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Executive Summary
Negli ultimi decenni del secolo scorso, le teorie economiche neoclassiche sono state
progressivamente sostituite da nuovi modelli economici volti a rappresentare in modo
migliore l’importanza del sapere e dell’innovazione nei processi di crescita economica. La
nuova attenzione ai processi di apprendimento e diffusione della conoscenza, coadiuvata dalla
nascita e dalla diffusione delle tecnologie ICT (information and communication
technologies), che ha dato avvio a un crescente fenomeno di trasformazione del sapere tacito
in conoscenza codificata, hanno portato gli studiosi a definire questa epoca come l’economia
della conoscenza o “knowledge-based economy”. In questo contesto si è assistito anche al
superamento dei modelli di innovazione lineare, verso l’affermarsi di modelli di innovazione
“a catena” e di innovazione “aperta”, in cui il momento innovativo è il risultato
dell’interazione fra una pluralità di attori, principalmente imprese, centri di ricerca ed
istituzioni, che insieme compongono il sistema della tripla elica. In questo nuovo paradigma,
ciascuno di questi attori ha visto evolvere il proprio ruolo ed anche le università hanno,
quindi, visto cambiare la propria missione verso una sempre crescente responsabilità legata
alle ricadute socio-economiche che esse sono in grado di generare a vari livelli, dal locale al
globale, attraverso le missioni di Ricerca, Formazione e Trasferimento di Conoscenze e
Tecnologie (Knowledge and Technology Transfer – KTT).
Sebbene Università in tutto il mondo intrattengano rapporti con partner industriali fin
dall’inizio del ‘900, l’avvento dell’economia della conoscenza ha dato avvio, a partire dai
primi anni ’80, ad un massiccio fenomeno di revisione degli statuti universitari che, sempre
più spesso, affiancano alle missioni di ricerca e formazione anche il “terzo pilastro” del KTT.
In Italia la nascita dei primi Uffici di Trasferimento Tecnologico (UTT o TTO, dall’inglese
“Technology Transfer Offices”) universitari può essere fatta risalire alla fine del secolo
scorso, ma il fenomeno si è intensificato solo in anni recenti ed è tuttora in crescita.
Attraverso una riflessione sulle esperienze professionali vissute dall’autore, costantemente
rapportate alle evidenze empiriche reperibili in letteratura, il presente lavoro di tesi vuole
analizzare con approccio critico i casi del progetto ILO Piemonte, per la costituzione di un
ufficio di trasferimento tecnologico comune alle tre principali università piemontesi, e di ISIS
Innovation, l’organismo di trasferimento tecnologico dell’Università di Oxford, al fine di
evidenziarne i principali punti di forza e debolezza e fornire spunti per un nuovo modello di
gestione delle attività di KTT nell’università italiana.
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L’analisi della situazione del KTT in Italia mette in luce come, molte università, si siano
focalizzate eccessivamente su alcuni aspetti del KTT, principalmente brevetti e spin-off,
tralasciando o sottovalutando l’importanza di altre attività, come il marketing e il networking,
o la messa a punto di funzioni propedeutiche e di fondamentale importanza quali, a titolo di
esempio, l'implementazione di adeguati sistemi informativi per la gestione della conoscenza o
l’analisi dei bisogni e la comunicazione con gli stakeholders.
In Italia, inoltre, la maggior parte degli UTT sono nati internamente ad aree o uffici delle
amministrazioni centrali, per lo più dedicando personale interno, già dipendente, e spesso
senza l’inserimento di nuovi profili manageriali adeguati, possibilmente provenienti dal
mondo delle imprese. Questo ha portato, in molte situazioni, a sviluppare competenze
rilevanti, nella gestione amministrativa e giuridica degli aspetti legati, principalmente, alla
proprietà intellettuale (PI), mancando però, quasi completamente, delle altre competenze,
soprattutto quelle tecniche o di marketing, necessarie per rapportarsi efficacemente, da un
lato, con il personale accademico e, dall’altro, con il mondo esterno (le imprese in
particolare). Esiste oggi un largo consenso sul fatto che profili con background tecnico,
completati da opportuni percorsi di formazione avanzata sul fronte legale ed economico-
gestionale siano imprescindibili nello staff degli UTT. Tuttavia, nel panorama normativo
attuale e con le difficoltà economiche che il sistema universitario italiano sta attraversando, la
possibilità di assunzione di nuovo personale all’interno degli UTT è ridotta al minimo. Si
pongono, inoltre, problemi di gestione del personale, legati al disallineamento fra i nuovi
profili professionali che dovranno essere inseriti ed il personale già dipendente, ai meccanismi
di incentivazione che dovranno – inevitabilmente - essere previsti ed all’autonomia operativa
necessaria a tali strutture per il perseguimento degli obiettivi.
Pertanto, alla base del nuovo modello proposto si prevede di separare, dal punto di vista
organizzativo, le funzioni di tipo giuridico/amministrativo, principalmente responsabili di
attività di supporto come la gestione formale dei contratti di ricerca, dei brevetti e delle
licenze, dalle competenze di linea, responsabili delle attività a supporto della pianificazione
strategica (marketing strategico), dell'organizzazione e realizzazione di momenti di incontro
con le imprese (marketing operativo), della partecipazione dell’università ai network per
l’innovazione (networking) e per la promozione delle proprie tecnologie (licensing e supporto
alla creazione di impresa). La proposta avanzata prevede che la nuova funzione, definita Unità
per il Marketing della Ricerca, debba essere inserita in una posizione differente
nell’organigramma dell’università, rispetto a quanto avviene attualmente, al di fuori
dell’amministrazione centrale, pur rimanendo interna all’università, per non perdere i privilegi
di accesso alle informazioni ed ai rapporti con il personale accademico. L’Unità per il
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Marketing della ricerca dovrebbe essere una unità autonoma, sotto il profilo gestionale e
contabile, fortemente orientata al risultato e abilitata, magari attraverso l’inserimento
strumenti contrattuali innovativi, all’arruolamento di nuovi profili professionali quali manager
e professionisti del trasferimento tecnologico.
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Introduzione
Scopo di questa sezione introduttiva è quello di contestualizzare la recente crescita di
importanza attribuita alle attività di trasferimento di tecnologie e conoscenze e, in generale, ai
rapporti di collaborazione fra università e imprese, a cui si assiste in tutto il mondo.
Come spesso accade, specialmente per quanto riguarda gli aspetti in qualche modo correlabili
con le tecnologie ed il progresso tecnologico, gli USA sono stati il luogo dove questo
fenomeno ha preso piede con maggiore anticipo ed evidenza rispetto al resto del mondo, ed
all’Europa in particolare, che oggi si colloca in una posizione di follower (inseguitore),
cercando spesso di emulare i passi compiuti oltreoceano. Forse per questo motivo nella
letteratura scientifica, ormai fiorente, sui temi del trasferimento tecnologico si fa spesso
riferimento al Bayh Dole Act come al “punto 0”, l’origine del fenomeno, che ha gettato le
basi per un rinnovato rapporto di mutuo beneficio per il mondo accademico e quello
industriale. Il Bayh Dole Act è, in effetti, la legge che negli anni ’80, diede un primo forte
impulso a questo processo, permettendo alle università americane di brevettare e licenziare i
diritti di proprietà industriale derivanti da ricerche finanziate con fondi del governo federale.
Ciò che appare difficile cogliere in letteratura, a questo riguardo, è il collegamento
concettuale che spieghi per quale motivo tutto ciò abbia funzionato così bene negli Stati Uniti,
quali siano le sue origini e perché dovrebbe funzionare nel resto del mondo e, soprattutto, se e
per quale motivo sia opportuno perseguire gli stessi obiettivi e con quali risultati attendibili.
In effetti, alcune università negli Stati Uniti cominciarono a brevettare le invenzioni frutto
delle proprie ricerche già a partire dagli anni ’20, sebbene fossero poche quelle che avevano
già formalizzato politiche interne per questa materia e, anche in quei casi, ci fosse una
marcata ambivalenza rispetto alla brevettazione. Al di là dell’aspetto brevettuale, comunque,
le università statunitensi erano solite collaborare con il sistema industriale già ben prima
dell’emanazione del Bayh Dole Act del 1980, favorite in questo dalla peculiare struttura del
sistema dell’alta formazione. Negli USA, infatti, il sistema della formazione era
significativamente più grande, per dimensioni, se paragonato alla maggioranza delle altre
economie mondiali, includeva un insieme estremamente eterogeneo di istituzioni (religiose e
laiche, pubbliche e private, grandi e piccole, ecc), era carente di qualsiasi forma di controllo
amministrativo operata a livello nazionale ed incoraggiava una marcata competizione
interistituzionale per quanto riguardava gli studenti, i docenti, i finanziamenti ed il prestigio
dell’università [Geiger,1986; Geiger,1993; Trow,1979; Trow, 1991]. La struttura del sistema
dell’educazione statunitense presentava, perciò, forti incentivi alla collaborazione con il
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mondo industriale e queste collaborazioni si svolgevano attraverso canali ben più ampi delle
sole licenze brevettuali e ben prima degli anni ’80. Il numero di università che istituivano
uffici di trasferimento tecnologico o assumevano operatori per queste attività cominciò a
crescere attorno agli anni ’60 ed in realtà, uno dei fattori che favorirono l’emanazione del
Bayh Dole Act, fu proprio l’attività di lobby esercitata sul governo da molte università
statunitensi. L’atto è quindi da considerarsi più come una conseguenza che come una causa
dell’aumento di importanza dell’attività brevettuale e di licensing delle università americane,
avviata negli anni ’60. Resta certamente indiscutibile l’effetto che il Bayh Dole Act, ma anche
altre iniziative politiche rivolte ad un rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale messe
in atto nello stesso periodo, hanno avuto sull’aumento del numero di uffici per il trasferimento
tecnologico universitari e sul numero di brevetti e licenze concessi, come emerge dai report
annuali dell’AUTM, Association of University Technology Managers. [Mowery, 1980].
Considerato che tali avvenimenti sono alla base di un importante fenomeno che vede le
università assumere un nuovo ruolo all’interno della società, giungendo fino a modificare la
propria missione, che affianca ora il trasferimento di conoscenze e tecnologie alle funzioni
tradizionali di formazione e ricerca, si ritiene importante, in apertura di questo lavoro,
ripercorrere ed analizzare brevemente alcuni dei fenomeni socio-economici che hanno
interessato la fine del secolo scorso ed i primi anni del 2000, al fine di erigere
un’impalcatura storica e concettuale più solida che possa far emergere con chiarezza e
razionalità quali siano le motivazioni e le evidenze empiriche che oggi spingono le
università (ed il sistema della scienza, in generale) in questa nuova direzione. Il
perseguimento della terza missione richiede infatti un forte “commitment” da parte di Rettori e
Managers, delle università italiane in particolare, ai quali sono imposte scelte difficili nella
gestione di risorse sempre più scarse. È, quindi, fondamentale che ciascuno di questi attori
possa maturare, autonomamente, la convinzione dell’importanza del KTT, circostanziandola
opportunamente, per non cadere vittima di una sorta di “effetto moda” che induce ad allineare
le proprie azioni a quelle di altre istituzioni “simbolo”, anche senza la reale volontà di
investire in percorsi innovativi.
Nella prima parte di questo lavoro, sezioni da 1 a 4, verrà, dunque, dedicato spazio ad una
descrizione del contesto socio-economico in cui si collocano oggi le università, in particolare
attraverso una breve descrizione di quella che viene definita “l’economia della conoscenza”,
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ed alla presentazione delle teorie economiche più recenti che servono a definire le dinamiche
di sviluppo recenti e future dei rapporti fra il mondo accademico ed il mondo industriale.
Nella sezione 5 verrà analizzata la situazione attuale dell’università pubblica italiana, in
merito al trasferimento tecnologico, mentre nella sezione numero 6 verranno presentati due
casi di studio, analizzati attraverso l’esperienza diretta sul campo, svolta dall’autore durante il
corso di dottorato. Nella sezione finale, gli elementi di riflessione emersi dall’analisi dei casi
di studio, coadiuvati dai dati reperibili in letteratura, verranno utilizzati per identificare una
serie di fattori critici di successo che appaiono di primaria importanza per la buona riuscita
delle attività di trasferimento tecnologico delle università italiane e verrà proposto, di
conseguenza, un modello organizzativo per le funzioni di trasferimento tecnologico, che
risponda ai requisiti individuati.
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1. Economia della conoscenza
Il concetto di economia della conoscenza, o dall’inglese, knowledge-based economy, a volte
anche definita knowledge-driven economy [Cowan, 2000] nasce perlopiù da una analisi
retrospettiva dei trend che hanno caratterizzato il sistema industriale e dell’innovazione degli
ultimi decenni del secolo scorso, come è riportato nel documento “The Knowledge-Based
Economy”, pubblicato dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
(OCSE) nel 1994 [Oecd, 1996].
Tale terminologia risulta, infatti, da una analisi del ruolo assunto dalla conoscenza e dalla
tecnologia nella crescita economica. La conoscenza, racchiusa nelle persone, sotto forma di
capitale umano, e nelle tecnologie ha sempre avuto una posizione centrale nello sviluppo
economico, tuttavia solo verso la fine del secolo scorso questa centralità è stata riconosciuta
ed è divenuta via via sempre più importante. Da alcuni dati riportati dall’OCSE emerge come
verso la fine degli anni ’80 questi trend abbiano cominciato a manifestarsi con la massima
entità. La produttività e il tasso di impiego nei settori high-tech, come il mondo dei
computers, l’elettronica e l’aerospazio hanno iniziato ad accelerare in quegli anni arrivando a
rappresentare quote estremamente rilevanti dell’intera produzione industriale, superati solo
dai settori dei servizi definiti knowledge-intensive, come l’istruzione e i servizi per
l’informazione e la comunicazione. Si stima che, già agli inizi degli anni ’90, più del 50% del
Prodotto Interno Lordo (PIL) dei principali paesi OCSE fosse “knowledge-based”, cioè
derivato da quel genere di attività. Oggi, con l’emergere di nuovi settori estremamente
interdisciplinari come la bio-informatica, le bio- e le nano-tecnologie (o le nano-bio-
tecnologie), questo trend si sta ulteriormente intensificando.
L’analisi retrospettiva di questi trend ha poi portato, negli anni successivi, gli economisti a
rivedere le teorie della crescita economica. Le “funzioni di produzione” tradizionali
dell’economia classica si concentrano principalmente su forza lavoro, capitale, materie prime
ed energia, mentre conoscenze e tecnologie sono considerati aspetti esterni che, al limite,
influenzano la produzione. Ora vengono sviluppati nuovi approcci e modelli analitici che
possano tenere conto più direttamente del ruolo della conoscenza nelle funzioni di
produzione. Gli investimenti in conoscenza possono aumentare la capacità produttiva
degli altri fattori così come trasformarli in nuovi prodotti e processi e, dal momento che
gli investimenti in conoscenza sono in aumento, essi appaiono come l’elemento chiave
per la crescita economica di lungo periodo.
L’idea che la conoscenza giochi un ruolo chiave nella crescita economica non è certo nuova.
Adam Smith faceva riferimento a nuovi “layers of specialists” che sono uomini di
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speculazione e che forniscono un importante contributo alla produzione di conoscenze
economicamente utili. Friedrich List poneva enfasi sulle strutture e le istituzioni che
contribuiscono allo sviluppo produttivo attraverso la distribuzione e la creazione di
conoscenza. L’idea Schumpeteriana di innovazione, come principale motore delle dinamiche
economiche, è stata seguita da studiosi moderni come Galbraith, Goodwin e Hirschman,
mentre altri economisti come Romer e Grossman stanno sviluppando nuove teorie [Grossman,
1994; Romer, 1986] per spiegare quali siano le forze che guidano la crescita economica di
lungo termine.
Secondo le funzioni produttive neo-classiche, i ritorni diminuiscono all’aumentare del
capitale, ma questo effetto può essere compensato dal flusso di nuova tecnologia. Sebbene il
progresso tecnologico è considerato un motore di crescita non viene fornita nessuna
definizione né spiegazione dei processi tecnologici. Nella nuova teoria della crescita, la
conoscenza può aumentare il ritorno dagli investimenti, il quale, a sua volta, può contribuire a
generare nuova conoscenza. Questo effetto è ottenuto attraverso la messa a punto di processi
produttivi più efficienti così come di nuovi prodotti e servizi. Esiste quindi la possibilità di
una crescita sostenuta degli investimenti che possa portare ad un continuo aumento del
tasso di crescita di un paese. La conoscenza può poi venire trasferita da una impresa o da un
settore industriale ad un altro (e non solo), facendo sì che le nuove idee vengano usate
ripetutamente con bassi costi aggiuntivi (concetto che viene ripreso, modificato, nella teoria
dell’Innovazione Aperta). Questi trasferimenti possono aiutare a superare i limiti imposti alla
crescita economica dalla scarsità di capitali.
Gli avanzamenti tecnologici sono in grado di aumentare la produttività marginale del capitale
attraverso l’istruzione e la formazione della forza lavoro, gli investimenti in ricerca e sviluppo
(R&D) e la creazione di nuove strutture manageriali e modelli di business. Analisi di lungo
periodo della crescita economica del XX secolo hanno evidenziato come il capitale umano sia
stato il fattore di produzione cresciuto più in fretta, tuttavia non ci sono evidenze che
indichino che il ritorno degli investimenti in istruzione e formazione si sia ridotto
[Abramowitz, 1989]; allo stesso tempo, gli investimenti in conoscenza e competenze sono
caratterizzati da ritorni crescenti. Queste considerazioni inducono ad una modifica dei
modelli dell’equilibrio neoclassico che erano basati su produzione, scambio ed uso di
commodities (prodotti), per passare a considerare produzione, uso e scambio di
conoscenze.
Non è, tuttavia, facile inserire la conoscenza all’interno delle funzioni produttive standard
poiché questo elemento si sottrae ad alcuni dei principi economici fondamentali, come la
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scarsità. Conoscenza ed informazioni tendono ad essere abbondanti, mentre è la capacità di
utilizzarle nei modi corretti che spesso viene a mancare. Inoltre la conoscenza non è
facilmente incorporabile negli usuali oggetti delle transazioni economiche. La compravendita
di conoscenza ed informazioni è difficile per definizione a causa della asimmetria
informativa circa le caratteristiche dell’oggetto (la conoscenza) fra il venditore ed il
compratore. Alcune forme di conoscenza possono essere facilmente riprodotte e distribuite fra
un ampio numero di utenti a basso costo, il che minaccia la possibilità, per chi le ha generate,
di rivendicarne la proprietà. Allo stesso tempo, altre forme di conoscenza non possono essere
trasferite da un soggetto ad un altro (siano essi imprese, istituzioni o persone) senza la messa a
punto di complicati sistemi di relazioni di collaborazione e networking, oppure attraverso
l’investimento di considerevoli risorse per la codifica e la trasformazione in informazioni.
Codifica della conoscenza
Al fine di facilitare l’analisi economica è bene distinguere fra diversi tipi di conoscenza
rilevanti nella knowledge-based economy: know-what, know-why, know-how e know-who.
Conoscenza è, infatti, un concetto molto più ampio delle sole informazioni che racchiudono,
di solito, solo le componenti di know-what e know-why della conoscenza. Queste sono, per
altro, le forme di conoscenza più vicine ad essere considerate commodities o risorse
economiche che possono essere facilmente fatte rientrare nelle funzioni di produzione
economica neo-classiche. Altri tipi di conoscenza, in particolare il know-how ed il know-who,
rientrano, invece, nelle così dette conoscenze tacite e sono più difficili da codificare e
misurare [Lundvall, B., 1994].
• Know-what: si riferisce alla conoscenza dei “fatti”. Quante persone vivono a Roma?
Quali sono gli ingredienti di una certa ricetta? Quando è stata la seconda guerra
mondiale? Sono alcuni esempi di questo tipo di conoscenza che è tra l’altro molto
vicina a ciò che usualmente viene definito “informazione”. Queste
conoscenze/informazioni possono essere codificate ed espresse in “bit”. In alcune aree
molto complesse gli esperti devono possedere molta di questo tipo di conoscenza per
poter svolgere il proprio lavoro, come nel campo della medicina o nel settore legale.
• Know-why: fa riferimento alla conoscenza scientifica dei principi e delle leggi della
natura. Questo tipo di conoscenza sta alla base dello sviluppo tecnologico e degli
avanzamenti di processo e di prodotto in molti settori industriali. La produzione e la
riproduzione di know-why è spesso condotta in organizzazioni specifiche come i
laboratori di ricerca e le università. Per avere accesso a questo tipo di conoscenza le
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aziende devono interagire con quelle organizzazioni o assumendo il personale
specializzato che è stato formato al loro interno o direttamente attraverso contratti o
attività congiunte.
• Know-how: è rappresentato dalle abilità e dalle competenze nel fare qualcosa. Gli
uomini di business che giudicano il potenziale di mercato per un nuovo prodotto o i
responsabili del personale che assumono e formano i nuovi dipendenti devono fare uso
del loro know-how. Lo stesso vale per gli operai specializzati che utilizzano macchine
utensili molto complesse. Il know-how è, solitamente, un tipo di conoscenza che è
sviluppato e conservato all’interno di una singola impresa. Una delle principali ragioni
che spingono alla creazione di network di imprese è la necessità delle stesse di
condividere e integrare diversi elementi di know-how.
• Know-who: è un tipo di conoscenza che sta acquistando crescente importanza, proprio
a seguito di quanto sopra riportato. Comprende le informazioni riguardo a chi conosce
cosa e chi possiede il know-how per fare qualcosa. Richiede la formazione di
specifiche relazioni sociali che rendono possibile l’accesso agli esperti e l’uso
efficiente della loro conoscenza ed è particolarmente rilevante nelle economie in cui le
competenze sono marcatamente diffuse a causa di un elevato grado di
specializzazione del lavoro fra esperti ed organizzazioni. Le organizzazioni moderne
ed i loro manager devono fare un grande uso di questo tipo di conoscenza in risposta
all’accelerazione nel tasso di cambiamento. Il know-who è il tipo di conoscenza
caratterizzato dal maggior grado di confinamento all’interno delle singole
organizzazioni.
I diversi tipi di conoscenza sono caratterizzati da differenti canali di diffusione privilegiati.
Mentre il know-what ed il know-why possono essere acquisiti attraverso la lettura di libri,
l’accesso a data-base e le lezioni frontali, gli altri due tipi di conoscenza sono profondamente
radicati nell’esperienza pratica. Il know-how è acquisito solitamente grazie ad esperienze di
apprendistato a seguito di formazioni specialistiche, come un master, ed è legato al soggetto
coinvolto. Il know-who deriva dalla pratica sociale e, qualche volta, può essere favorito da
contesti educativi specializzati e si sviluppa anche nei rapporti quotidiani con clienti, fornitori
o altri soggetti terzi. Una delle ragioni per cui molte aziende decidono di svolgere attività di
ricerca di base è per avere accesso ai network accademici che sono riconosciuti come
essenziali per il potenziale innovativo di una impresa. Il know-who è “socially embedded”
(incorporato nella società), ovvero legato al contesto sociale, e non può essere facilmente
trasferito attraverso canali formali di informazione.
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Lo sviluppo dell’Information Technology può essere visto come la risposta alla crescente
necessità di gestire più efficacemente il know-what e il know-why. Allo stesso tempo
l’esistenza dell’information e communication technology rappresenta un forte incentivo al
processo di codifica di certi tipi di conoscenza. Tutto il sapere che possa essere codificato e
ridotto ad informazioni può ora essere trasmesso su distanze sempre più lunghe a costi sempre
più bassi. È stato proprio questo fenomeno a portare a parlare di “information society”
(società dell’informazione), riferendosi ad una società in cui la maggioranza dei lavoratori
sarà presto impiegata nella produzione, gestione e distribuzione di informazioni o conoscenze
codificate.
La rivoluzione digitale ha quindi intensificato il passaggio verso la codifica della conoscenza,
alterando il rapporto fra sapere tacito e codificato. Le reti digitali oggi collegano una vastità di
fonti di informazione pubbliche e private, includendo volumi digitali, libri, riviste
scientifiche, raccolte di working papers, immagini, video, file audio, rappresentazioni grafiche
ed email. Queste fonti di informazione connesse attraverso varie reti di comunicazione
rappresentano i componenti di una emergente libreria digitale universalmente disponibile.
A seguito della codifica, la conoscenza sta sempre più assumendo le caratteristiche di una
commodity rendendone più facili le transazioni ed accelerandone la diffusione. Questo
fenomeno sta anche riducendo l’importanza di investimenti addizionali per l’acquisizione di
nuova conoscenza creando collegamenti fra differenti campi ed aree di competenza e
riducendo la dispersione del sapere.
Questo contesto pone le premesse per una accelerazione del tasso di crescita del bagaglio
di conoscenza accessibile con implicazioni positive per la crescita economica, ma,
parallelamente, l’aumento del tasso di obsolescenza delle tecnologie rappresenta una
sfida per la capacità di adattamento dell’economia.
Conoscenza e formazione
Allo sviluppo delle tecnologie dell’informazione si accompagna una crescente importanza del
capitale umano che deve possedere un ampio ventaglio di competenze e diversi tipi di
conoscenza visto che nell’Information Society un numero crescente di persone è impiegato
nella gestione delle informazioni anziché di altri fattori di produzione tangibili e
l’alfabetizzazione informatica diviene, talvolta, quasi più importante dell’alfabetizzazione
vera e propria. Sebbene nell’economia della conoscenza si evidenzi il crescente uso delle
tecnologie informatiche, i due concetti (economia della conoscenza e società