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1. INTRODUZIONE
La vecchiaia è un fenomeno biologico, psicologico e sociale che la letteratura
psicoanalitica e non ha recentemente preso a considerare come parte del ciclo di vita
e non in termini involutivi.
Su di essa Freud aveva espresso prevalentemente pensieri negativi, vedendovi
esclusivamente una perdita di plasticità dei processi psichici, il graduale ritiro della
libido oggettuale sull‟Io, il ripiegamento narcisistico in difesa di un corpo fragile e
l‟accettazione del ritorno all‟inorganico. Ma già Erikson (1986) elaborò una visione
stadiale dello sviluppo che si estende all‟età adulta e alla vecchiaia: in essa ogni
stadio prevede acquisizioni affettive, cognitive e sociali e la terza età è una fase
caratterizzata dalla ricerca di un senso d‟identità (tra disperazione e accettazione di
quanto realizzato nelle fasi precedenti); per Jung (1930-31), l‟uomo, mentre nella
prima metà della vita ha il compito di mettere radici nell‟Io, nella seconda metà
dell‟esistenza assiste a quel ripiegamento essenziale a realizzare il progetto di
individuazione che dura tutta la vita, quella realizzazione del Sé, tramite la
riconciliazione dell‟Io con le parti in ombra, che apre all‟anziano la possibilità
dell‟analisi. (Nicolini, Ambrosiano, Minervini, & Pichler, 2008) E‟ dunque un
errore supporre che il significato della vita si esaurisca con la giovinezza: “Il
meriggio della vita umana è ricco di significati quanto il mattino; ma sono significati
e prospettive diversi”. (Jung, 1917-1943, p. 75)
La vecchiaia può quindi essere oggi intesa come sforzo finale per diventare se stessi
e ciò appare particolarmente importante in un paese come l‟Italia dove, secondo una
ricerca Istat, all‟inizio del 2007 i residenti minorenni erano il 17% della
popolazione, contro il 18% del 1997; mentre i soggetti con più di 65 anni
costituivano il 20%, contro il 17% del 1997. Di questi il 63,7% erano donne, infatti,
negli ultimi 30 anni, la speranza di vita alla nascita ha raggiunto, nel 2007, i 78,6
anni per i maschi e gli 84,1 per le femmine, contro i rispettivi 63,7 e 67,2 del 1950.
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Da questi dati si evince come il gruppo d‟età in più rapida crescita sia costituito da
donne ultra 65enni, coerentemente con i dati di altri paesi occidentali.
La vera conquista avvenne quando si smise di morire di parto: oggi la differenza di
genere per quanto concerne la speranza di vita è in aumento soprattutto dopo il
periodo fertile, ma questo accade esclusivamente nei paesi occidentali e pare
raggiungere l‟apice in quelli in cui vi è stata la rottura del ruolo sessuale femminile
tradizionale, poiché nei paesi sottosviluppati l‟aspettativa di vita è di soli 50 anni,
senza differenze tra i due sessi, e la mortalità materna è ancora molto elevata.
(Department of Economic and Social Affairs Population Division, 2002)
E‟ tuttavia necessario chiedersi se la maggiore longevità femminile comporti anche
una vita più sana. Dai dati statistici pare emergere una contraddizione: le donne
risultano essere più malate in senso sintomatico, ma con meno probabilità muoiono
di quelle malattie, mentre gli uomini (che apparentemente godono di una salute
migliore) muoiono più giovani. Lo scarto è dovuto al fatto che la popolazione
femminile è più spesso colpita da malattie croniche, per esempio quelle
osteoarticolari o l‟ipertensione (l‟artrosi e l‟artrite colpiscono il 45% degli uomini dai
75 anni in poi, ma ben il 63,7% delle donne), mentre nelle patologie più gravi, come
la bronchite cronica o l‟infarto, le donne sono meno interessate. (SIGG)
Se si considera l‟invecchiamento esclusivamente come un insieme di perdite, le
donne non sembrano quindi risultare avvantaggiate, poiché “quasi tutte le „quantità‟
misurabili le danno sfavorite” (Suardi, 1993, p. 23): infatti, con l‟età si perdono fibre
muscolari, e quindi forza e velocità, ma già da giovani le donne hanno una minore
massa muscolare; le ossa perdono calcio, e la quantità minerale dell‟organismo
femminile è inferiore a quella maschile; nella donna diminuisce la massima capacità
di consumare ossigeno. Eppure, se dal livello d‟organo passiamo alla funzione, le
donne risultano costantemente migliori ai test di performance rispetto ai loro coetanei
maschi, specialmente fra anziani e, nonostante siano maggiormente soggette ad
artrosi e osteoporosi, risultano molto più attive nelle attività quotidiane. Inoltre, le
perdite determinate da infermità e incapacità che possono presentarsi con l‟età, non
hanno sull‟adattamento e il senso di soddisfazione delle donne lo stesso effetto
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profondo e disastroso che la salute malferma sembra invece avere su molti uomini.
(Friedan, 1994)
Secondo Suardi (1993), la spiegazione di questa differenza tra quadro anatomo-
fisiologico e capacità funzionale sta nel fatto che, invecchiando, non si attivano
esclusivamente processi di perdita, ma anche di riparazione e costruzione di nuovi
equilibri, processi forse maggiormente presenti nella donna a causa delle differenze
nello stile di vita. Come evidenziato da Gamba (2003), negli anni Sessanta tali
differenze furono attribuite ad una minore esposizione a situazioni di stress negativo,
responsabile soprattutto della più alta incidenza di malattie cardiovascolari negli
uomini rispetto alle donne. Successivamente furono chiamati in causa gli ormoni
femminili come fattore di protezione e, a più riprese tra gli anni Sessanta e Novanta,
la teoria genetica, fino a comprendere che, in parte considerevole, l‟ineguale
longevità potrebbe essere legata a quelle caratteristiche proprie dell‟identità
femminile di cui già la psicoanalisi, a partire dalle teorizzazioni di Freud, si era
occupata.
Sono, ad esempio, il diverso modo di relazionarsi che ha sempre previsto il reciproco
sostegno, la maggiore consuetudine ai cambiamenti, anche fisiologici, la pluralità dei
ruoli che la donna assolve rispetto all‟uomo (professionali, domestici, affettivi,
materni) che sembrano preparala a gestire la realtà con maggiore flessibilità e
globalità rispetto ai maschi, anche nel periodo della vecchiaia. (Fonzi, 2005)
Trovare quindi le risposte al perché di questa massiccia presenza di vecchiaia
femminile può costituire un problema attuale, anche in un‟ottica di progettazione di
interventi psicologici volti al miglioramento delle condizioni psicofisiche
dell‟anziano di entrambi i sessi. Se, infatti, non si può sottovalutare il peso delle
perdite di varia natura che egli subisce, non si possono escludere le possibilità di
compensazione esistenti che, soprattutto la donna, sembra possedere e poter
insegnare per invecchiare meglio.
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2. UN INQUADRAMENTO INIZIALE
2.1 L‟INVECCHIAMENTO COME TRASFORMAZIONE: PERDITE E
COMPENSAZIONI:
Per ricercare i molteplici fattori che potrebbero spiegare la moderna esplosione della
longevità femminile, è necessario fare riferimento all‟odierna visione
dell‟invecchiamento come trasformazione che coinvolge l‟organismo in ogni tempo,
riferendosi non solo ai cambiamenti associati alla perdita, ma anche all‟acquisizione
di funzioni.
In particolare, i cambiamenti connessi all‟invecchiamento primario, che avviene
inevitabilmente in tutta la popolazione e comporta irreversibili modificazioni
biologiche, cognitive e affettive, riguardano soprattutto il sistema nervoso, quelli
cardiovascolare, respiratorio, endocrino, scheletrico e muscolare, digestivo, urinario
e genitale. (Baroni, 2003)
A livello cardiaco si verifica una minore efficienza nel riportare il battito a livelli
normali dopo uno sforzo, diminuisce il volume del sangue pompato, i vasi sanguigni
diventano meno elastici e la capacità aerobica, cioè l‟abilità di bruciare ossigeno
sotto sforzo, diminuisce del 10% ogni dieci anni nell‟uomo e del 7,5% nelle donne.
Le vie urinarie diventano gradualmente meno efficienti nel filtrare le scorie dal
sangue, la vescica diminuisce la sua capacità e l‟atrofia dei tessuti può condurre
all‟incontinenza urinaria. Inoltre, dopo i 20 anni il sistema respiratorio diventa meno
efficiente (il massimo volume d‟aria inspirato diminuisce del 40% dai 10 ai 70 anni)
e, dopo i 30 anni, si ha una diminuzione della massa muscolare e ossea (in assenza di
esercizio costante, nell‟arco di tempo dai 30 ai 70 anni essa diminuisce del 22% nelle
donne e del 23% negli uomini), il metabolismo rallenta e diventa più difficile
l‟assorbimento di alcune sostanze. La pelle diviene poi più secca e meno elastica,
capelli e denti cadono, il sistema immunitario e sensoriale manifestano un calo di
funzionamento (viene meno la capacità di percepire i suoni di frequenza più elevata
e, con l‟età, l‟atrofia dei muscoli del cristallino rende difficoltosa la messa a fuoco
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degli oggetti vicini, diviene più difficile distinguere correttamente quelli in
movimento e vedere con precisione in cattive condizioni di luce).
Per quanto riguarda il cervello, a cominciare dai 30 anni diminuisce leggermente di
volume, mentre la perdita neuronale inizia alla nascita e prosegue in modo
progressivo (fino a 100.000 neuroni al giorno dopo i 70 anni). Tale processo prende
il nome di apoptosi, cioè “morte cellulare geneticamente programmata”,
caratterizzata dalla frammentazione del DNA. Con questo meccanismo il nostro
organismo va incontro, con il passare degli anni, ad una progressiva riduzione del
peso e della qualità degli organi, tra cui il cervello, che dai 30 ai 75 anni arriva a
perdere fino al 10% del suo peso e fino al 20% del suo rifornimento di sangue. A
partire dall‟età adulta inoltre le sinapsi si formano ad un ritmo più lento, in quanto il
metabolismo delle proteine di cui sono costituite è rallentato: gli anziani hanno
perciò bisogno di maggior tempo per apprendere nuovi concetti.
Tuttavia, si è scoperto come questi fenomeni vengano compensati dallo sviluppo di
assoni e dendriti che hanno la funzione di condurre gli impulsi nervosi. Inoltre, per
contrastare tali perdite, il cervello dispone di un‟elevata quantità di neuroni, di molto
superiore alla quantità necessaria per svolgere le normali funzioni di sopravvivenza:
questa caratteristica prende il nome di “ridondanza”; man mano cioè che le cellule
muoiono, altre si attivano e prendono il loro posto, salvaguardando le facoltà mentali.
Oltre a questa qualità, il cervello gode anche di “plasticità”, infatti, pur essendoci
aree cerebrali destinate a particolari funzioni (come la memoria, la comprensione,
l‟articolazione della parola, …), è possibile che alcuni neuroni, inizialmente non
specializzati, si qualifichino. (Baroni, 2003; sito SIGG)
Di conseguenza, se le modificazioni cerebrali connesse all‟invecchiamento sono
imputabili ad una diminuzione delle connessioni neuronali, l‟unica strategia per
arginare il fenomeno, producendone di nuove, consisterebbe nel continuare a
stimolare il cervello. Le neuroscienze hanno infatti evidenziato come esso sia un
organo plastico che possiede la capacità di rimodellarsi a patto che, anziché adagiarsi
in attività di routine, si affrontino anche compiti e mete nuovi. (Fonzi, 2006) Ad
esempio la Diamond (1985), del dipartimento di fisiologia e anatomia di Berkeley,
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studiò dei ratti in condizioni di stimolazione variabile: alcuni furono posti in
isolamento in piccole gabbie spoglie, altri in gabbie più grandi in cui trovavano posto
dodici ratti, molti oggetti e labirinti da esplorare. Dopo un periodo variabile tra i 26 e
i 105 giorni, verificò che quelli cresciuti in un ambiente più ricco vivevano più a
lungo e presentavano un aumento del numero di dendriti a contrastare la normale
contrazione cerebrale (che si verifica verso i 26-41 giorni, dopo il raggiungimento
della maturità sessuale). In seguito, ponendo dei ratti che avevano passato tutta la
vita in gabbie vuote in altre più ampie e ricche di oggetti stimolanti, la Diamond
evidenziò come i loro cervelli inizialmente deprivati avessero sviluppato, anche in
tarda età (a 766 giorni su 1000 di vita media), nuovi dendriti.
Secondo Schaie (1974), l‟apprendimento è quindi possibile lungo tutto l‟arco della
vita: si è verificato che, in assenza di affezioni organiche, “l‟intelligenza tende a
mantenersi su livelli stabili per tutto il corso della vita, mentre solo nella fase
terminale esiste un grave calo”. (Scoppola, 2008, p. 185)
Da alcune ricerche empiriche è inoltre emerso come vi sia un declino differenziale
delle diverse abilità che la costituiscono: Horn e Cattel (1966-1967) proposero la
differenziazione tra intelligenza fluida (cioè la capacità di risolvere un problema
nuovo, impiegata nelle operazioni rapide di trattamento delle informazioni e sensibile
all‟invecchiamento) e quella cristallizzata (legata a processi culturali e sociali,
all‟esperienza, e relativamente stabile nel tempo). Attenzione, concentrazione e
working memory (la cui funzione è rendere disponibili le informazioni) dipendono
dall‟intelligenza fluida e, come si è verificato tramite prove di classificazione,
analogie astratte e completamento di serie, declinano con l‟età; la capacità di giudizio
e quella di applicare esperienze anteriori alle situazioni nuove, misurate tramite test
di ricchezza lessicale, comprensione verbale, informazione generale, dipendono
invece dall‟intelligenza cristallizzata e possono aumentare. Denney (1982) stabilì
però un‟ulteriore differenziazione tra abilità poco esercitate e abilità ottimizzate (cioè
mantenute in esercizio): mentre nelle prime è forte l‟influenza biologica e ambientale
che conduce al peggioramento, le seconde possono continuare ad essere esercitate ad
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un buon livello, dipendente anche dall‟istruzione, dallo stile di vita e dal ruolo
professionale passato. (Baroni, 2003)
2.2 LA MUTATA CONCEZIONE DELL‟INVECCHIAMENTO COME
PROCESSO MULTIFATTORIALE DI SVILUPPO:
Sulla base di queste considerazioni, appare quindi possibile oggi sovvertire lo
stereotipo che, fin dall‟antichità, era radicato nella concezione dell‟invecchiamento.
Ippocrate, ad esempio, fu il primo a paragonarlo all‟inverno: a suo parere era il
risultato della rottura dell‟equilibrio degli umori e iniziava a 56 anni. Secondo
Aristotele invece (che assimilava la senescenza ad un raffreddamento) e Isidoro di
Siviglia, l‟uomo progrediva fino a 50 anni, mentre, per Galeno, durante la vecchiaia
tutte le funzioni fisiologiche si riducevano, nonostante essa non coincidesse
esattamente con uno stato patologico (come al contrario ritenevano Terenzio e
Bacone). In seguito, razionalismo e meccanicismo portarono con sé l‟idea che il
corpo fosse una macchina e che in vecchiaia l‟organismo si consumasse come un
meccanismo che ha funzionato per lungo tempo. (Beauvoir, 1971)
Anche nella rappresentazione che gli psicologi davano dello sviluppo delle capacità
psichiche era usuale il riferimento ad una curva, sulla base dell‟idea che la crescita di
abilità e funzioni psichiche si avesse dalla nascita sin verso i 20 anni e, dopo un
periodo di stabilità, vi fosse un inarrestabile declino durante la vecchiaia. (Petter,
2003)
Soltanto negli ultimi anni i gerontologi hanno ammesso che tali assunti si basavano
sul preconcetto della potenza sessuale maschile che declina con l‟età e su studi
connessi all‟invecchiamento patologico: abbandonate le curve dell‟intelligenza e
della forza misurate su pazienti maschi isolati negli ospizi, l‟invecchiamento normale
è apparso come un processo involutivo che, però, mantiene una capacità plastica per
attuare positivi compensi alle perdite subite dall‟organismo. Ad esempio, da uno
studio condotto in sedici campi del sapere, Simonton (1990) rilevò come intellettuali
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ultrasettantenni producessero dall‟84 al 90% rispetto a quando erano nel pieno delle
loro capacità: si può pensare che in vecchiaia si integri l‟esperienza in una visione
olistica, creativa e in forme di ragionamento ignorate dai test psicologici tradizionali,
tarati su qualità caratteristiche della giovinezza o dell‟età adulta. (Friedan, 1994)
L‟ipotesi è che vi sia uno sviluppo intellettivo che non termina, secondo la teoria di
Piaget, con l‟avvento del pensiero formale in adolescenza: oltre vi può essere uno
stadio post-formale “in cui i principi di causalità, di consequenzialità, di separabilità
delle variabili non sono più rigidamente stabiliti, ma possono essere superati da un
pensiero fluido, capace di giungere a soluzioni adottando strategie non canoniche”.
(Fonzi, 2006, p. 29-30)
Di conseguenza, un approccio moderno più realistico è quello della psicologia del
ciclo di vita, cioè la prospettiva life-span di Baltes, Reese e Lipsitt (1980). Essa
ritiene che lo sviluppo sia un processo che, con successivi adattamenti, dura tutta la
vita, con apprendimento di nuove competenze e accrescimento delle esperienze.
Ogni età è caratterizzata da diverse acquisizioni, motivazioni, influenze sociali e
obiettivi di realizzazione personale. Lo sviluppo, secondo questa teoria, riguarda
inoltre le funzioni in modo differenziato ed è riconosciuta, all‟interno dell‟individuo,
la possibilità di adattare le proprie risorse all‟ambiente esterno che, assieme agli
eventi storici e di vita, può condizionare lo sviluppo. Nonostante i cambiamenti e le
influenze esterne, in questo approccio si sottolinea la continuità dell‟identità
personale: le differenze individuali acquistano un ruolo centrale, rendendo
impossibile definire l‟invecchiamento con processi generalizzabili, tanto che, nel
1985, il National Institute on Aging, riassumendo degli studi longitudinali sulla
vecchiaia, asserì che “l‟invecchiamento è così prettamente individuale che le curve di
media danno solo una rozza approssimazione degli schemi d‟invecchiamento seguiti
dagli individui. Ci sono poche prove dell‟esistenza di un fattore singolo che regoli
l‟indice di invecchiamento delle diverse funzioni in un individuo specifico.”. (Greer,
1992, p. 132)
Considerando infatti l‟ampia discrepanza fra prestazioni di soggetti della stessa età
cronologica, sembra non si possano predire le prestazioni future solo in base all‟età:
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secondo la prospettiva life-span, dove lo sviluppo è influenzato da cause sia
biologiche sia ambientali, è necessaria una distinzione tra età biologica, psicologica e
sociale, tenendo conto che l‟invecchiamento in queste tre aree non è necessariamente
sincronizzato. (Baroni, 2003)
Inoltre, alcuni disturbi considerati normali nella nostra società e intrinseci all‟età, si
sono rivelati solo nei ricchi paesi industrializzati e non nelle società pastorali e
agricole: pertanto, il deterioramento di varie capacità con l‟età si è dimostrato non
universale e prevedibile, come sarebbe se fosse biologicamente programmato, ma
imputabile ad altri fattori, per esempio il differente livello di istruzione, e può quindi
essere prevenuto. Dopo i 60 anni, infatti, le capacità degli individui e il loro
deterioramento sembrano dipendere dall‟ambiente in cui vivono, dai cambiamenti
che avvengono nella società e dalle scelte individuali che contano sempre di più con
il passare degli anni, una volta liberati dal peso dei ruoli sessuali, lavorativi e
familiari. (Friedan, 1994)
2.3 LA COSTRUZIONE DELLA VECCHIAIA:
Se si adottano tali visioni dell‟anzianità, si comprende come l‟individuo sia sempre
frutto, oltre che degli influssi biologici e ambientali, di ciò che è stato: fin dall‟inizio
della vita ci si prepara alla vecchiaia, che in particolare sembra essere influenzata
dagli anni della maturità e dalle prime vicende dello sviluppo.
Riguardo quest‟ultimo punto, si ipotizza oggi che l‟invecchiamento riproponga il
processo di separazione-individuazione che, introdotto dalla Mahler come emersione
dalla fusione simbiotica con la madre, dura tutta la vita: accanto alla seconda
individuazione adolescenziale e alla terza che avviene tra i 20 e i 40 anni, se ne può
riscontrare una quarta tra i 40 e i 60 anni e una quinta dai 60 anni in poi. In
particolare, durante la quarta individuazione si ha la perdita della giovinezza e la
separazione dalle rappresentazioni del corpo adolescenziale, durante la quinta ci si
avvicina all‟idea di essere lasciato e di dover lasciare. Differenziatosi infatti come
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oggetto separato e ormai capace di instaurare una relazione tra individui, il soggetto
diviene consapevole della propria temporalità e anticipa l‟idea della propria morte.
Egli deve, di conseguenza, procedere alla separazione dagli aspetti giovanili del Sé,
dall‟immagine psichica di un corpo integro e acconsentire al passaggio dall‟essere
lasciato (dai figli che crescono e dai genitori che muoiono, tipico della fase
precedente) al lasciare: è il ciclo della perdita di aspetti di sé e degli altri, del lutto e
del formare nuovi legami a divenire importante durante la quinta individuazione.
(Minervini, 2008)
Tale processo dipende però dalla presenza di un Io abbastanza forte e in grado di
adattarsi, di rispondere ai conflitti tramite meccanismi di difesa efficaci, di elaborare
i quasi quotidiani, soprattutto in vecchiaia, microlutti per il Sé. A sua volta, secondo
la teoria dell‟attaccamento, la solidità dell‟Io deriva dal modo in cui sono state
elaborate le vicende nei primi stadi di vita, in particolare per quanto riguarda le
esperienze di perdita, separazione e attaccamento. Se è stato interiorizzato un legame
positivo con le figure primarie di riferimento il riflesso che il soggetto avrà di sé e
del mondo sarà altrettanto positivo; al contrario bassa autostima, insicurezza,
pessimismo, dipendenza, senso di sé diffuso, ansia, rigidità e stile negativo di
interpretazione delle esperienze interiorizzati nell‟infanzia possono scatenare
reazioni depressive davanti ai cambiamenti della vita, sentiti come perdita di aspetti
dell‟identità. (Bowlby, 1969-1980) Di qui l‟ipotesi che la longevità femminile sia
influenzata dalle peculiari modalità di strutturazione dell‟identità e da un diverso
percorso di sviluppo della donna che verranno approfonditi in seguito.
Riguardo poi la preparazione alla vecchiaia, più teorie sottolineano la necessità di
adeguarsi all‟andamento naturale dell‟esistenza e di cogliere le possibilità di quello
che, a prima vista, sembra configurarsi esclusivamente come un declino.
In particolare, negli anni Novanta è stata formulata una teoria denominata SOC
(ottimizzazione selettiva con compensazione) secondo la quale lo sviluppo è
caratterizzato dalla possibilità di massimizzare guadagni, obiettivi e risultati
desiderati e di minimizzare le perdite, dove per “selezione” si intende la scelta e
l‟identificazione di obiettivi consoni, sulla base di risorse e potenzialità sia soggettive
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che esterne; per “ottimizzazione” si intende l‟affinamento e il mantenimento delle
risorse utili per raggiungere gli obiettivi desiderati ed evitare quelli indesiderati; la
“compensazione” è un processo di risposta ad una perdita attraverso la modificazione
degli obiettivi e l‟individuazione di nuove strategie per il raggiungimento dello stesso
risultato. (Chattat, 2004)
E‟ evidente come tale teoria sottolinei l‟importanza di adattarsi alle perdite, di
preservare le capacità possedute, di utilizzare al meglio le risorse per raggiungere
obiettivi adeguati, al fine di non precipitare nel dramma del vecchio che non può più
ciò che vuole. Affinché questo avvenga, appare tuttavia necessario un riorientamento
di sé che richiede una trasformazione del modo con cui si guarda la realtà, oltre che il
soggetto si dia il permesso di cambiare: per uscire dalla crisi di identità, dovuta
all‟involuzione delle strutture biologiche e al cambiamento di ruolo nella società, più
autori sottolineano come sia fondamentale aderire a quella nuova immagine di se
stessi che deve essere preparata lungo tutto l‟arco della vita.
Per la Baldaro Verde (1987, pp. 268-269), ad esempio, la vecchiaia richiede
l‟ultima ristrutturazione della propria identità: essa “può essere paragonata ad un
arco, che si costruisce con tante pietre, e ogni pietra è ugualmente necessaria per
formare un ponte”. L‟identità è quindi “polimorfa e la maturità dovrebbe permettere
di mettere insieme i vari pezzi, le varie capacità, i diversi ruoli, integrandoli” senza
che nessuno diventi fisso. Anche secondo Erikson (1978; 1981; 1986) l‟integrità
nella vecchiaia dipende dal precedente corso della vita i cui stadi non sono
nettamente separati, e poiché il Sé è il risultato di tutte le esperienze vissute, solo
l‟accettazione del passato può salvare dalla disperazione. Ogni stadio della vita ha
infatti un suo dovere da compiere: nella mezza età la generatività contro la
stagnazione, nella vecchiaia saggezza e integrità contro la disperazione. E‟ in
quest‟ultimo periodo della vita che ogni passaggio precedente deve venir ricapitolato
nella saggezza dell‟età avanzata, che l‟individuo deve giungere alla comprensione e
all‟accettazione della propria esistenza in quanto prodotto delle sue scelte e del suo
lavoro: se ciò non avviene con successo l‟anziano rischia di incorrere nel
ripiegamento su se stesso (inteso come arma rivolta ad un presente poco gratificante),