fecondità e alla crisi del ruolo di cura tradizionalmente svolto dalle famiglie,
impone la cura agli anziani come una delle maggiori sfide per il nostro sistema di
welfare. In secondo luogo, l’innalzamento dell’età ha portato all’aumento dei
cosiddetti “grandi anziani”, che presentano un’alta incidenza di non autosufficienza
totale o parziale e hanno bisogno di cure molto complesse e differenziate. Servono
dunque sistemi di assistenza capaci di un’integrazione tra varie tipologie di servizi,
di interventi sempre più articolati e personalizzati, di una risposta “vicina”
all’assistito. Se, dunque, c’è un terreno sul quale le regioni potrebbero potenziare la
propria autonomia e la propria capacità di differenziazione rispetto alle altre, è
proprio quello dell’assistenza agli anziani.
Nel corso della mia ricerca ripercorrerò, innanzitutto, l’evoluzione delle
politiche assistenziali nel nostro Paese, sottolineando il progressivo decentramento
delle competenze. Verificherò poi se il potenziamento delle realtà subnazionali sia
stato colto dalle Regioni come opportunità di legittimazione interna e di
differenziazione esterna nell’ambito di un processo di region building. Lo farò
guardando sia al loro grado di attività normativo-legislativa nel settore sia alla loro
capacità di intervento e di implementazione delle politiche.
Il mio lavoro è strutturato in quattro capitoli. Nel primo fornisco un
inquadramento teorico del problema. Innanzitutto, analizzo i principali fenomeni di
cambiamento che hanno messo in discussione i modelli tradizionali di welfare: la
crescita dell’instabilità lavorativa, l’accesso femminile al mondo del lavoro, la
riduzione del numero di figli, l’instabilità coniugale, l’invecchiamento della
popolazione. Mostro poi le ripercussioni di tali cambiamenti sul nostro sistema di
welfare familista e delle “solidarietà parentali”, sottolinenandone anche il ritardo e
l’inadeguatezza delle risposte di policy. Nella seconda parte del capitolo, ripercorro
invece la costruzione degli assetti nazionali di welfare nel processo di state building
e la ridefinizione dei confini subnazionali nel processo di region building
competitivo, approfondendone le dinamiche e le cause principali.
Il secondo capitolo è dedicato all’evoluzione storica delle politiche di assistenza
sociale nel nostro Paese, per verificare se possa costituire un caso di region
building. Descrivo le fasi della regionalizzazione del settore, dalle prime due ondate
degli anni ’70, al riordino del settore con la legge quadro 328 del 2000, alla
5
definitiva devolution con la revisione del Titolo V della Costituzione del 2001.
Analizzo poi quali siano gli esiti della regionalizzazione nel campo degli interventi
socio-assistenziali, mettendo in luce se e quali regioni siano state attive e veloci nel
riordino del settore, precedendo la legge 328 del 2000 e se, invece, altre siano
ancora in ritardo. Inoltre, indago la loro capacità di intervento nel settore,
utilizzando l’indicatore della spesa sociale e verificando se ci siano situazioni di
forte differenziazione regionale o meno.
Nel terzo capitolo mi dedico più specificamente al settore dell’assistenza agli
anziani. Evidenzio, in primo luogo, come l’invecchiamento della popolazione e il
contemporaneo indebolimento della capacità di assistenza delle reti informali e
familiari rendano la long term care uno dei problemi più pressanti del nostro
sistema socio-assistenziale. Analizzo poi l’assetto istituzionale del settore e la
capacità di risposta nazionale, verificando se ci sia un adeguato livello di intervento
pubblico, distinguendo tra le tre diverse tipologie: servizi residenziali, assistenza
domiciliare e trasferimenti monetari. Mostro anche come ci sia un crescente ricorso
al mercato privato dei servizi e come questo, nel nostro sistema, si sia tradotto
soprattutto nella promozione del mercato irregolare e sottoretribuito. Una volta
verificata la situazione a livello nazionale, indago se le Regioni abbiano sviluppato
modelli di long term care differenziati e peculiari, facendo riferimento, in
particolare, a tre indicatori: la spesa per l’assistenza agli anziani, l’offerta di servizi
residenziali e l’offerta di servizi domiciliari.
Infine, nell’ultimo capitolo, approfondisco i modelli istituzionali di servizi agli
anziani sviluppati da due Regioni particolarmente attive e con servizi avanzati:
l’Emilia Romagna e il Trentino Alto-Adige, nelle sue due Province Autonome di
Trento e Bolzano.
6
CAP. I
IL WELFARE STATE E L’ASSISTENZA SOCIALE TRA NUOVI
BISOGNI DI CURA E NUOVI CONFINI
Nella prima parte di questo capitolo analizzo i cambiamenti demografici, sociali,
culturali e familiari che hanno interessato tutta l’Europa negli ultimi decenni e che
costringono i sistemi di welfare tradizionali ad affrontare nuove sfide e nuovi
bisogni sociali. In particolare, mi soffermo sulle dinamiche del nostro Paese e sul
ritardo e l’inadeguatezza delle risposte di policy del regime di welfare Sud-Europeo
rispetto alle nuove domande ed esigenze.
Nella seconda parte del capitolo, invece, mi occupo della crisi dei confini
nazionali del welfare e della nascita di nuovi spazi di cittadinanza sociale a livello
regionale. In particolare, ripercorro le fasi del processo di state building e tento di
individuare le cause principali dell’indebolimento dei confini nazionali del welfare
e dell’avvio di processi di region building competitivo, sottolineando il ruolo
centrale svolto in essi dallo sviluppo di modelli di welfare regionali.
1.1 Nuovi rischi e nuovi bisogni
1.1.1 La destandardizzazione dei corsi di vita
Negli ultimi decenni il mercato del lavoro e le strutture familiari hanno subito
forti cambiamenti, che hanno avuto ricadute sia sui corsi di vita sia sulla domanda
sociale di nuove policies.
Nel secondo dopoguerra, anni in cui il welfare state è andato strutturandosi, i
modelli di vita prevalenti erano i cosiddetti “corsi di vita fordisti” o “standard”. Si
trattava di “traiettorie” lineari e omogenee, con una rigida distinzione di genere.
Quella maschile era scandita in tre fasi: istruzione e formazione nell’età giovanile,
occupazione nell’età adulta e pensionamento in quella anziana. L’occupazione era
generalmente una sola nel corso di tutta la vita (a job for life), con un orario di
7
lavoro giornaliero e settimanale standardizzato. Il modello fordista per le donne
prevedeva, invece, il matrimonio e la maternità ed erano proprio la stabilità delle
unioni coniugali e la concentrazione delle responsabilità di cura sulle donne a
garantire l’interdipendenza e la sopravvivenza delle due “traiettorie”. Conseguenza
di ciò era, ovviamente, una presenza femminile nel mercato del lavoro scarsa e
discontinua, con interruzioni e spesso fuoriuscite definitive.
I percorsi di vita fordisti erano, dunque, fortemente istituzionalizzati e basati su
tre pilastri fondamentali: la piena occupazione (maschile), la figura del “lavoratore
maschio adulto” stabilmente occupato lungo tutto l’arco della vita lavorativa e un
modello di famiglia stabile, fondata sul matrimonio e con una rigida divisione di
genere del lavoro e delle responsabilità di cura (Naldini, 2006).
Nell’arco di pochi decenni questi pilastri hanno subito un forte indebolimento.
Il lavoro è divenuto molto più instabile e precario, sia in termini di tipologie e
durate contrattuali che in termini di orari. L’instabilità lavorativa e il rischio di
disoccupazione hanno reso le carriere meno prevedibili, compromettendone la
linearità. Si è verificata, dunque, una vera e propria “destandardizzazione” dei corsi
di vita (Guillemard, 2001), che oggi sono definiti “post-fordisti” o “post-
industriali”.
Un fenomeno che ha significativamente influito su tale destandardizzazione è il
cambiamento intervenuto nel modo e nei tempi di formazione della famiglia. Fino
agli anni Cinquanta i modelli familiari in Italia si basavano su alcuni principi
fondamentali: la fedeltà coniugale, l’indissolubilità del vincolo matrimoniale
(“finchè morte non ci separi”), relazioni di genere e di generazione rigide e
asimmetriche, forte valorizzazione dei figli, intensità e importanza delle reti
parentali (Naldini, 1998). A partire dagli anni ‘50, con una brusca accelerazione
dalla seconda metà degli anni ‘60, questi principi iniziarono a essere messi in
discussione, a causa dell’intervento di alcuni fattori, che Golini identifica in cinque
elementi: la rivoluzione sessuale, un orientamento verso i figli non più esclusivo,
una maggiore valorizzazione del benessere e della felicità a livello di coppia, la
crescita dell’instabilità coniugale e il cambiamento del ruolo delle donne nella
società (Golini, 1988). La famiglia italiana ha continuato a muoversi lungo queste
8
linee di tendenza per tutti i decenni successivi, seppure con differenziazioni
regionali piuttosto marcate.
Per quanto riguarda il matrimonio, il tasso di nuzialità è più o meno stabile dalla
metà degli anni ’80 e ciò è prevalentemente dovuto all’innalzamento dell’età in cui
si decide di sposarsi. Inoltre, negli ultimi anni c’è stata anche una crescita piuttosto
consistente di convivenze more uxorio e di famiglie unipersonali e
monogenitoriali.
1
Altro fenomeno di cambiamento è la crescita costante di
separazioni e divorzi, che testimoniano la tendenza all’instabilità coniugale.
Anche nella scelta di fare figli c’è stata una trasformazione. Attualmente il tasso
di fecondità in Italia, con una media di 1,35 figli per donna è uno dei più bassi al
mondo, insieme a Germania, Spagna e Giappone
2
, ed è tendenzialmente in declino.
Anche per quanto riguarda l’andamento demografico, tuttavia, per quanto tutte le
regioni vedano una riduzione della natalità, rimangono marcate differenze tra le
regioni del Nord e quelle del Sud del Paese. Nelle prime, la proporzione di donne
con un solo figlio è cresciuta costantemente e il tasso di fecondità è inferiore a
quello di sostituzione a livello nazionale da più di cinquant’anni. Nelle seconde,
invece, quest’ultimo fenomeno si è verificato solo a partire dagli anni Ottanta (Istat,
1993) e la riduzione di fecondità è soprattutto dovuta al calo del numero di
terzogeniti o all’aumento di chi non ha figli. Le ragioni della riduzione del tasso di
fecondità sono molte. Tra quelle più importanti c’è la posticipazione dell’età del
primo parto, che è strettamente connessa all’innalzamento dell’età del matrimonio e
all’aumento del periodo che la coppia di coniugi decide di trascorrere senza figli;
altre cause sono il basso numero di figli, conseguente alla decisione di rinviare la
scelta di fare il primo e la scarsa quota di nascite fuori dal matrimonio.
Accanto al calo della natalità, c’è stato anche un innalzamento delle speranze
di vita, con conseguente invecchiamento della popolazione. Questo fenomeno, se da
una parte testimonia un miglioramento delle condizioni e della qualità della vita,
d’altra parte implica un aumento dei rischi sociali e di non autosufficienza, uno
1
E’ importante sottolineare che i dati di cui si dispone, che attestano le cosiddette famiglie di fatto
intorno al 2%, sono molto probabilmente una sotto-rappresentazione del fenomeno, dato che ancora
non esiste un riconoscimento formale di tali unioni e che poche coppie decidono di ufficializzare la
loro convivenza.
2
A metà degli anni ’90 questi quattro paesi sono stati inclusi nei cosiddetti “paesi a bassissima
fecondità”.
9
sbilanciamento sempre maggiore tra popolazione anziana e popolazione attiva
3
, uno
squilibrio generazionale nelle reti parentali e nuovi bisogni di cura per gli anziani,
soprattutto non autosufficienti.
Oggi, dunque, le sequenze dei corsi di vita non sono più rigidamente scandite e
c’è una stretta interdipendenza tra la sfera lavorativa e quella familiare, che
consentono transizioni continue. Tuttavia, perché in queste transizioni ci possa
essere una effettiva capacità di scelta individuale, serve un adeguato contesto
istituzionale. Come osserva Naldini: <<…in alcuni contesti sociali e culturali
rimane forte l’influenza di orologi sociali e normativi che scandiscono
culturalmente la sequenza del corso di vita attesa>> (Naldini, 2006, p.68).
1.1.2 Le trasformazioni della partecipazione femminile al mercato del lavoro
Un fenomeno strettamente correlato ai mutamenti illustrati, che permette anche
di coglierne meglio la portata e le ragioni, è l’andamento della partecipazione
femminile al mercato del lavoro.
Dagli anni Trenta alla prima metà degli anni Sessanta ci fu un vero e proprio
processo di espulsione delle donne dal mercato del lavoro. Ad avviarlo furono
alcune misure legislative adottate dal regime fascista, che miravano a scoraggiare il
lavoro femminile, soprattutto nel settore industriele e in quello dei servizi, che
stavano iniziando a nascere in quel periodo. Nel 1923 furono emanate molte misure
che imposero di tagliare il numero delle donne nel settore pubblico, in particolare,
nell’insegnamento. Nel 1934 venne emanata la legge n.221 che vietava alle donne
l’accesso ai concorsi pubblici per le posizioni dirigenziali e consentiva la libertà di
licenziamento in caso di matrimonio (Naldini, 2003). Di fatto, dunque, il lavoro
retribuito femminile venne confinato quasi esclusivamente nei settori e nelle
posizioni occupazionali più marginali e meno protetti. In particolare, il lavoro
3
Questo sbilanciamento è particolarmente grave proprio per il nostro Paese, a causa del suo basso
tasso di natalità. Da un’analisi Eurostat del 2003 emerge che l’attuale rapporto di 30 pensionati ogni
100 persone in età lavorativa è destinato a crescere. Secondo la stima nel 2040 ci saranno 70
pensionati ogni 100 persone in età da lavoro, squilibrio difficilmente sostenibile dal sistema
previdenziale e pensionistico italiani.
10
retribuito a domicilio o in agricoltura
4
era visto come l’impiego migliore per le
donne, in quanto consentiva loro di non allontanarsi troppo da casa e, dunque,
dall’autorità patriarcale dei loro mariti. Tali pratiche fortemente penalizzanti per
l’occupazione femminile proseguirono comunque per molti anni anche dopo la
caduta del regime fascista. Solo nel 1977 venne sancita l’illegittimità del cosiddetto
“licenziamento in bianco” e fu approvata la legge n.903, detta “legge di parità”, che
garantiva l’accesso alle carriere senza discriminazione di genere.
Nonostante il processo di riduzione della partecipazione delle donne sia durato
per più di trent’anni, solo tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni
Sessanta il ruolo della casalinga a tempo pieno si impose come modello di
comportamento prevalente e socialmente preferibile. La stabilizzazione
dell’occupazione maschile, la maggiore sicurezza dei salari, l’ampliamento delle
garanzie sociali determinarono un aumento del benessere familiare e consentirono
quasi la “professionalizzazione” del lavoro di casalinga. Il capofamiglia divenne
l’unica fonte di reddito e di garanzie sociali per i familiari che da lui dipendevano.
Basti pensare al sostegno al reddito in caso di disoccupazione, all’accesso alle cure
mediche, alla garanzia di reddito durante la vecchiaia, alle pensioni di reversibilità.
Come osserva Chiara Saraceno: <<…se mai in Italia vi è stato un periodo in cui è
emerso come modello insieme normativo e preferito quello di una famiglia basata
sul maschio capofamiglia percettore di reddito e tramite delle risorse sociali, da un
lato, sulla casalinga dedita al lavoro familiare dall’altro, esso ha riguardato il breve
arco di tempo tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta…>>
(Saraceno, 1998, p.54).
A partire dagli anni Sessanta l’andamento della partecipazione delle donne al
mercato del lavoro iniziò a subire un’inversione di tendenza in molti Paesi
industrializzati. In Italia, in realtà, il tasso di attività femminile iniziò a crescere solo
alla fine di quel decennio e in modo quantitativamente più contenuto. Ancora oggi,
esso si attesta sul 50,8%, contro una media dell’Unione Europea del 64,3%
(fig.1.1).
4
Nel settore agricolo questo processo di riduzione della partecipazione femminile avvenne solo a
partire dagli anni Cinquanta.
11
FIG. 1.1
Tassi di attività femminile 1960-2006 – Confronto tra Italia e UE
20
25
30
35
40
45
50
55
60
65
70
1960 1968 1974 1980 1990 1994 2000 2006
Italia UE 15
Fonte: Eurostat (2006)
Anche il tasso di occupazione femminile in Italia è ancora molto inferiore
rispetto alla media europea, con il 46,3%, contro il 57,2%.
5
(fig.1.2).
5
In realtà, le medie nazionali non sono una rappresentazione fedele della situazione, in quanto non
evidenziano la presenza di forte disparità territoriali. I tassi di attività delle donne al centro-nord,
infatti, sono simili a quelli dell’Europa, con un 56% al Nord-Ovest e 57% a Nord-Est (Istat 2006).
Anche al Sud il tasso di attività delle donne più giovani è alto, ma i periodi di disoccupazione sono
molto più frequenti.
12
FIG. 1.2
Il tasso di occupazione femminile in Europa – anno 2006
73,4
70,7
67,7
67,3
65,8
65,3
63,5
62,4
62,2
62 61,8
61
60,3
59,3
57,7
57,2
56,8
54,654,6
54
53,2 53
51,9
51,1
48,2
47,4
46,3
34,9
0
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50
60
70
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Fonte: Eurostat (2007)
La crescita della partecipazione negli anni Sessanta era dovuta a varie ragioni: il
rientro al lavoro delle donne dopo l’allevamento e la crescita dei figli,
l’innalzamento del livello di istruzione, un contesto normativo più favorevole
6
(Saraceno, 1998). Inoltre, ebbe forte impulso la terziarizzazione, che aprì nuove
opportunità occupazionali, soprattutto nei settori dell’insegnamento e dei servizi
sociali.
Le differenze tra i vari Paesi nei modelli di crescita sono legate a molteplici
fattori e dimensioni: i mutamenti dei comportamenti familiari, le ristrutturazioni del
mercato del lavoro, lo sviluppo del welfare state e di politiche pubbliche a sostegno
6
In Italia, ad esempio, nel 1971 venne approvata la legge 1204 a tutela della maternità, che rendeva
più facile la decisione di non lasciare il lavoro alla nascita di un figlio.
13
delle madri e della famiglia, i modelli culturali dominanti circa l’opportunità del
coinvolgimento delle madri nel mercato del lavoro.
Per quanto riguarda il nostro Paese, molte ricerche hanno tentato di individuare
le ragioni per cui ancora oggi si registri un tasso di partecipazione
significativamente basso (Reyneri, 2002; Naldini, 2006). Tra i fattori più condivisi
si trovano: l’elevato livello della disoccupazione in Italia e la sua strutturalità; lo
sviluppo limitato dell’occupazione nel settore terziario; la forte disomogeneità
territoriale del mercato del lavoro; la diffusione piuttosto alta del lavoro irregolare,
cui consegue una sottostima della partecipazione di fatto delle donne al mercato del
lavoro; la scarsa diffusione del part-time.
Alle stesse cause è ascrivibile anche la persistenza di un alto gap di genere
nell’occupazione. La differenza tra i tassi di occupazione maschile e femminile,
infatti, mostra nel nostro Paese livelli particolarmente elevati. La “Rilevazione sulle
forze di lavoro” condotta dall’Istat, riferita al terzo trimestre 2007, ha rilevato che il
tasso di occupazione maschile è del 71,3%, contro il 46,9% di quello femminile,
con un gap di genere di ben il 24,4%. Anche in questo caso, tuttavia, bisogna
sottolineare la presenza di differenze territoriali piuttosto marcate. Nelle Regioni
settentrionali, infatti, il gap è del 19,4%, al centro del 20,8%, al sud sale al 32%. La
ricerca condotta dall’OECD, relativa all’anno 2005, mostra invece come il gap
occupazionale di genere cresca nel passaggio dalla condizione di famiglie “senza
figli” alla presenza di uno o più figli. Il tasso di occupazione femminile, infatti, era
in totale del 44,8%. Tuttavia, dal 48,3% alla presenza di un figlio, si passava al 41%
con due figli e al 27,4% con tre figli.
Anche la questione della flessibilità del lavoro assume un ruolo rilevante
nell’analisi della trasformazione della partecipazione femminile al mercato del
lavoro. In particolare, la diffusione del part-time, in particolare, e il fatto che si sia
imposto come modalità di lavoro prevalentemente femminile è stata da molti esperti
messa in relazione con l’occupazione delle donne e con le esigenze di conciliazione.
<< Il part-time è una modalità di lavoro che consente o, meglio, dovrebbe
consentire alle donne, soprattutto in alternativa di servizi di cura di qualità, e/o a
prezzi accessibili, di conciliare attività professionale e responsabilità familiari… >>
(Naldini, 2006, p.78). Nel nostro Paese, tuttavia, il livello di ricorso a questa forma
14
di lavoro è ancora decisamente basso rispetto al resto d’Europa. Nel 2006 la
percentuale di donne con un’occupazione part-time, rispetto al totale di quelle
occupate, era del 26,5%, contro una media di 31,2% dell’Unione Europea a 27 e di
ben 36,6% se si fa riferimento a quella di 15 Paesi (fig.1.3).
FIG.1.3
Donne con occupazione part-time (% su totale donne occupate) – anno 2006
4,7
5,6
8,3
9,8
10,2
11,6
11,7
12
12,1
13
15,8
19,2
21,8
23,2
26,5
30,1
30,2
31,2
35,4
36,2
36,6
40,2
41,1
45,2
45,6
58,4
74,7
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Fonte: Eurostat (2007)
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