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due regimi politici che, fino al 1989, si credeva avesse rappresentato uno dei punti più
avanzati dell’istituzionalizzazione del poter politico [Ieraci 2003]. Questa teoria può
essere riassunta dalle parole di Huntington, secondo il quale le società si distinguono
in “società pretoriane” e “società civili”. Mentre le seconde sono caratterizzate da un
elevato grado di istituzionalizzazione politica, le prime sono sostanzialmente instabili
e poco istituzionalizzate. Sempre Huntington ritiene che: «Il partito politico è
l’organizzazione caratteristica della politica moderna [...]. La funzione del partito è
quella di organizzare la partecipazione, di aggregare gli interessi, di stabilire
collegamenti tra le forze sociali e il governo» [Huntington 1975, p.102].
Seguendo questo ragionamento è come se l’Unione Sovietica pre 1989 fosse stata «un
regime ad elevatissima istituzionalizzazione politica» [Ieraci 2003, p.182]1. Difatti,
proprio attraverso il suo sistema politico-amministrativo ipercentralizzato, il Partito
unico era diventato un’istituzione governativa, il Partito era lo Stato e lo Stato era nel
Partito in una «sovrapposizione stessa di partito e governo» [Ieraci 2003, p.183].
Semplicemente Huntington aveva confuso «l’esercizio bruto del potere attraverso le
organizzazioni partitiche per una forma di potere istituzionalizzato in massimo grado»
[Ieraci 2003, p.184].
In realtà è solo nel 1989, con l’avvento della perestrojka2 (in russo: ПepecТpòЙКа,
letteralmente “ricostruzione”) e del suo complesso di riforme economiche, che in
Russia iniziarono la politicizzazione della società e la nascita di un’opposizione alla
politica ufficiale [Massari 1990]. Così il nuovo corso di istituzionalizzazione politica
iniziato dalla Federazione Russa, e da tutte le altre giovani democrazie dell’Europa
orientale, ha significato un nuovo disegno istituzionale e una nuova configurazione
dei rapporti tra le istituzioni politiche di vertice, ossia le componenti del cosiddetto
“triangolo del grande potere”3 [Ågh 1998].
1
Huntington pone nella stessa casella tipologica le liberal-democrazie occidentali britannica e
statunitense e il regime sovietico, proprio perché società civili ad elevata istituzionalizzazione politica
[Ieraci 2003, p.181-216].
2
La sociologa Zaslavskaya ha definito la perestroika come «una rivoluzione diretta dai settori radicali
e democratici della società contro i settori reazionari e conservatori» [Massari 1990, p.9].
3
Le tre componenti sono : parlamento, presidenza e governo. Agh contrappone al “triangolo del
grande potere” “il triangolo del piccolo potere”, costituito dagli apparati del governo centrale, delle
agenzie governative e dei governi locali [Ågh 1998].
7
Bisogna sottolineare che l’intero processo di democratizzazione e il suo successivo
consolidamento, nella Federazione Russa come negli altri paesi dell’Europa dell’Est,
non sono stati un processo lineare né a tutt’oggi si possono considerare ultimati. Dal
1989 in poi l’evoluzione del processo democratico ha conosciuto battute d’arresto,
momenti di forte ripresa e nuove interruzioni. Parallelamente l’importanza storica di
questa nuova fase di democratizzazioni nell’Europa post-comunista ha portato diversi
studiosi ad interrogarsi sulle sue caratteristiche principali e a definire un nuovo
quadro teorico di riferimento.
Nei loro lavori, Linz e Stepan [1996], Morlino [2003], Zielonka [2001], Ieraci [2003],
Cappelli [2005] ed altri studiosi ci propongono delle “dimensioni” attraverso le quali
misurare i diversi aspetti storici, politici e istituzionali della “ricostruzione dello
stato” nell’Europa dell’Est. Sempre attraverso questo framework teorico ed analitico
sono state analizzate anche le caratteristiche dei precedenti regimi totalitari e post-
totalitari, il periodo del consolidamento democratico e la qualità della democrazia
raggiunta.
Millard [2004], partendo proprio dagli studi di Linz e Stepan, sottolinea che non c’è
accordo unanime su come misurare il consolidamento democratico. La studiosa
prosegue osservando che non c’è un unico indicatore del consolidamento
democratico; quest’ultimo è invece un “concetto aggregato” (aggregate concept) che
implica un giudizio sulla varietà di istituzioni che a diversi livelli sono sia
“democratiche” sia “stabili”. In ogni caso il vero problema è decidere quali istituzioni
siano veramente cruciali ai fini del consolidamento. La tesi di Millard è che la natura
e il ruolo dei partiti e il sistema partitico siano fondamentali per una democrazia
moderna. Soprattutto quando ci riferiamo all’area post-comunista, nella quale non
esistono meccanismi alternativi di rappresentanza ed inevitabilmente i partiti
diventano gli unici garanti della rappresentanza politica.
Porre l’accento sulla centralità del ruolo dei partiti nel processo di democratizzazione
dell’Europa post-comunista, significa analizzare anche i fattori che ne spiegano lo
sviluppo politico. In questo contesto possiamo individuare almeno tre spiegazioni.
Primo, la centralità del fattore storico per spiegare la condizioni socio-economiche e
politiche nella quali i partiti si sono sviluppati. Secondo, la rilevanza del fattore
8
istituzionale, quindi la struttura generale del sistema politico e il tipo di sistema
elettorale adottato. Terzo, il ruolo giocato dalle élite e gli interessi che loro
rappresentano.
L’interazione di questi tre fattori che non si escludono reciprocamente e sono tutti
rilevanti, ci spiega perché nel contesto post-comunista libere elezioni periodiche non
siano sinonimo di qualità democratica e non assicurino una rappresentanza
democratica. Infatti, l’introduzione di elezioni competitive ha marcato la fase iniziale
della democratizzazione dei paesi post-comunisti ma non ne ha consolidato
l’efficienza democratica. Questo perché esse sono andate a coprire un “vuoto
democratico”, mentre per svolgere il loro ruolo di garanzia le elezioni necessitano di
una democrazia partecipata e consolidata [Millard 2004].
Nel 1991, Huntington scriveva che questa “terza ondata” di democratizzazione si
caratterizzava per il fatto che l’introduzione delle elezioni segnava la morte dei regimi
autoritari. Secondo Smyth [2006], l’evento fondamentale del periodo di
consolidamento democratico è stato sicuramente l’introduzione di elezioni
competitive. Allo stesso tempo, non sempre libere elezioni segnano la fine di un
regime autoritario. Piuttosto, nel caso della Federazione Russa esse hanno dato inizio
alla costruzione di un nuovo regime che, nel tentativo di darsi basi democratiche, sta
percorrendo una traiettoria che lo riporta (forse) verso una nuova forma di
autoritarismo.
Secondo Smyth [2006], Birch [2003], Morini [2007] e Moser [200l] l’analisi e la
comprensione dei comportamenti della nuova élite governante dentro l’arena
elettorale, nei confronti del sistema elettorale e dei suoi incentivi ci aiuta a
comprendere meglio il fallimento (o il successo) del consolidamento democratico.
Tutti gli studiosi concordano sul fatto che le elezioni sono una “falsa misura” del
consolidamento democratico russo perché sono state incapaci di generare una
democrazia responsabile. Allo stesso tempo è innegabile che esista una stretta
relazione tra le elezioni e l’evoluzione democratica della Federazione Russa. La
logica conclusione è che non si possa misurare la capacità democratica di una
nazione post-comunista senza prima aver analizzato i comportamenti dei candidati e
dei leader di partito dentro l’arena elettorale.
9
Sulla scorta di quanto detto, nelle pagine seguenti verrà analizzato il ruolo del sistema
elettorale e i suoi effetti dentro il processo di transizione democratica che ha
attraversato e sta tuttora attraversando la Federazione Russa. Prima di tutto si fornirà
il contesto metodologico al quale ci riferiremo. Verrà definito il processo di
democratizzazione e le sue dimensioni; sarà analizzata la dimensione istituzionale del
sistema elettorale e i suoi effetti sul sistema partitico nel caso di un sistema strutturato
ovvero fortemente destrutturato.
Una volta elaborato il quadro teorico di riferimento verrà analizzato il caso della
Federazione Russa. Prima si cercherà di rileggere il ventennio di transizione
democratica lungo le dimensioni teorico-istituzionali della democratizzazione. Infine,
analizzeremo la dimensione istituzionale del sistema elettorale e i suoi effetti.
L’analisi proposta si basa sull’ipotesi che la struttura elettorale, l’informazione
politica e gli incentivi al coordinamento e alla cooperazione sono necessari ad un
regime in transizione per raggiungere i livelli di una democrazia consolidata. Al
contempo è possibile rilevare il ruolo giocato dal sistema elettorale e i suoi effetti
anche in democrazie che non sono ancora democrazie ma che senza elezioni
competitive molto probabilmente non avrebbero nemmeno iniziato questo percorso.
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2. Il quadro teorico di riferimento
Nei primi anni subito dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica la maggior
parte degli analisti occidentali era convinta che la transizione fosse riuscita e che il
processo di consolidamento democratico stesse procedendo nella “direzione giusta”.
Cappelli osserva che, in realtà, l’intero processo di democratizzazione è stato
osservato «attraverso una lente puramente ideologica»: la transizione post-sovietica
come una sorta di vittoria del “bene” (la liberal-democrazia) sul “male” (il
comunismo). In altre parole molti politici e politologici avevano confuso l’obiettivo
politico principale della democratizzazione con la distruzione del regime comunista,
mentre il suo scopo è e rimane quello di dare potere al popolo sotto forma di uno stato
autorevole [Cappelli 2005].
Presto l’“ottimismo democratico” ha lasciato il posto ad un’analisi più scientifica
sempre ispirata al paradigma della transizione ma in un’ottica evolutiva. Ossia la
transizione può procedere positivamente approdando al consolidamento, oppure avere
delle battute d’arresto, o addirittura involvere imboccando una reverse wave piuttosto
che riprendere il suo cammino verso la democrazia.
In ogni caso «la traiettoria autoritarismo-democrazia può incontrare ostacoli
imprevisti e paradossali. Ed uno di questi era che in diversi paesi “in transizione”, e in
particolare in quello spazio politico dominato per decenni dal supposto leviatano
sovietico, lo stato, democratizzandosi, si era sfasciato ed appariva ormai
un’istituzione debole o inesistente. E questo forse più di ogni altra cosa impediva il
completamento della transizione e il consolidamento della democrazia. No state, no
democracy» [Cappelli 2005, p.3].
Partendo da questo presupposto nelle prossime pagine si cercherà di definire
singolarmente i concetti fondamentali che caratterizzano il percorso verso la
democrazia e che nel loro insieme ci danno la cornice all’interno della quale un
regime democratico prende forma.
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2.1 Cosa è democrazia e cosa non lo è
Una definizione sostanzialmente empirica di democrazia è quella fornitaci da
Dahl, secondo il quale: «Sono democrazie tutti i regimi contraddistinti dalla garanzia
reale di partecipazione politica più ampia della popolazione adulta maschile e
femminile e dalla possibilità di dissenso e opposizione» [Dahl 1970]. Mentre Sartori
ci fornisce una definizione di democrazia che mette in relazione elementi empirici
con elementi normativi in una prospettiva teorico-politica: «[Democrazia è] un
sistema etico-politico nel quale l’influenza della maggioranza è affidata al potere di
minoranze concorrenti che l’assicurano» [Sartori 1957, p.105]. Oppure è democratico
«il meccanismo che genera una poliarchia aperta la cui competizione nel mercato
elettorale attribuisce potere al popolo, e specificamente impone la responsività degli
eletti nei confronti degli elettori» [Sartori 1993, p.108].
Le due definizioni, entrambe valide, fondano la loro diversità sulla prospettiva di
ricerca che i due autori intendevano sviluppare. In ogni caso mentre partecipazione e
dissenso sono caratteri ineliminabili delle liberal-democrazie di massa, competizione
e responsività sono centrali per una definizione normativa ma meno rilevanti per una
definizione empirica. Difatti competizione e responsività sono molto più idonei per
valutare la distanza di un regime reale da una democrazia ideale ma partecipazione e
dissenso rimangono pur sempre fondamentali per valutare una democrazia “reale”.
Sempre nel computo dei parametri per una democrazia ideale, un’altra “misura”
idonea per valutarla è la cooperazione dei politici4 perché è rilevante rispetto al
funzionamento della democrazia stessa e indirettamente si riferisce alle basi genetiche
di una democrazia. Ma tale misura rimane pur sempre marginale in una prospettiva
strettamente empirica.
Se invece vogliamo analizzare una democrazia secondo le proprie regole e istituzioni
si può dare una definizione di tipo procedurale. Quella di Schumpeter è la seguente:
«Il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche,
in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una
4
Secondo Schmitter e Karl: «Una moderna democrazia politica è un sistema di governo nel quale i
governanti sono considerati responsabili per le loro azioni nella sfera pubblica da parte dei cittadini,
che agiscono indirettamente attraverso la competizione e la cooperazione dei loro rappresentanti
eletti» [Schmitter e Karl 1993, p.40].
12
competizione che ha per oggetto il voto popolare» [Schumpeter 1964, p.257]. Anche
Kelsen dice che «come metodo o procedura, la democrazia è una forma. Infatti la
procedura attraverso la quale si cerca e si attua in pratica un ordinamento sociale è
considerata formale per distinguerla dal contenuto dell’ordinamento che è un
elemento materiale o sostanziale» [Kelsen 1981, p.190]. Quindi si parla di
democrazia come “forma” che consente e permette la realizzazione di alcune
decisioni cioè le “sostanze”, si sottolinea così l’aspetto procedurale di un regime
democratico5. Inoltre la definizione procedurale ammette l’incertezza dei risultati
decisionali ma necessita della certezza delle regole in modo da limitare quella stessa
incertezza.
Il contenuto e i limiti delle decisioni delle istituzioni, e le modalità dello stesso
processo decisionale dei regimi democratici ci portano alla definizione “genetica” di
democrazia proposta da Morlino «come quell’insieme di norme e procedure che
risultano da un accordo-compromesso per la risoluzione pacifica dei conflitti tra gli
attori sociali, politicamente rilevanti, e gli attori istituzionali presenti nell’arena
politica». Il significato sotteso è che «la democrazia è un regime concretamente
caratterizzato da regole e istituzioni che contemperano ovvero bilanciano aspetti
diversi» [Morlino 2003, p.24].
Infine, dopo aver dato una definizione genetica, possiamo dare una definizione
“minima” di democrazia secondo la quale vanno considerati democratici tutti i regimi
che presentano almeno: 1) suffragio universale, maschile e femminile; 2) elezioni
libere, competitive, ricorrenti, corrette; 3) più di un partito; 4) diverse e alternative
fonti di informazione. La definizione “minima” focalizzandosi sulle istituzioni che
caratterizzano la democrazia, stabilisce una soglia al di sotto della quale un regime
non può essere considerato democratico [Morlino 2003].
Dopo aver definito la democrazia l’accento si sposta sulle strutture e le regole che
caratterizzano una democrazia. Sempre secondo Morlino le norme e le istituzioni
5
Bisogna sottolineare che non tutte le decisioni e non tutti i contenuti possono essere assunti
attraverso quelle regole. Per esempio nella liberal-democrazia di massa non si è mai messa in
discussione la proprietà privata perché sul piano storico-empirico essa si è fondata sul mantenimento
di alcune condizioni socio-economiche, principalmente connesse proprio alla proprietà privata
[Morlino 2003, pp.18-31].
13
caratteristiche di un regime democratico sono: «L’insieme di regole formali e
procedure che disciplinano il voto a suffragio universale; le elezioni libere, corrette,
competitive, periodiche; una struttura decisionale e di controllo eletta con le norme
già menzionate, corrispondente di solito ad un’assemblea parlamentare; un primo
ministro e un governo responsabili verso il parlamento o risultanti da un’elezione
diretta da parte del corpo elettorale; un insieme di strutture di intermediazione
rappresentate dai partiti e dalle organizzazioni di interesse» [Morlino 2003 p.21].
L’insieme di queste definizioni ci aiuta a comprendere la democrazia come genus ma
non fissano un punto d’arrivo. Non esiste una cosiddetta definizione “massima” di
democrazia perché non è possibile fissare un termine ultimo dei principi democratici,
essi sono in continua evoluzione e tendono all’ottimizzazione più che alla
massimizzazione. Inoltre una definizione massima potrebbe essere usata
esclusivamente per differenza, in pratica misurerebbe la distanza dei regimi
democratici reali dalla democrazia ideale ma non ci fornirebbe alcuna informazione
sul grado di accrescimento della qualità democratica di quei paesi e soprattutto sui
motivi della loro eventuale scarsa democraticità.
Per arrivare ad una definizione “ideale” di democrazia sono state proposte diverse
soluzioni, per esempio definire una democrazia in base a convinzioni filosofiche.
Oppure un’altra soluzione proposta è la misura e il riordino delle democrazie reali in
base ad un loro coefficiente di democraticità (ad esempio Freedom House).
Secondo Morlino, invece, se partiamo dal presupposto che una democrazia moderna è
un regime fondato su due principi, la libertà e l’uguaglianza, i due valori che per
l’appunto dovrebbe realizzare la democrazia ideale, essa si può definire
semplicemente «il regime che deve creare le opportunità istituzionali migliori per
realizzare libertà ed uguaglianza» [Morlino 2003, p.27]. L’affermazione di questi due
principi deve avvenire a tutti i livelli di potere e prevede l’affermazione e
l’espansione dei diritti individuali o di comunità. Inoltre per la realizzazione di libertà
e uguaglianza è necessario un insieme sempre più ricco ed ampio di diritti individuali,
oltre alla promozione della responsabilità o accountability dei governanti e della
capacità di risposta o responsiveness degli stessi alle domande della comunità.