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1.1 Un’idea di cultura e scuola
Per quanto il fine della educazione scolastica sia unico, o, per meglio dire, unitario -
formazione della personalità umana nella sua integralità e nella sua dimensione
individuale e sociale - esso tuttavia non può essere pura forma, ma deve concretizzarsi
in un contenuto, o in una serie di contenuti che si riuniscono nel concetto generale di
cultura.
Questi contenuti assumono anche forme proprie e specifiche in rapporto alla situazione
storico-sociale nella quale l’educando si trova a vivere.
Una educazione meramente «formale», in senso proprio potrebbe infatti significare una
potenziale indifferenza rispetto ai contenuti, non solo, ma addirittura come capacità che
di fatto non si definisce come una attuale capacità verso qualche cosa. La conseguenza
sarebbe una scuola che, rivolta ad un futuro più o meno misterioso o indecifrabile, si
esaurirebbe in una capacità che non è capace di nulla, perché non contiene nulla.
Se l’educazione allora, non è puro esercizio formale ma aiuto, stimolo, guida
all’educando perché si appropri attivamente di qualche cosa, il discorso allora verte
sulla cultura come contenuto della educazione.
A proposito del termine di cultura, è necessario precisarne il concetto, o i concetti, cui
essa si riferisce. Nel suo significato etimologico, il termine si rifà al latino colere, ed
indicava originariamente la cura e l’educazione delle capacità dell’uomo, e della sua
possibilità di innalzarsi al di sopra del semplice stato di natura. In questo senso furono
anche usati, come sinonimi, i termini di humanitas, di civitas, per indicare, appunto,
l’esercizio delle facoltà spirituali, allo scopo di metterle in condizione di dare i frutti più
abbondanti e migliori consentiti dalla costituzione dell’uomo.
In una seconda accezione, il termine cultura è venuto a sostanziarsi per indicare non
l’operazione, ma i mezzi con cui si attua la «coltivazione», ovvero anche l’ambiente in
cui si svolge l’operazione. In questo senso, da un significato soggettivo, il termine
cultura ha acquistato una significazione oggettiva.
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Ai nostri giorni, poi, con il sorgere e lo svilupparsi delle scienze antropologiche, il
concetto di cultura si è andato ulteriormente specificando anche come civiltà (pero
intesa questa come «cultura progredita»), e cioè quell’insieme complesso che include la
conoscenza, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine
acquisita dall’uomo come membro di una società, e che, come tale, non è trasmissibile
biologicamente, ma è acquisita come «eredità sociale». Ancora come dice il
Malinowski, «la cultura comprende gli antefatti, i beni, i processi tecnici, le idee, le
abitudini e i valori che vengono trasmessi socialmente». In sostanza quindi, il termine
cultura, appare sia nel suo significato soggettivo di cura -coltivazione dello sviluppo
dell’individuo, sia nel suo significato oggettivo antropologico come ambiente sociale,
come contesto «significativo» nel quale l’individuo vive (usi, costumi, consuetudini,
linguaggio, ma anche credenze, beni, valori, ecc.) (F.V. Lombardi,1995).
La cultura ha un preciso senso in educazione; in quanto l’educazione è «segno» della
cultura di un gruppo e rappresenta uno degli strumenti fondamentali per la trasmissione
culturale.
La cultura, appare ancora il modo attraverso il quale l’educazione si realizza, e questo
non già come accumulo di sapere, ma per quella trasformazione profonda che opera nel
soggetto, per la «umanizzazione» che opera in lui. La cultura genera una trasformazione
profonda del soggetto che lo rende disponibile a molte possibilità attraverso molti
richiami interiori. In sostanza, quindi, il rapporto educazione-cultura, non ha il solo
significato di una presa di coscienza del dato culturale, ma anche di una sua ri-creazione
(creazione di nuovo) alla luce della esperienza personale.
Se ci si mette da questo punto di vista, tipicamente umano, si deve tener presente che le
varie «parti» della civiltà umana costituiscono un tutto unico, a1 cui centro vi è l’uomo
nella interezza del suo essere e del suo valore.
Ancora la cultura come possesso da parte dell’uomo, non significa, «sapere qualche
cosa di tutto» e neppure «sapere tutto di una cosa» (i1 che, del resto sarebbe anche
impossibile, oggi soprattutto in cui il campo del sapere si va sempre più allargando, e
sorgono continuamente nuove discipline, mentre 1e vecchie subiscono continuamente
sempre nuove suddivisioni e specificazioni).
Il problema del possesso della cultura non è soltanto un problema di «quantità», ma è un
problema di «qualità»: non è colto colui che possiede un certo numero di cognizioni, ma
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è invece colto colui che si è andato formando nella mente una profonda attitudine allo
studio. Tale studio è fondato su alcune idee centrali e corroborate da una tecnica
adeguata, tale da mettere in grado l’individuo di saper esprimere su di una questione, su
di un fatto, un giudizio ed una valutazione personale: giungendo ad affermare che è
colto colui che in ogni circostanza sa convenientemente usare il proprio strumento
“testa”. (F.V. Lombardi, 1995)
Detto ciò si riconosce che ogni società, ogni cultura esige ed esprime una propria scuola
che assuma caratteri propri e specifici del tempo. Il carattere proprio e specifico della
scuola di oggi è quello di dover essere scuola per tutti con la necessità che essa non solo
debba impostare i propri insegnamenti in modo scientifico, tecnologico, preparando a
vivere in questo mondo della tecnica e della produzione, ma piuttosto debba insegnare a
vivere umanamente in tutte e ciascuna delle strutture della vita associata.
Il suo compito è il rinnovamento della società, l’invenzione e la promozione di nuove
forme umane e più giuste della convivenza e della cooperazione per il bene comune
(P.Prini, 1969).
Da qui la scuola, istituzione culturale, deve trasformarsi in un insieme di strutture
dinamiche, le quali coinvolgendo a vario titolo un insieme di persone, tendano a far di
queste un organismo le cui componenti interagiscono fra loro a scopo e con finalità
culturali ed educative.
A questo punto è bene enucleare e aggiungere delle descrizioni che mi aiutano ad
entrare nel cuore dell’argomento del presente lavoro di tesi. Descrivendo sinteticamente
i termini pedagogia, educazione, formazione ed istruzione.
Gli studi psicologici, quindi, sono strettamente connessi agli studi pedagogici.
Il termine ‘pedagogia’ ha origini molto antiche, si fa risalire ai greci (παιδαγογια, da
παιδος (paidos) ‘il bambino’ e αγω ‘guidare, condurre, accompagnare’) e letteralmente
significa ‘accompagnare il bambino’. Essa, però, non si occupa esclusivamente dei
bambini e dell'infanzia, ma anche di adolescenti, giovani, adulti, anziani e disabili, vale
a dire dunque anche delle altre fasi della vita. È una disciplina che studia le teorie, i
metodi ed i problemi relativi all’educazione e alla formazione della personalità
dell’individuo; si occupa, inoltre, di sviluppare nel migliore dei modi il potenziale
umano, cognitivo e creativo del bambino e dell'adulto.
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L’educazione è l’insieme dei processi e degli strumenti attraverso cui una società
trasmette da una generazione all'altra il patrimonio di conoscenze, valori, tradizioni,
comportamenti che la caratterizzano. Essa può essere considerata come un’azione che
tende a sviluppare ciò che nell'uomo è già costituito, ma anche come un intervento
inteso ad attualizzare le potenzialità native dell'individuo, adattandole concretamente ai
modelli socio-culturali dell'ambiente sociale in cui esso vive; si tratta, in definitiva, di
un processo volto a promuovere concretamente la realizzazione dell'individuo in modo
completo e armonico.
È necessario effettuare una distinzione tra i seguenti termini: ‘educazione’, ‘formazione’
ed ‘istruzione’. Il pedagogista Massa afferma che il termine ‘formazione’ inglobi quello
di ‘educazione’, il quale designa il processo di strutturazione complessiva della
personalità; mentre il termine ‘istruzione’ sta ad indicare il processo di acquisizione di
nozioni, conoscenze e competenze nonché di tratti comportamentali, cognitivi ed
affettivi (Avalle, Maranzana, 1997).
Attraverso il processo di “formazione”, l’insegnante riesce ad andare oltre le semplici
nozioni teoriche e l’argomento specifico delle lezioni, permettendo così all’alunno di
formarsi: il processo di formazione consiste nel far diventare l’alunno libero di scegliere
in modo autonomo e responsabile. L’educazione, quindi, prevede un’interazione diadica
tra un educatore ed un educando: l’educatore deve adeguarsi e quindi adattare il suo
intervento educativo al livello dell’educando, comprendendo i suoi bisogni ed
incentivando le sue competenze.
La scuola e la famiglia sono riconosciute come le principali agenzie deputate all'azione
educativa presenti in una società. Pertanto sia i genitori quanto gli insegnanti hanno
come fulcro del loro ruolo educativo la promozione dello sviluppo dei figli e degli
studenti, l’indirizzare tale sviluppo verso la formazione di soggetti adulti integrati e
attivi nel contesto sociale di riferimento, scegliendo in maniera consapevole i metodi
con cui realizzare il suddetto.
L'individuazione degli obiettivi e dei metodi educativi è precisa e sistematica soprattutto
nel caso della scuola; fondamentale importanza assume quindi la ‘Didattica’, definita
come una scienza dell’educazione che individua i contenuti e gli obiettivi
dell’insegnamento, il metodo ed il percorso che permette all’istituzione educativa di
veicolare il processo insegnamento/apprendimento verso le finalità stabilite. Non basta,
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infatti, avere un alto livello di conoscenza di contenuti culturali per essere un buon
insegnante: l’abilità di un docente riguarda anche il come insegnarli e questo dipende da
differenti fattori, quali il livello scolastico, l’età degli allievi, le situazioni che nel
concreto vengono a verificarsi. Per molto tempo si è ritenuto che il successo scolastico
dipendesse, quasi esclusivamente, dalle capacità dell’allievo; in seguito si è dimostrato
che l’insegnamento non è efficace di per sé, ma lo diventa soltanto se lo studente
apprende in maniera significativa e questo è possibile solo se vi è una buona azione
didattica. Per poter mettere in pratica delle strategie didattiche idonee e pertinenti,
l’insegnante non deve prescindere dalla conoscenza della materia da insegnare, dei fini
da raggiungere, degli aspetti psico-sociali dell’alunno, del metodo didattico e delle
metodologie più idonee alla situazione che si presenta.
Il primo pedagogista a parlare di didattica fu Comenio affermando che, per rendere la
scuola adatta al suo compito, bisognava un’arte dell’insegnamento valida per insegnare
tutto a tutti nel modo più breve e piacevole possibile nel rispetto dei diversi interessi e
delle varie fasi di età (Avalle, Maranzana, 1997).
Novità nel campo della didattica possono essere ricondotte al pedagogista Rousseau, il
quale sosteneva che il discente doveva essere lasciato libero di sperimentare, rispettando
le fasi dello sviluppo biologico intervenendo il meno possibile, in quanto l’intervento
dell’adulto potrebbe sovrapporsi alle effettive esigenze fisiche e psicologiche del
bambino. Rousseau può, infatti, essere considerato come uno dei padri dell’attivismo
pedagogico; era convinto, infatti, che l’apprendimento consiste nell’imparare facendo:
gli alunni devono arrivare a comprendere i propri limiti in maniera naturale, riflettendo
sulle conseguenze delle proprie azioni (Avalle, Maranzana, 1997).
Sulla stessa linea di Rousseau, si colloca il pedagogista Pestalozzi. Questi ritiene che
l’educazione è un processo che deve seguire la natura umana in virtù della quale l’uomo
è buono e va assistito nel suo processo di sviluppo. Pestalozzi sostiene inoltre che nel
processo di insegnamento è necessario partire sempre dall’intuizione, dal contatto
diretto con le cose nel proprio ambiente, affinché si realizzi un apprendimento efficace
per giungere alla conoscenza dell’umanità e del mondo circostante (Cambi, 2003).
Un’importante svolta si ebbe nella prima metà del Novecento con l’Attivismo
pedagogico. Questo movimento ha avuto un forte influsso nelle pratiche quotidiane
dell’educazione, soprattutto a scuola, apportando una rivoluzione nel campo della
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stessa. L’attenzione, adesso, non si pone soltanto all’insegnamento ma anche e
soprattutto all’allievo che apprende ed alla sua centralità, tenendo conto dei suoi bisogni
e delle sue capacità; il fare deve precedere il conoscere: l’apprendimento pone, infatti, al
centro l’ambiente, perché è proprio da questo che l’alunno riceve stimoli
all’apprendimento, e non il sapere codificato. Uno dei temi caratterizzanti l’Attivismo
riguarda proprio l’attività del bambino; egli è spontaneamente attivo e necessita, quindi,
di essere liberato dai vincoli dell’educazione scolastica e familiare permettendogli
dunque una libera espressione delle sue inclinazioni. L’apprendimento deve avvenire a
contatto con l’ambiente esterno favorendo anche la manipolazione in modo tale che il
bambino possa integrare l’attività intellettuale con quella pratica, senza dunque mai
separare conoscenza ed azione (Cambi, 2003).
Due dei principali esponenti dell’Attivismo furono Dewey negli Stati Uniti e Maria
Montessori in Italia.
John Dewey fu uno dei fondatori del suddetto movimento. Egli sostiene che tra teoria e
pratica vi sia una continua interazione, pertanto considera l’educazione come non come
un sistema statico ma come un processo elastico, dinamico che si arricchisce grazie
all’esperienza e sulla quale interviene modificandola. Dewey propone la centralità
dell'attività del fanciullo che guidato dall'insegnante apprende, attraverso il fare, un
programma che tiene presenti gli interessi, i bisogni e lo sviluppo fisico e psicologico
dell'alunno.
Per raggiungere le proprie finalità, la scuola non solo deve fungere da mediatore tra il
soggetto e la società, ma è necessario che operi in una realtà democratica che focalizza
l’attenzione sui valori dell’individuo, sul confronto e sulla socializzazione degli
interessi, che sia caratterizzata dall’assenza di gerarchie e senza distinzioni tra
dominanti e dominati, tra lavoro manuale ed intellettuale. L’istruzione è un processo
sociale e la scuola è fulcro di questo processo; fondamentale importanza assume dunque
il ruolo dell’insegnante nella promozione della democrazia nella scuola e in tutti gli
aspetti della vita sociale. In particolare, l’insegnante deve porre il bambino in delle
situazioni problematiche per favorire la maturazione intellettuale e sviluppare la sua
capacità di pensiero. I programmi, inoltre, vanno concepiti in modo da facilitare lo
sviluppo autonomo del pensiero e della coscienza e da offrire all'alunno quelle
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conoscenze, informazioni, abilità indispensabili per interpretare e muoversi nella società
contemporanea in cui vive e agisce (Avalle, Maranzana, 1997).
Maria Montessori cercò di dare una veste scientifica alla pedagogia, occupandosi
innanzitutto dello studio scientifico dell’infanzia. Ella sosteneva che occorre esplorare
ed indagare i processi di maturazioni dei bambini per comprendere veramente quali
sono i meccanismi di apprendimento e socializzazione che li caratterizzano, senza la
pretesa da parte degli educatori di imporre determinati metodi e di dettare ricette.
Ritiene che i bambini hanno diritto ad essere tutelati nel processo di educazione e di
crescita secondo ciò che è loro proprio, denunciando il fatto che spesso si tende ad
analizzare l’infanzia attraverso gli occhi di un adulto, che rappresenterebbe invece lo
stadio di sviluppo a cui si dovrebbe aspirare e non quello dal quale partire; è necessario,
pertanto, avviare una svolta radicale cercando di creare per il bambino un ambiente che
lo aiuti nel processo di una crescita libera e armonica. Principio cardine del metodo
montessoriano è l’assunto che la vera educazione è autoeducazione: la pedagogia, il
metodo, l'insegnante, l'istituzione scolastica sono tutti mezzi ausiliari per la
realizzazione dell’io interiore, strumenti che devono aiutare il bambino a servirsi delle
sue risorse per esprimersi e svilupparsi. Necessaria dunque è la predisposizione di un
ambiente idoneo; la Montessori crea, infatti, la ‘Casa dei bambini’, un contesto
scolastico in cui gli spazi sono su misura delle esigenze formative dei piccoli: l'aula è
una “sala di lavoro”, arredata con gusto per poterci vivere in modo piacevole, con
materiali (sedie, tavoli, scaffali, armadi ecc.) proporzionati alle dimensioni fisiche dei
bambini e facilmente utilizzabili da loro per permettergli di muoversi autonomamente
ed in tranquillità, senza il continuo intervento degli adulti. L'insegnante assume il ruolo
di mediatore, è colui che consiglia, aiuta, stimola evitando anche i tradizionali premi e
castighi; una figura sulla quale in bambino può contare nei momenti di difficoltà.
In questo nuovo ambiente, costruito a misura di bambino, assume una funzione centrale
il materiale didattico, detto anche di ‘sviluppo’, costituito da materiale scientifico e
strutturato, cioè appositamente progettato e costruito per sviluppare con gradualità e
progressività le competenze specifiche e per permettere al soggetto di regolarsi ed
esprimersi secondo i propri stimoli e le proprie capacità; deve trattarsi dunque di un
materiale che susciti il loro interesse. Il fine generale dell'educazione, la regola centrale
del metodo stanno nella difesa della libertà del bambino, nello sviluppo delle sue
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esperienze, evitando che l'adulto imponga i suoi interessi e i propri modi di apprendere e
di ragionare.
Il modo di valutare l’alunno dipende in primo luogo dall’idea che si ha dell’uomo e
della sua educazione. Quando i pedagogisti affermano che l’essere umano è una persona
intendono sottolineare che non è semplicemente un organismo che reagisce agli stimoli
dell’ambiente, ma un essere attivo che si interroga, osserva, modifica l’ambiente in cui
vive e si lascia modificare da esso: un essere che è principio delle proprie azioni e che e
naturalmente aperto alle relazioni. Nel concetto di persona sono racchiuse le due
dimensioni individuale e sociale dell’essere umano, da considerare sempre insieme;
mentre invece quando si pone esclusivamente l’accento solo su una di esse si finisce
inevitabilmente nel riduzionismo pedagogico, nei suoi due estremi dell’individualismo
o del collettivismo. In ambito pedagogico la personalizzazione si riferisce all’ attività
educativa finalizzata alla valorizzazione di ogni persona concreta con le sue
caratteristiche peculiari, con la sua originalità, con il suo bisogno fondamentale di
comunicazione e di condivisione. Il termine “personalizzazione” si comprende meglio
se si considera il suo contrario, la “spersonalizzazione”. Chi spersonalizza solitamente
preferisce usare il termine “individuo” al posto di “persona”, per indicare solitamente
qualcuno che è immerso in una massa indifferenziata e confusa, senza un volto preciso e
ben definito; una massa che viene a volte denominata “il collettivo”, e non certamente
“la comunità”, perché gli “individui” hanno ben poco da mettere in comune; al più essi
riescono a stare l’uno accanto all’altro cercando di non darsi fastidio. Il termine
“personalizzazione” è impegnativo perché nobilita l’“uno qualunque” del “collettivo”
facendolo diventare un “punto focale”. L’esigenza di disporre di norme standardizzate
per l’interpretazione dei punteggi ottenuti dagli alunni nelle prove oggettive di profitto e
nei test ha portato ad immaginare un ipotetico “alunno medio”, con il quale non si
identifica però nessun alunno particolare; questo va tenuto presente da chi intende
praticare la valutazione personalizzata. Il movimento delle scuole nuove, introdusse il
concetto di insegnamento individualizzato per reagire ad una prassi scolastica che
offriva lo stesso tipo di insegnamento a tutti gli alunni e pretendeva da tutti gli stessi
risultati. Ben presto si vide che se a scuola si poneva attenzione solo agli aspetti
individuali della formazione degli alunni, trascurando quelli sociali, i risultati non erano
soddisfacenti. La capacità relazionale degli alunni non veniva infatti adeguatamente