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20% dei consumi energetici, con target specifici per i diversi Paesi membri. Alla
realizzazione di detti obiettivi dovrebbero concorrere i biocarburanti, per i quali in
sede europea si sono stabiliti in precedenza, con la Dir. 30/2003, gli obiettivi di
miscelazione ai carburanti fossili tradizionali: il 5,75% entro il 2010 ed il 10% entro
il 2020 (percentuali sul tenore energetico). La Commissione Europea riporta sul suo
sito istituzionale, nella pagina dedicata alla strategia europea per i biocarburanti, che
“l'UE sta sostenendo i biocarburanti con l'obiettivo di ridurre le emissioni di gas
serra, incentivare la decarbonizzazione dei combustibili per trasporto, diversificare le
fonti di approvvigionamento, offrire nuove opportunità di guadagno nelle zone rurali
e sviluppare sostituti a lungo termine per il petrolio”. La principale obiezione nei
confronti degli obiettivi di miscelazione UE è quella di essere irrealistici nei
confronti delle superfici agricole richieste, obbligando quindi ad un aumento
dell’impatto ambientale delle coltivazioni, alla contrazione delle colture food con cui
vi sarebbe competizione per le superfici, nonché ad un ampio ricorso
all’importazione, con diminuzione della convenienza energetica globale. Viceversa,
altre posizioni riportano che utilizzare la superficie europea destinata al set aside
sarebbe già di per sé un contributo, senza considerare che l’Europa è e rimane al
momento eccedentaria nella produzione di molte derrate alimentari.
Le biomasse da energia rivestono un notevole interesse per la loro diffusione,
praticamente ubiquitaria, e per la maturità di molte delle tecnologie di sfruttamento
disponibili. Molti Autori vedono nella generazione diffusa da diverse fonti
rinnovabili una caratteristica fondante del futuro energetico dell’umanità
(Ackermann, et al., 2001; Pepermansa, et al., 2005; Rifkin, 2002; Bonari & Venturi,
2003). Esistono però notevoli limitazioni legate alla varietà e qualità delle biomasse
disponibili, in relazione al loro costo economico, energetico ed ambientale. La
conversione dei combustibili di origine biologica in biocarburanti è un processo che
agevola enormemente l’utilizzazione delle biomasse, semplificando le necessità
impiantistiche per l’utilizzazione energetica finale. In questo ci si aspetta di ricevere
un aiuto dai cosiddetti biocarburanti di seconda generazione, non più ricavati dalla
piccola parte raccolta della biomassa prodotta da poche colture, bensì ottenuti da
biomasse “povere” ad uso prettamente no food, in grado quindi di accrescere la
produzione energetica per unità di superficie o per unità di energia spesa. In questi
termini infatti il confronto è meno favorevole per le colture oleaginose, amilacee e
zuccherine, nei confronti di colture ligno-cellulosiche o dell’impiego di residui
colturali e di altro tipo, la cui conversione energetica però è meno agevole. Anche la
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problematica della scala degli impianti di conversione energetica delle biomasse è
importante, in virtù delle superfici coinvolte e delle necessità di trasporto richieste
dai grandi impianti, quando invece la distribuzione capillare delle biomasse ben si
adatterebbe ad impianti piccoli e alla generazione diffusa sul territorio. Certo, per i
piccoli impianti si pongono problemi di efficienza energetica, ad esempio nella
trasformazione termo-elettrica, oltre che di scala economica e di tipo
dell’imprenditoria coinvolta. Questi impianti però consentono di ampliare il ruolo
dell’agricoltura, in difficoltà nei confronti della produzione di biocombustibili su
vasta scala che richiede materie prime a prezzi non remunerativi sui nostri mercati
(Radice Fossati, 2008). Il ruolo di piccolo produttore energetico dà al comparto
agricolo la possibilità di ottenere incentivi per la produzione di energie rinnovabili,
favorendo l’associazione tra operatori agricoli e di altri settori, diversificando le fonti
di reddito e dando la possibilità di produrre con minori costi, con ricadute positive
anche sulla conservazione del suo indispensabile ruolo di produzione alimentare.
Non si tratta quindi solo di un fatto strettamente economico, viste le influenze su
numerosi altri aspetti: non ultimi quelli sociali, la preservazione di una popolazione
rurale attiva, le economie locali, l’azione di presidio territoriale, la cui rilevanza
crescerebbe all’aumentare del rischio di eventi meteorologici estremi, dissesto
idrogeologico, incendi, come descritto dagli scenari di global warming.
E’ anche con queste premesse che in questa tesi si indaga l’utilizzo a scopo agricolo
di biocarburanti provenienti dall’agricoltura stessa. Se è vero che le agroenergie in
generale promettono di portare diversi benefici all’agricoltura e al territorio, è anche
vero che uno dei benefici più immediati e diretti è la disponibilità stessa di carburanti
da utilizzare in loco. Questa possibilità è stata considerata con lo scopo di ridurre la
dipendenza dagli idrocarburi fossili e di risparmiare sugli elevati costi di questi, che
in agricoltura vanno ad incidere direttamente e pesantemente sul costo di produzione
delle diverse colture (Worldwatch Institute, 2007). L’auto-approvvigionamento di
carburanti potrebbe costituire un’utile integrazione alle attività agricole tradizionali,
in grado di produrre un beneficio economico, oltreché ambientale, riconoscibile e
quantificabile. Tutto questo deve però necessariamente interfacciarsi con la
valutazione della disponibilità delle risorse agricole e naturali, degli impatti
ambientali, nonché con le specifiche esigenze tecniche e tecnologiche di quella che, a
tutti gli effetti, nonostante l’utilizzo di colture tradizionali come il girasole, deve
considerarsi una nuova filiera.
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Capitolo 1 – Inquadramento teorico
1.1 Biomasse, biocombustibili, biocarburanti
Il termine biomassa riunisce materiali di natura anche molto diversa tra di loro, che
quindi differiscono per caratteristiche fisiche, chimiche, per origine, e
conseguentemente interesse tecnologico e tecnologia d’impiego. La biomassa
rappresenta una forma di intercettazione dell’energia solare, accumulata come
energia chimica in macromolecole; è risorsa rinnovabile a condizione che la velocità
d’impiego non superi quella di rigenerazione, ma anche che l’energia spesa per il suo
sfruttamento non superi l’energia ottenuta. In Italia il D.Lgs. 387/2003 recepisce la
Dir. 2001/77/CE sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili
e dà di biomassa la seguente definizione: “la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti
e residui provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali ed animali) e
dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti
industriali ed urbani.” Si può quindi dire che è biomassa tutto ciò che ha matrice
organica, eccezion fatta per i materiali completamente sintetici e di origine fossile.
Le biomasse subiscono processi che le rendono idonee all’utilizzazione energetica
vera e propria oppure che le trasformano direttamente in energia. La trasformazione
in diversi prodotti energetici è volta a conferire loro caratteristiche fisiche e chimiche
idonee all’impiego negli impianti esistenti. In linea generale i processi di utilizzo
delle biomasse possono essere ricondotti a due categorie: i processi di conversione
chimica o biochimica (filiere “fredde”), che permettono di ricavare prodotti
energetici attraverso processi fisici, reazioni chimiche o biochimiche svolte in
condizioni strettamente controllate; i processi di conversione termochimica (filiere
“calde”), che vertono sull’azione fisica del calore. Altri Autori distinguono invece tra
conversioni termochimiche, biologiche e fisiche, includendo nelle prime processi
vari, dalla combustione alla transesterificazione degli oli, e specificando l’assenza di
trasformazioni chimiche e dell’azione termica per prodotti quali gli oli vegetali puri
ottenuti per spremitura, che sono quindi frutto di semplice conversione fisica
(Candolo, 2005).
Le principali caratteristiche fisiche delle biomasse sono l’umidità e la densità. Questi
due fattori, assieme alla composizione chimica del materiale, ne determinano infatti
il potere calorifico. Questo è vero soprattutto per i biocombustibili solidi, perché i
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biocombustibili liquidi sono anidri o comunque in essi l’acqua non è un parametro
tecnologico variabile, come nell’alcool etilico azeotropo che è costituito da acqua e
alcool in rapporto fisso di circa 95:5.
I prodotti di combustione contengono comunque acqua allo stato di vapore; ciò
implica l’esistenza di due valori di potere calorifico, con differenza dovuta al calore
latente di evaporazione: il Potere Calorifico Inferiore (PCI) o Lower Heating Value,
ed il Potere Calorifico Superiore, (PCS) o Higher Heating Value. E’ il PCI il
parametro più indicativo, perché rappresenta l’effettiva parte di calore utilizzabile,
visto che alle temperature dei prodotti di combustione l’acqua resta vapore e non può
cedere il suo calore latente alla macchina termica interessata.
Si possono avere indicazioni sulle proprietà di ogni biocombustibile già dal rapporto
tra i contenuti dei vari elementi: in generale un alto contenuto in C ed H avvicina il
biocombustibile alla composizione chimica degli idrocarburi e conferisce un elevato
potere calorifico; viceversa, alti contenuti di N, O, elementi minerali deprimono il
potere calorifico ed hanno connessioni con il livello di inquinanti prodotti (APAT,
2003). Un più alto tenore di O, caratteristico di bioetanolo e biodiesel rispetto ai
corrispondenti carburanti fossili, diminuisce la presenza di sostanze inquinanti
derivanti da incompleta ossidazione del combustibile (quali CO, idrocarburi) perché
favorisce appunto lo combustione completa, ma accresce così l’emissione di NOx, la
cui produzione è facilitata dalle alte temperature raggiunte. Anche nella
composizione chimica, oltre che nello stato fisico, risiedono motivi che rendono
meno facile la combustione delle biomasse solide piuttosto che liquide: lo zolfo,
praticamente nei biocarburanti, non solo costituisce un potenziale inquinante in virtù
della sua ossidazione ad SO2, ma assieme al cloro e ad alcuni elementi e composti
presenti nelle ceneri (potassio, silice) è anche causa di deterioramento degli impianti.
Nella normativa nazionale, il DPCM “Combustibili” dell’8 marzo 2002 specifica le
fonti ammesse come materia prima per la produzione di biocombustibili, visto che
per la precisione regola la “disciplina delle caratteristiche merceologiche dei
combustibili aventi rilevanza ai fini dell’inquinamento atmosferico […]”. Un
sottoinsieme dei biocombustibili è quello dei biocarburanti, definiti nella già citata
Dir. 30/2003: un biocarburante è “un carburante liquido o gassoso per i trasporti
ricavato dalla biomassa”. In generale, la loro peculiarità è quella di poter essere
utilizzati per l’alimentazione di motori a combustione interna, ma non
necessariamente per l’autotrazione (AA.VV., 2007). Il termine “biocarburante” si
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dovrebbe quindi ritenere poco corretto in sé, perché riferendosi al processo di
carburazione vincola la parola alla funzione di sostituzione, surrogazione di benzina
e gasolio; va meglio nel mondo anglosassone, dove è in uso il termine “biofuels for
transport”, letteralmente “biocombustibili per il trasporto” (Riva, et al., 2008). Resta
il fatto che il legame con il settore dei traporti è il principale, e vanta pure origini
storiche se si pensa che il primo motore concepito da Rudolf Diesel era pensato per
funzionare con olio di arachidi (Valentini, 2008; Worldwatch Institute, 2007), o che
la storica Ford T, prima automobile prodotta in serie, era inizialmente progettata per
funzionare con etanolo di origine biologica (Worldwatch Institute, 2007).
1.2 I biocarburanti di prima e di seconda generazione
Come già accennato, i biocarburanti si distinguono in due categorie a seconda dello
stato di maturità delle tecnologie di produzione: biocarburanti di prima e di seconda
generazione. Sono biocarburanti di prima generazione sostanzialmente quelli ottenuti
da coltivazioni convenzionali, alimentari o no food. Si distinguono colture
saccarifere, amilacee, oleaginose. Tra questi carburanti si annoverano generalmente
il biodiesel, gli oli vegetali puri, il bioetanolo, ma secondo alcuni Autori vi si
dovrebbero ascrivere anche il biogas e l’antidetonante bio-ETBE (etil-ter-butil-etere),
che per il 47% sul contenuto energetico deriva dal bioetanolo (AA.VV., 2007). Alla
definizione di cui sopra, secondo cui i biocarburanti di prima generazione derivano
da prodotti di comuni colture convenzionali, sfugge almeno in parte il bio-ETBE,
derivato di sintesi dei biocarburanti. Anche il biogas rifugge almeno in parte questa
definizione, in quanto derivato da digestione anaerobica, tipicamente di rifiuti solidi
urbani o di liquami zootecnici coadiuvati da energy crops. Per questa ragione,
saranno a seguire esclusi dalla trattazione.
Il biodiesel è costituito da una miscela di esteri metilici prodotti per
transesterificazione di oli, ossia grassi, di origine vegetale o animale. E’
caratterizzato da: un elevato PCI (circa 37 MJ/kg), solo di poco inferiore al gasolio
tradizionale (42 MJ/kg); un numero di cetano più alto, il che comporta un migliore
comportamento in termini di prontezza di accensione, parametro fondamentale nei
motori a ciclo Diesel; più alto flash point o temperatura di infiammabilità, il che
implica maggiore sicurezza nella manipolazione; maggiore viscosità cinematica (5,1
10
contro 2,6 cSt). Il gasolio è sostituibile con biodiesel in quantità di 1 kg contro 1,13
kg rispettivamente, per via del potere calorifico lievemente più basso.
Alle nostre latitudini le colture dedicate più idonee sono al momento il girasole, il
colza, la soia, ma è la palma da olio la coltura quantitativamente più importante a
livello mondiale. Le oleaginose più importanti in Italia sono nettamente le prime due,
vista la bassa resa in olio della soia, coltura che finora ha visto i suoi destini legati
soprattutto alla sua produzione proteica piuttosto che quella oleica. L’Italia si segnala
attualmente per essere il terzo produttore europeo di biodiesel, con 447.000
tonnellate del 2006, a fronte delle 396.000 del 2005 e contro gli oltre 4 milioni di
tonnellate in Europa, di cui più della metà provenienti dalla Germania. L’aspetto
della provenienza delle materie prime per biocarburanti trasformate in Italia sarà
discusso a seguire.
Ad oggi il biodiesel è impiegato comunemente in miscele al 5% in volume (v/v) con
il gasolio senza particolari accorgimenti motoristici, anche se ad esempio in
Germania si arriva a livello commerciale già a miscele B20 (biodiesel 20%) sempre
in motori non modificati. I motori predisposti possono usare il B100, che però può
andare incontro a biodegradazione, ragion per cui si sta diffondendo il B99
contenente l’1% di gasolio in grado di garantire conservabilità.
Il bioetanolo è alcool etilico ottenuto dalla fermentazione di zuccheri semplici o di
carboidrati complessi previa idrolisi enzimatica. E’ in grado di sostituire la benzina
nei motori a ciclo Otto, ma la sperimentazione motoristica sta andando nella
direzione di un suo utilizzo anche in motori a ciclo Diesel. Se in questi ultimi è la
capacità di pronta accensione del carburante a dover essere privilegiata, per i motori
a benzina un parametro qualitativo importante è al contrario il potere antidetonante,
espresso dal numero di ottano che nell’etanolo è più alto che nelle benzine di origine
fossile. Se per questo ed altri motivi l’etanolo è migliore della benzina nei confronti
dei motori già esistenti, per altre ragioni rimane svantaggiato: il PCI è infatti
nettamente inferiore (27 MJ/kg contro 44), al punto che 1,67 kg di bioetanolo ne
rimpiazzano soltanto 1 di benzina; il flash point è più basso, il che pone maggiori
problemi di sicurezza (AA.VV., 2007).
Per la produzione di questo tipo di biocarburante le colture più interessanti
nell’immediato sono le saccarifere e le amilacee, quali barbabietola da zucchero,
mais, cereali autunno-vernini, sorgo zuccherino, ma si utilizzano anche i residui
11
agroindustriali, quali le eccedenze destinate alla distillazione obbligatoria ai sensi
dell’art. 30 del Reg.CE 1493/1999 (vino, materie vinose, frutta). Nel mondo le specie
alcoligene più coltivate sono il mais e la canna da zucchero; in Italia l’attuale, scarsa
produzione di bioetanolo si deve pressoché esclusivamente ai residui agroindustriali.
Nei motori più comunemente diffusi la miscelazione dell’etanolo con la benzina in
percentuali dell’ordine del 5% v/v non comporta problemi. In alcuni Paesi, anche
europei, esistono miscele E20 per motori modificati flex fuel, che tecnicamente sono
in grado di accettare miscele fino ad E80-E85. L’alcool etilico ha problemi di
miscelazione con la benzina se idrato, quindi a questo scopo si fa generalmente
ricorso al bioetanolo anidro, cioè alcool etilico assoluto. E’ possibile utilizzare
direttamente il bioetanolo azeotropo, detto E100, soluzione adottata tipicamente in
Brasile.
Di fatto una percentuale di miscelazione attorno al 5%, che è quella prevalente in
Europa, rende il biodiesel ed il bioetanolo degli additivi che migliorano le proprietà
dei carburanti tradizionali. Da ricordare inoltre che la percentuale-obiettivo del
5,75% di biocarburanti in miscela entro il 2010 è riferita al titolo energetico, e non al
volume come quelle delle miscele commerciali. Il legislatore italiano ha recepito tale
direttiva, seppur abbassandone gli obiettivi, attraverso il D.Lgs. 128/2005 (1% a fine
2005; 2,5% a fine 2010); successivamente la legge 81 dell’11 marzo 2006 di
conversione del D.L. n. 2 del 10 gennaio 2006 ha invece stabilito nell’art 2-quater
che la proporzione di biocarburanti deve aumentare dell’1% l’anno fino al 2010
rispettando così pienamente la direttiva. Il D.Lgs. 128/2005 di fatto consente per il
momento la miscelazione di biocarburanti ai carburanti tradizionali in rete solo fino
al 5%, ammettendo che percentuali superiori si raggiungano fuori dalla rete.
I biocarburanti di seconda generazione necessitano di soluzioni tecniche ancora da
perfezionare o sperimentare, sono in fase pre-competitiva o di primissima
introduzione sul mercato, con alcuni esempi in tal senso in Brasile e Finlandia (Riva,
Foppa Pedretti, & Toscano, 2008). In particolare interessa l’origine da biomasse
residuali o da colture dedicate ligno-cellulosiche no food, che costano meno energia,
consentono alte rese areiche e sono prodotte con minor impatto ambientale. I
carburanti sono ottenibili per conversione termochimica, come il syngas, il bio-olio o
olio di pirolisi e indirettamente il bioidrogeno, il biometanolo, il diesel Fischer-
Tropsch o FT-diesel; oppure per conversione biochimica, come il bioidrogeno, ma
soprattutto il bioetanolo. Questi processi si indicano anche con il termine biomass to
12
liquid/gas to liquid (BTL-GTL) o, più semplicemente, come synfuels. Bisogna
accennare anche ad un'altra possibilità investigata dalla ricerca nel settore, i
biocarburanti provenienti da coltivazione di microalghe. In generale, i synfuels hanno
proprietà molto flessibili e quindi grande adattabilità ai motori attuali, visto che sono
prodotti sinteticamente e quindi che cambiando parametri quali pressione,
temperatura e catalizzatori nei processi di sintesi e di raffinazione si possono
modulare le diverse caratteristiche (AA.VV., 2007), (CIPA.AT, 2005). I carburanti
ottenuti per conversione termochimica hanno lo svantaggio di richiedere, dopo il
costo energetico sostenuto per gassificare la biomassa (ottenendo il primo anello
della catena, il syngas), ulteriori costi per la sua purificazione (per il bioidrogeno) e
trasformazione (reazioni endotermiche per produrre metanolo e per il processo di
Fischer-Tropsch); in più, per l’idrogeno persiste una certa immaturità tecnologica.
Le aspettative maggiori sono quindi riposte ancora sugli analoghi di gasolio e
benzina provenienti da processi innovativi, in grado di alleviare molte delle
problematiche sollevate dall’utilizzazione su vasta scala dei biocombustibili di prima
generazione. In particolare, analisi del comparto al giorno d’oggi suggeriscono che
sarà il bioetanolo ad avere il maggiore potenziale di sviluppo, avvantaggiato da rese
areiche più alte sia delle colture alcoligene propriamente dette, che soprattutto delle
ligno-cellulosiche che in un futuro sarà possibile sfruttare, assieme ai residui
agroforestali (Gruppo2013, 2009).
1.3 Gli oli vegetali
1.3.1 Specie oleaginose e caratteristiche generali degli oli
Gli oli vegetali come biocarburanti sono entrati nella legislazione italiana per la
prima volta con il D.Lgs. 30 maggio 2005 n° 128 che, recependo la Dir. 30/2003/CE,
ne dà definizione ai sensi di legge:
• “Olio vegetale puro: olio prodotto da piante oleaginose mediante pressione,
estrazione o processi analoghi, greggio o raffinato ma chimicamente non
modificato, qualora compatibile con il tipo di motore usato e con i
corrispondenti requisiti in materia di emissioni”.
Con il termine oli vegetali puri (crude vegetable oils, spesso abbreviato come CVO)
si intendono quindi gli oli prodotti dai semi oleosi mediante estrazione fisica o
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chimica, ma comunque chimicamente non modificati. Questo rimanda
immediatamente ad una loro più immediata disponibilità e facilità di ottenimento, in
termini sia economici che energetici. Alcuni parametri qualitativi significativamente
peggiori rispetto al gasolio e al biodiesel pongono però dei limiti al loro utilizzo
diretto come carburanti.
Il PCI ha un range di variabilità ridotto tra gli oli vegetali di diversa origine (36÷39
MJ/kg), mantenendosi prossimo a quello del biodiesel (37 MJ/kg) e quindi di poco
inferiore a quello del gasolio, tanto che il coefficiente di conversione olio-gasolio è
di 1,13 come per il biodiesel. Gli oli hanno però minore prontezza all’accensione,
evidenziata dal più basso numero di cetano, il che fa sì che si tenda
preferenzialmente ad utilizzarli in motori a basso numero di giri (Diesel “lenti”)
riducendo così gli inconvenienti.
I problemi maggiori sono dati da:
• elevata viscosità cinematica (30÷40 cSt, con variabilità tra le diverse
oleaginose);
• alti punti di intorbidamento e di scorrimento, parametri tecnici
determinati ai sensi delle ISO 3015 e 3016 e che esprimono la
limitazione d’uso nei mesi invernali (il punto di intorbidamento è la
temperatura a cui compaiono formazioni solide, ed è di -3÷7°C contro
i -17°C del gasolio);
• più alto numero di iodio, peraltro simile a quello del biodiesel, dovuto
al notevole livello di insaturazione dei grassi vegetali; causa nei
motori la formazione di gomme che possono causare deterioramento
delle parti meccaniche.
L’utilizzo dell’olio vegetale come carburante ha suscitato tempo addietro un certo
scalpore in Italia e non solo, avviando una stagione “pionieristica” fatta spesso di
sperimentazioni casalinghe (illegali e tecnicamente rischiose) da parte di singoli
consumatori in nome della lotta al caro-vita e al caro-petrolio. Negli anni 2000-2001
si è segnalato un cospicuo movimento sostenuto da Jacopo Fo che ha sollevato
polemiche nei confronti della autorità italiane, ritenute in colpevole ritardo rispetto
ad altri Paesi come la Germania, nel favorire la diffusione di biodiesel ed oli vegetali
(in particolare di colza) come biocarburanti.