Questo implica programmi di controllo dell’inquinamento in molti paesi:
condizione non semplice, poiché devono essere identificate le sorgenti delle
emissioni e valutati i rischi che comportano, integrando, inoltre, informazioni
riguardanti l’ecologia, la chimica analitica, l’epidemiologia e gli aspetti
economici (Wolterbeek, 2002). Tuttavia definire il livello di inquinamento in
un ecosistema è di fondamentale importanza al fine di valutare lo stato di
conservazione o degradazione e prevedere l’impatto delle attività umane in
modo da stabilire i necessari interventi (Conti & Cecchetti, 2001).
Il monitoraggio di un inquinante consiste nella determinazione quali-
quantitativa della sua presenza e della sua distribuzione spazio-temporale
nell’ambiente. Per il raggiungimento di tale scopo solitamente si può operare
con strumentazioni automatiche che provvedono al campionamento dell’aria
ed alla sua analisi su base chimica o chimico-fisica (monitoraggio
convenzionale), o mediante la misura degli effetti rappresentati dalle risposte
manifestate da particolari organismi viventi sensibili alle variazioni ambientali
(biomonitoraggio) (Nali & Fumagalli, 1999).
Nel caso del monitoraggio convenzionale vi sono limitazioni dovute ai
seguenti problemi (Nimis, 1999; ANPA, 2001):
- le concentrazioni di inquinanti in atmosfera sono molto variabili nello
spazio e nel tempo, il che implica studi condotti su base statistica per
lunghi periodi e con dense reti di punti di misura;
- gli alti costi degli strumenti ne limitano fortemente il numero, per questo i
dati strumentali hanno spesso una scarsa qualità statistica, nonostante la
precisione delle singole misure;
- la strumentazione normalmente utilizzata rileva un numero esiguo di
sostanze inquinanti;
- un monitoraggio puramente strumentale non permette di rilevare gli effetti
dell’inquinamento sugli ecosistemi, in particolare gli effetti sinergici di più
inquinanti.
Per questi motivi il biomonitoraggio viene sempre più spesso utilizzato in
molti aspetti delle ricerche ambientali e per stimare l’impatto delle attività
industriali (Conti & Cecchetti, 2001; Szczepaniak & Biziuk, 2003).
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Le informazioni rilevate del biomonitoraggio sono dedotte dai
cambiamenti morfologici, fisiologici, presenza/assenza, ricorrenza e
biodiversità degli organismi studiati (ANPA, 2001; Wolterbeek, 2001).
Generalmente gli organismi vegetali sensibili all’inquinamento mostrano
diversa sintomatologia in relazione a tre tipi di danni (Bargagli, 1998):
1. acuti, dovuti all’esposizione di alte concentrazione di inquinanti limitati
a brevi periodi di tempo. Si manifestano con clorosi, necrosi fino
all’abscissione di foglie e fiori;
2. cronici, dovuti a prolungate esposizioni di basse concentrazioni
inquinanti. Solitamente si manifestano con una prematura senescenza,
riduzione dell’accrescimento e clorosi della pianta;
3. latenti (invisibili), caratterizzati da un’apparente assenza di sintomi,
rilevabili solo mediante studi fisiologici o biochimici.
Vantaggi nell’uso dei biomonitor sono riportati da Nimis (1999):
- possibilità di ottenere rapidamente, a bassi costi e con un’alta densità di
campionamento, una stima degli effetti biologici di più inquinanti su
organismi reattivi, a diverse scale territoriali;
- individuazione rapida di aree con potenziale superamento dei limiti soglia
per alcuni importanti inquinanti primari (SO
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, NO
x
, ozono, elementi in
traccia, ecc.);
- valutazione dell’efficacia di misure per la riduzione delle emissioni di
inquinanti su lunghi periodi;
- individuazione di potenziali aree a rischio per la localizzazione ottimale
degli strumenti di misura dell’inquinamento;
- individuazione di patterns di trasporto a lunga distanza e deposizione di
inquinanti, e verifica dell’affidabilità di modelli diffusionali a diverse scale
territoriali;
- avere la possibilità di compiere analisi anche in luoghi privi dei necessari
equipaggiamenti per il monitoraggio (Wolterbeek, 2001).
I limiti principali di queste metodiche, sempre secondo Nimis (1999), sono:
- alcune tecniche (specie quelle con i biomonitors autoctoni) non sono
applicabili ovunque;
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- non vi è sempre una relazione univoca tra dati biologici e concentrazioni in
atmosfera di specifici inquinanti, in primo luogo a causa degli effetti
sinergici di più inquinanti e di altri fattori ecologici sugli organismi;
- non è sempre possibile elaborare un’unica scala di interpretazione dei dati
biologici in termini di inquinamento, valida per tutto il territorio nazionale;
ad esempio lo stesso valore di biodiversità lichenica indica diversi livelli di
inquinamento nell’Italia mediterranea ed in quella submediterranea, a
causa dell’influenza del clima sulla biodiversità;
- alcune tecniche presentano limiti evidenti ad un estremo della scala dei
valori;
- alcune tecniche non permettono di rilevare immediatamente fenomeni
acuti di alterazione ambientale, in quanto la reazione degli organismi
richiede un certo tempo per essere apprezzabile.
Il biomonitoraggio, dunque, non deve essere interpretato come alternativo
rispetto a quello strumentale, ma come un campo di ricerca autonomo, che
può fornire informazioni importanti per il monitoraggio dell’inquinamento,
individuando possibili zone a rischio e ottimizzando la localizzazione degli
strumenti di misura (ANPA, 2001).
BIOINDICATORI E BIOACCUMULATORI
Le tecniche di biomonitoraggio permettono di identificare lo stato di alcuni
parametri ambientali sulla base degli effetti da essi indotti su organismi
sensibili. Questi si manifestano a due livelli, corrispondenti a due categorie di
tecniche (Bargagli, 1998; Nimis, 1999):
a) accumulo di sostanze, dove vengono utilizzate le tecniche di bioaccumulo,
le quali misurano concentrazioni di sostanze in organismi in grado di
assorbire ed accumulare dall’ambiente,
b) modificazioni morfologiche, fisiologiche o genetiche a livello di
organismo, di popolazione o di comunità, dove vengono utilizzate tecniche
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di bioindicazione, che stimano gli effetti di variazioni ambientali su
componenti sensibili agli ecosistemi.
In generale la scelta dei bioindicatori viene fatta tenendo conto delle
seguenti caratteristiche (Bargagli, 1998; Nimis, 1999):
• conoscenza della sensibilità della pianta all’inquinante
• ampia distribuzione nell’area di studio
• lungo ciclo di vita e uniformità genetica
• reperibilità durante tutto l’anno e di facile crescita
• gli effetti degli inquinanti devono essere di facile individuazione e
specifici per il tipo di inquinamento.
Mentre per i bioaccumulatori si considerano generalmente le seguenti
caratteristiche (Bargagli, 1998; Nimis, 1999):
• alta tolleranza agli inquinanti
• capacità di accumulare inquinanti riflettendo le concentrazioni presenti
nell’ambiente
• ampia distribuzione nell’area di studio
• non influenzate dal substrato in cui vivono.
Vari organismi vegetali, o parte di essi, sono stati utilizzati negli anni per
le tecniche di bioindicazione e bioaccumulo: felci, piante arboree, corteccie,
anelli legnosi di piante arboree, ma quelli più frequentemente utilizzati sono i
muschi e i licheni. Questi sono considerati organismi ideali allo scopo del
biomonitoraggio poiché la loro morfologia non varia a seconda delle stagioni,
l’accumulo di metalli pesanti può avvenire nell’arco di tutto l’anno e sono
estremamente longevi (Szczepaniak & Biziuk, 2003).
La bioaccumulazione di metalli pesanti basato su muschi, licheni e
corteccia di albero si è diffusa in tutto il mondo a partire dagli anni ’70. Le
tecniche di bioaccumulo possono venire suddivise in due gruppi: attive e
passive. Il monitoraggio attivo consiste nell’esposizione di specie ben definite
in condizioni controllate utilizzando varie tecniche; mentre il monitoraggio
passivo si basa sulle osservazioni o analisi chimiche di piante indigene
(Szczepaniak & Biziuk, 2003). In generale il biomonitoraggio passivo ha
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maggiori svantaggi rispetto a quello attivo, perché in quello passivo non è
possibile separare i diversi processi e le sorgenti di inquinanti che avvengono
nello stesso momento e analizzarne uno in particolare (Szczepaniak & Biziuk,
2003).
Muschi come bioaccumulatori
I muschi sono utilizzati frequentemente come bioaccumulatori per le
seguenti vantaggiose caratteristiche (Gerdol & Cenci, 1999; Szczepaniak &
Biziuk, 2003):
• molte specie sono geograficamente diffuse e crescono in differenti
condizioni ambientali, da zone industriali ad aree urbane;
• non hanno un vero e proprio sistema radicale, ragione per cui prelevano
sostanze minerali direttamente dall’atmosfera attraverso le precipitazioni;
• presentano una notevole capacità di scambio ionico determinata sia
dall’assenza di cuticola nei loro tessuti, sia dalla forte concentrazione di
acidi poliuronici nella parete cellulare. Tali sostanze possiedono siti
carbossilici a carica negativa in grado di legare elettrostaticamente i
cationi;
• molte specie hanno una crescita a strato annuale;
• il trasporto di minerali nei tessuti muscinali è limitato per la mancanza di
tessuti vascolari.
Inoltre i muschi presentano due principali vantaggi rispetto ai
convenzionali studi sulle precipitazioni atmosferiche nel campo ambientale
(Steinnes, 1995; Szczepaniak & Biziuk, 2003):
• i metalli vengono fortemente concentrati nei tessuti muscinali e sono più
facilmente rilevabili rispetto alle analisi analitiche effettuate sulle
precipitazioni atmosferiche, le quali hanno valori di concentrazione di
metalli molto bassa e le analisi presentano limiti dovute a contaminazioni
del campione;
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