte ostilità nei confronti dell'assicurazione di tale tipologia di
rischio, considerata in forte contraddizione con i principi che regolavano un libero
mercato del lavoro
16
.
Ciò nonostante, la Gran Bretagna, nel 1911 inaugurò l’istituzione di un'assicurazione
obbligatoria contro la disoccupazione, seguita da: Italia (1919); Austria (1920); Irlanda
(1923); Germania (1927), Norvegia (1938); Belgio (1944); e Olanda (1949)
17
.
Il passaggio dalla nozione ristretta di “assicurazione dei lavoratori” a quella
maggiormente ampia di “assicurazione sociale”, rappresenta il tratto identificativo del
consolidamento del welfare state, che in generale, dopo la prima metà degli anni
Quaranta, vide come protagonista in prima linea la Gran Bretagna, attraverso la
progettazione e la realizzazione del cosiddetto “Piano Beveridge”: il Social Insurance
and Allied Services
18
.
Il Piano per la sicurezza sociale, redatto da William H. Beveridge nel dicembre del
1942, configurava il primo progetto di stato sociale compatibile con un'economia di
mercato. Esso viene definito dai più importanti biografi del welfare state, come “il
formale atto di nascita di uno stato sociale realmente universalistico, al termine di una
lunga e travagliata gestazione iniziata nei secoli bui della legge sui poveri
19
”.
Il carattere di “universalità” del Piano, si evince dalle proposte contenute in esso, le
quali prevedevano “un sistema unificato e universale di assicurazione sociale per le
varie fasce della popolazione: i lavoratori dipendenti, quelli autonomi, le casalinghe, le
persone che si trovavano al di sotto o al di sopra dell'età lavorativa, i disabili e altri
16
Ibidem.
17
C. Borzaga, L. Fazzi, Manuale di politica sociale, Milano, Franco Angeli, 2005, pag. 63.
18
Per un'analisi più approfondita v. Beveridge Report, Social Insurance and Allied Services, London,
HMSO, 1942, Cmd 6404.
19
F. Girotti, op. cit., pag. 229.
18
gruppi compresi nell'età lavorativa”
20
.
Il finanziamento del sistema prevedeva un sistema di contribuzione imposto ai
lavoratori e altresì ai datori di lavoro, a cui si aggiungevano dei proporzionati
stanziamenti statali. Alla base di ciò vi era l'idea che lo Stato, attraverso una tassazione
diretta e progressiva, svolgeva un'azione volta alla pianificazione economica e
all'intervento nel controllo del mercato del lavoro, garantendo il mantenimento di una
sussistenza di base ed elaborando un programma volto alla ricostruzione postbellica.
Fine ultimo di questa politica era di evitare un aggravamento della crisi economica e
il tentativo di sollevare il morale della popolazione
21
.
La concezione di “universalità dell'assistenza pubblica” e dei “servizi sociali come
diritto di tutti i cittadini” formarono, dunque, i due capisaldi dell'impostazione
“beveridgeana”, destinata ad essere considerata ancora oggi come “il massimo esempio
di programma di sviluppo sociale nazionalizzato mai redatto nei paesi avanzati
22
”, che
rappresentò il presupposto culturale e politico dello sviluppo degli stati sociali dal
secondo dopoguerra alla metà degli anni Settanta del XX secolo.
1.1.1. “Trentennio glorioso” e crisi del welfare state
Dopo la Seconda guerra mondiale, l'Europa conobbe la fase di maggior crescita ed
espansione del welfare state: “la “sperimentazione” lasciò gradualmente il posto a un
insieme più strutturato e più consensuale di politiche sociali” (Heclo 1983). Venne
progressivamente abbandonata l'impostazione “paternalistica” che da tempo costituiva
le pratiche assistenziali e, accanto alle assicurazioni sociali, le quali continuarono a
fungere da perno centrale, si consolidò la figura dello Stato in alcuni dei settori chiave
dell'economia e della vita sociale, tra cui il mercato del lavoro, la sanità e la scuola.
Il raggio di copertura dei vari schemi di assicurazione raggiunse qui i propri limiti
20
I. Masulli, Welfare State e patto sociale in Europa. Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia 1945-
1985, Bologna, CLUEB, 2003, pag. 34.
21
Ibidem.
22
C. Borzaga, L. Fazzi, op. cit., pag. 64.
19
naturali, ovvero il totale dei cittadini
23
.
Nel corso del Trentennio Glorioso (1945-1975), la spesa sociale crebbe a ritmi
elevati, si raffinarono sempre più le tecniche per il governo dei flussi redistributivi dal
centro e l'estrazione di imposte e contributi. L'estensione della copertura assicurativa
avvenne essenzialmente in due direzioni, a seconda di vari paesi: possiamo infatti
distinguere tra l'orientamento “verticale”, seguito innanzitutto dai paesi anglo-
scandinavi, e quello “orizzontale”, caratteristico dei paesi dell'Europa continentale.
Il primo orientamento riguarda i paesi che si ispirarono al cosiddetto “modello
universalistico”, definito anche “beveridgeano”, in quanto, come descritto
precedentemente, venne ispirato dai principi del “Piano Beveridge”.
Esso prevedeva una copertura universale delle varie fasce della popolazione e veniva
principalmente finanziato tramite il gettito fiscale.
L'orientamento “orizzontale” o “bismarkiano” si basava invece su una pluralità di
schemi professionali, con formule e regole di prestazione differenziate, finanziato
prevalentemente tramite contributi sociali
24
.
Per rendere l'idea circa l'incremento della spesa pubblica negli “anni d'oro” del
consolidamento del welfare state, basti pensare che tra il 1960 e il 1975, la percentuale
di spesa pubblica in sicurezza sociale sul prodotto interno lordo passò in Svezia dal
10,9% al 25%; nella Repubblica federale tedesca dal 15,4% al 23,7% e in Italia
dall'11,7% al 21,2%
25
.
La fase di espansione e consolidamento dello stato del benessere terminò quando fu
ben noto che le opposizioni di natura ideologica al welfare erano dissolte; era chiaro
ormai che il venir meno e l'abolizione di suddetti meccanismi di tutela della sicurezza
sociale e del reddito avrebbe portato alla ribalta un rischio non sostenibile per la società
moderna
26
.
Il ciclo economico prevede che la fase di prosperità, o di cosiddetto “boom”
dell'economia, sia seguita da una fase di recessione e di depressione, in cui la
23
Y. Kazepov, D. Carbone, op. cit., pag. 50, cfr. M. Ferrera, op. cit., pag. 26.
24
M. Ferrera, op. cit., pag. 26.
25
Y. Kazepov, D. Carbone, op. cit., pag.51. cfr. G.. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Roma-Bari,
Laterza, 1996, pag. 194.
26
Y. Kazepov, D. Carbone, op. cit., pag. 51.