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organizzazione e nelle principali funzioni. Un certo rilievo viene dato ad una malattia
sempre presente all’interno del manicomio, che spesso veniva erroneamente confusa
come una conseguenza ed una manifestazione della patologia psichica, la “malattia da
istituzionalizzazione”, “la regressione istituzionale”, come da molti è stata definita.
Vengono inoltre descritte le principali teorie psichiatriche e i rispettivi trattamenti fiorenti
soprattutto alla fine dell’Ottocento. In seguito si esplicitano quelli che sono stati i percorsi
che hanno anticipato la riforma psichiatrica. Nello stesso capitolo vengono riportate
parole e discorsi pronunciati da Ossicini, contenuti negli atti di molti convegni scientifici
sul tema della riforma psichiatrica. La proposta che Ossicini formulava era tutt’altro che
semplice nella sua realizzazione. Quella battaglia contro i manicomi veniva portata avanti
da una persona con una profonda formazione psicologica, e la psicologia era appena
uscita da una situazione di difficoltà. La guerra si era appena conclusa e il fascismo aveva
lasciato in eredità una chiusura culturale nei confronti della psicologia. Come è stato
riportato nel capitolo, la figura dello psicologo era ostacolata nella sua evoluzione, e si
andava delineando tra mille impedimenti.
Il secondo capitolo si apre con il quadro storico e sociale degli anni Sessanta, epoca
di grandi lotte sociali che hanno facilitato il processo antiistituzionale, che ha sancito la
progressiva chiusura dei manicomi. Vengono brevemente tracciate le tappe più
significative della psichiatria alternativa in Italia: si ripercorre l’evoluzione
dell’Antipsichiatria e del suo sviluppo. In modo particolare vengono descritte le
esperienze basagliane, le quali si sono fatte portavoce di quelle che, in più parti del
mondo, erano già in corso. Le fasi intermedie all’arrivo della 180 sono state molto
importanti: la legge stralcio Mariotti e i primi CIM hanno pian piano aperto la strada ad
un clima sociale più maturo ad accogliere le nuove e più stravolgenti normative; vengono
pertanto ricordati anche altri tipi di esperienze, che uscivano dalla logica comunitaria, per
approdare in azioni extra-istituzionali. Sarà l’esperienza di Jervis ad essere protagonista in
tal senso. Inoltre l’esperienza di Basaglia contrariamente a quanto si possa immaginare,
non fu sempre e soltanto positiva; sarà lo stesso Jervis a riflettere su alcuni “limiti
goriziani”. Un rilievo viene dato ai cambiamenti che la legge ha determinato, non solo per
la cura della malattia mentale, ma anche per l’immagine stessa del malato mentale,
abolendone l’aspetto negativo retto dal pregiudizio della presunta pericolosità sociale. Il
capitolo si conclude con l’enunciazione di un importante cambiamento: l’introduzione dei
nuovi servizi sanitari, grazie alla nuova legge 833 del 1978, che ha inglobato la 180.
Nel terzo capitolo vengono tracciati i principali servizi erogati dal Dipartimento di
Salute Mentale, luogo deputato in particolar modo ad accogliere i pazienti adulti.
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All’interno di questi servizi trova posto anche lo psicologo clinico, che superati i primi
ostacoli, ha creato un spazio adatto in cui poter espletare le proprie competenze. Vengono
infatti tracciate alcune delle funzioni che lo psicologo clinico può svolgere all’interno del
servizio sanitario, mettendo ad esempio in luce l’importanza dell’analisi della domanda, e
le diverse tipologie di richieste che possono giungere presso gli ambulatori. Un paragrafo
viene dedicato alla “domanda assente”, che potrebbe essere connessa alle difficoltà di
intervento su pazienti che a volte non riescono a formulare precise e chiare richieste. Nel
capitolo vengono esaminati alcuni modelli di intervento psicologico clinico, viene
riportato un esempio concreto di un intervento di gruppo praticato all’interno del SPDC
dell’ASL di Latina.
Il quarto capitolo riporta alcuni dati sulla prima fase di attuazione della legge 180, in
riferimento alla realtà territoriale italiana, e più in particolare di Roma. Alcune interviste
arricchiscono i dati precedentemente esposti su quelli che sono stati gli sviluppi della
legge. Relativamente alla situazione attuale, significativa è l’intervista ad un’autorevole
personalità rappresentante dei servizi sanitari romani, il Dr. Mario Ardizzone.
L’ultimo capitolo vuole essere un’ulteriore valutazione della legge, soprattutto per
quanto è inerente la sua relazione con la psicologia clinica. Si fa riferimento ai rapporti tra
psicologia clinica, psicoanalisi e le nuovi correnti della psichiatria, mettendo in luce le
avversità che il padre della 180, Basaglia, ha manifestato nei confronti della psicoanalisi e
della psicologia. Si descrivere il difficile rapporto, in alcuni momenti tra la psichiatri e la
psicologia all’interno dei servizi sanitari. Vengono analizzati i movimenti
antiistituzionali, mettendone in luce alcuni limiti, e ripercorrendo brevemente l’influenza
che alcune teorie filosofiche del passato hanno esercitato su tali movimenti. Vengono
anche analizzati alcuni rischi che tuttora si possono correre nei servizi sanitari, ricordando
che purtroppo la fine del manicomio non ha coinciso del tutto con la fine della
“manicomialità”. Trovano inoltre spazio alcune difficoltà e denunce segnalate da diverse
associazioni di familiari, delle quali viene tracciata la genesi,l’evoluzione e gli auspicabili
sviluppi. Al termine di questo lavoro ho inserito una breve conclusione personale, che
ripercorre certi temi per me particolarmente appassionanti al fine di un’ulteriore
riflessione su quanto esposto, mettendo soprattutto in luce l’apertura al mondo interno,
che comunque, la legge e la riforma psichiatrica, hanno favorito.
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Capitolo I
L’esperienza di Ossicini e l’anticipazione della
Riforma Psichiatrica
Storia della legislazione per l’assistenza ai malati mentali
La storia dell’assistenza ai malati mentali non nasce come risposta a un problema
medico, bensì per sedare esigenze sociali: il cittadino sano chiedeva allo Stato che il folle
fosse assicurato alla giustizia e messo nelle condizioni di non nuocere. Ciò ha determinato
che le norme riguardanti la malattia mentale ricadessero nel diritto penale, e che la pena
prevista per il malato mentale fosse la segregazione e la sospensione dei diritti civili. Così
all’inizio dell’ottocento i malati mentali si trovavano nella condizione di essere mescolati
e confusi con i delinquenti e con i prigionieri politici. In questo clima repressivo, nel 1814
in Inghilterra, venne istituita la prima commissione per l’indagine sui manicomi, ma fu
solo più tardi che in Francia e in Svizzera vennero emanate le prime leggi manicomiali
con lo scopo di regolamentarne sia le ammissioni che le dimissioni degli alienati da tali
strutture.
La legge italiana è figlia di quella francese del 1838, tale legge regolamentava le
modalità e le condizioni del ricovero in manicomio, dove appunto venivano ricoverate le
persone secondo quella che diventerà la famosa formula “ pericolose a se stesse e agli
altri e che creano pubblico scandalo”. La legge francese sull’ «alienazione mentale» (così
infatti si denominava la “malattia mentale” prima ancora che la psichiatria si affermasse
come branca specialistica della medicina) ha avuto una breve gestazione, giungendo
all’approvazione nel 1838 senza opposizioni e contrasti significativi. Gli psichiatri
francesi si erano raccolti realizzando la più esplicita e severa legge che neanche uno
psichiatra molto repressivo potesse mai immaginare. Così, nel volgere di circa mezzo
secolo, la Francia, passava dalle “lettres de cachet” di emanazione sovrana, alle norme di
restrizione della libertà e di trattamento di stampo medicale.
Nel 1861, all’atto della proclamazione del nuovo Stato italiano, il presupposto che la
follia fosse una comune malattia, e come tale di competenza della medicina, era
largamente accettato ma, come testimoniano i diversi progetti di legge sull’assistenza ai
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malati mentali, il ricovero veniva largamente pensato come coatto e quindi presentato
come una necessità sociale, più che sanitaria. In Italia il modello legislativo francese fu
ampiamente accettato, tanto dai politici, che dai medici. Nel 1898 si verificò un evento
particolarmente importante, la rivolta milanese, che portò non poche agitazioni sociali,
due anni più tardi il clima si inasprì ulteriormente con l’omicidio del Re Umberto I. Tali
eventi avevano favorito una notevole spinta emotiva che permetteva di giungere, tra le
varie innovazioni, anche alla stesura definitiva del progetto di legge italiano sulla
regolamentazione manicomiale.
Come premesso la legge italiana che regolava l’istituzione dei manicomi era quella
del 1904 secondo la quale, sulle orme tracciate dalle legislazione francese, il malato
mentale era considerato “pericoloso per sé e per gli altri”, per cui doveva essere custodito
nelle istituzioni manicomiali affinché fosse tutelata la sicurezza sociale. Questa è legge
rimasta in vigore per oltre settanta anni. La legge 1904 dava un ordinamento ai manicomi:
regole necessarie per ricoverare i pazienti, per dimetterli e per gestirli. Questa legge però,
appariva con punti oscuri e molti difetti «difende la società dai malati, non difende i
malati, in quanto considera i disturbi mentali largamente incurabili, notevolmente carichi
di pericolosità per i malati stessi e per gli altri» (Ossicini, 1948). Il malato mentale, così
“etichettato”, veniva isolato e segregato in istituto, veniva custodito ma non “preso in
cura” in senso psicologico. Il ricovero coatto veniva adottato in una logica di difesa
sociale, ponendo la sicurezza pubblica al centro delle motivazioni e dell’attuazione del
provvedimento. Tutti i disturbi mentali finivano per essere considerati pericolosi,
prevedendo l’obbligo del ricovero nei casi di pazzia, anche quando in realtà tali soggetti
non erano pericolosi, ma solo bisognosi di cura, e finivano per essere trattati
analogamente ai delinquenti e ai criminali. La legge 1904, portava il nome di Giolitti ed
entrò in vigore con il regolamento del 1909.
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Progetto Giolitti e legge 36 del 1904
La legge del 1904, n° 36, porta il nome di Giolitti, allora Ministro dell’Interno. «La
legge 36 del 1904, contrariamente a quanto si possa ritenere, appariva una legge
innovativa e progressista, se ci si riferisce alla concezione dello Stato e dell’ordinamento
amministrativo e politico che era presente in quegli anni, anche se poi sul piano
scientifico risultava essere molto arretrata anche rispetto all’epoca cui fu emanata»
(Canosa, 1979). In particolare ciò che poteva in qualche modo dirsi innovativo, era il fatto
che i pazienti venivano sì rinchiusi in manicomi, ma queste istituzioni dovevano, secondo
la legge Giolitti, essere presenti nelle province, affinché venisse garantire ai ricoverati una
maggiore vicinanza fisica all’ambiente familiare. Il disegno di legge che Giolitti presentò
al Senato con il titolo “Disposizione sui manicomi pubblici e privati”, prevedeva alcuni
punti fondamentali, tra i quali: l’obbligo del ricovero in manicomio, soltanto per i
dementi pericolosi e scandalosi; l’ammissione con procedura giudiziale, salvi i casi di
urgenza; la competenza di tutte le spese relative ai folli poveri attribuita alle province,
tranne pochissimi casi; l’istituzione di un servizio speciale di vigilanza sugli alienati. Il
disegno di legge di Giolitti non fu portato a termine nella sua completezza, infatti Giolitti
aveva previsto nel suo progetto anche la costruzione di altri tipi di strutture deputate
all’assistenza psichiatrica, ma oltre ai manicomi non vennero realizzate altre strutture, per
cui la sola organizzazione psichiatrica presente nei territori era quella manicomiale.
Venne istituito almeno un manicomio per ogni regione per garantire l’ordine, la sicurezza
sociale e l’assistenza psichiatrica in tutto il territorio. I malati mentali di ogni grado e
genere potevano essere ricoverati solo nei manicomi, e i loro parenti erano posti nella
condizione di dover attuare una serie di forzature e deformazioni per poter chiedere il
ricovero manicomiale anche per i pazienti meno gravi: «dovevano presentarsi come
pericolosi e chiedere o carpire ai medici certificati di pericolosità. Dovevano, sulla base di
quei certificati, promuovere il procedimento urgente di ammissione, invocando una fase
di urgenza, e chiedendo l’ordinanza del sindaco o della polizia» (Pantozzi, 1994). I
sindaci, dal canto loro, erano tutt’altro che infastiditi da queste richieste, in quanto la retta
veniva pagata dalla provincia, e rinchiudere chiunque potesse turbare la tranquillità della
società era un principio largamente accettato. Contrarie all’internamento manicomiale
furono le province in quanto furono chiamate ad amministrare i manicomi, ma senza
avere poteri di ammissioni e di dimissioni nei confronti dei malati. Le dimissioni dei
pazienti spettavano ai direttori dei manicomi, che dovevano assumersi tutte le
responsabilità del gesto, ed erano indotti a trattenere il malato fino a quando non fosse
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stata raggiunta la sua innocuità. In Italia le dimensioni dei manicomi vennero ad assumere
dimensioni gigantesche, «dal 1874 al 1940 si passò rispettivamente a 12.200 ricoverati a
95.984 ricoverati» (Ibidem). L’elemento più negativo rimaneva l’obbligo di ricovero per i
pericolosi in istituzioni speciali, che implicava misure assai dure: misure di prevenzione,
non necessariamente collegate a una pericolosità manifestatasi in atti concreti e misure di
sicurezza consistenti in una vera e propria reclusione.
La legge del 1904, che derivò in parte dal progetto di Giolitti, in parte da alcune
revisioni e dal successivo regolamento esecutivo del 1909 (Regio Decreto 16 agosto
1909, n 615), che prevedevano la custodia e la cura nei manicomi delle persone affette per
qualunque causa da alienazione mentale, «quando siano pericolose a sé o agli altri o
riescano di pubblico scandalo e non possano essere convenientemente custodite e curate
fuorché nei manicomi» (ibidem); sia la legge che il regolamento consentivano anche la
cura e la custodia in una casa privata che «non sia la casa propria dell'alienato o della sua
famiglia» di uno o due alienati (art. 13, regolamento n 615). L’ammissione in manicomio
avveniva in via provvisoria sulla base della presentazione di un certificato medico ed era
autorizzata dal pretore; l'ammissione definitiva avveniva per sentenza del Tribunale, su
istanza del pubblico ministero in base alla relazione del Direttore del manicomio (art 2,
legge 36); l'avvenuto ricovero definitivo veniva iscritto nel casellario giudiziario. Le
Province avevano l’obbligo di provvedere alle spese per il mantenimento degli alienati
poveri (art. 6, legge 36). La vigilanza sui manicomi pubblici e privati competeva al
Prefetto.
Secondo tale legge il malato mentale era: dichiarato pericoloso o scandaloso da un
atto giuridico; recluso con provvedimento giudiziario di carattere obbligatorio, adottato
che, senza termine certo, su iniziativa di terzi, interdetto civilmente, escluso dalla sfera
politico-elettorale; irresponsabile penalmente; può essere dimesso solo in prova o in
esperimento, per volontà del giudice; iscritto al casellario giudiziario; trasferibile a un
altro manicomio con autorizzazione del procuratore del re, indipendentemente dalla
propria volontà; iscritto su due registri (presso la procura e presso il tribunale); elencato,
dopo la dimissione, sul registro dei “dimessi dal manicomio” (sui quali era esercitato un
controllo di polizia); suscettibile di coercizione personale fisica; mantenuto a carico di
fondi pubblici diversi da quelli ospedalieri. Queste erano le principali caratteristiche
coerenti con lo scopo ufficiale della struttura manicomiale: privare il “pazzo”, il “folle”
della libertà e della capacità, perché pericoloso ed impedirgli, con ciò, di nuocere a sé e
agli altri.
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La concezione di manicomio venne ispirata dalle teorie di Lombroso, teorie che
ravvisavano i malati mentali come soggetti pericolosi, dai quali la società doveva
difendersi con una reclusione indeterminata. La pazzia doveva dar luogo a misure legate
non alla gravità clinica, ma al grado di pericolosità deducibile dallo stato della malattia.
Insomma la pericolosità sociale veniva messa al centro della psichiatria. Le norme sul
ricovero coatto contribuivano a dare la sensazione che la malattia mentale fosse
concettualmente collegabile alla polizia e ai tribunali, finendo in tal modo per costruire
un’immagine del malato mentale che assomigliava sempre più alla condizione di
delinquente, piuttosto che come un soggetto sofferente e bisognoso di cura. Infatti
l’internamento, secondo il regolamento legislativo, era destinato a durare non fino a
quando il paziente fosse guarito, ma fino a quando egli non fosse stato considerato più
pericoloso; il giudizio di questa pericolosità spettava alla azione psichiatrica, che appariva
in questa funzione più come uno strumento giudiziario che una modalità di cura. Il filtro
giurisdizionale voluto dalla legge all’ingresso dei manicomi avrebbe dovuto essere la
garanzia che solo i veri pericolosi, autentici scandalosi, avrebbero varcata la soglia del
manicomio.
La psichiatria di fine Ottocento
Nella seconda metà dell’Ottocento la lettura della follia nei termini di una
manifestazione umana stravagante e bizzarra che andava eliminata, entrò in crisi per
opera di nuove teorie della psichiatria positivista, che vedeva tale fenomeno come
l’effetto di un organismo che “funzionava male” e dei progressi nel campo della fisiologia
e dell’anatomia patologica. A partire della metà dell’Ottocento lo studio della malattia
mentale era appannaggio quasi esclusivo della psichiatria organicistica, cui i fondamenti
erano rintracciabili nella filosofia positivista. Secondo alcuni autori la psichiatria italiana
si sarebbe lasciata trascinare sul sentiero del darwinismo sociale e dalla sua sottostante
costruzione razziale della devianza. È questa ad esempio la tesi di Giancanelli e Campoli,
per i quali anche nella psichiatria italiana il modello del darwinismo influenzava le
concezioni della psichiatria. In realtà come afferma Canosa «il problema è alquanto più
complesso ed una prima analisi più approfondita mostra come il darwinismo abbia avuto
nel settore psichiatrico influssi assai minori di quelli espressi nel settore criminologico.
Certo non mancano anche negli scritti più propriamente psichiatrici riferimenti ad ipotesi
darwinistico–sociali.» (Canosa, 1979). Tali teorie ebbero influenza sulla psichiatria
italiana solo in modo marginale, in quanto il “campo d’azione” nelle dottrine della
psichiatria fu quello delle scienze criminologiche nelle quali esse erano destinate a
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celebrare i loro maggiori trionfi. Gli ambigui rapporti tra psichiatria e criminologia furono
in realtà facilitati dall’unione di queste due branche grazie alla persona di Lombroso,
psichiatra e criminologo. Lombroso non sembrava che si facesse troppe illusioni su una
sua possibile egemonia psichiatrica. Egli in un suo scritto affermava: «c’è un argomento
che attira l’attenzione se non la simpatia generale : quello delle conquiste recenti della
psichiatria. Si! Questa scienza, l’umile serva in precedenza, la cenerentola delle discipline
mediche, si è infiltrata in tante branche della conoscenza che poche possono eguagliarla
per abuso di intromissione. Essa ha dato alla medicina tutta una nuova e perfetta
classificazione dell’isteria, ha allargato il cerchio dell’ epilessia, rivelato la patologia della
pellagra, dell’alcolismo dell’ergotismo e scoperto nel cretinismo, il gozzo e il mixedema
tutta una catena di degenerescenza assai estesa, anche se ignorata, fondendone i mezzi per
la cura e qualche volta per la guarigione» (Lombroso, in Canosa, 1979).
Poco spazio si dava alle teorie antropologiche e ancora meno ne veniva dato alle
teorie psicologiche sulla malattia mentale. L’antipsicologismo costituiva un elemento
comune a tutto il pensiero psichiatrico italiano di fine Ottocento.
Buona accoglienza in Italia, sul finire dell’Ottocento fu ottenuta dall’approccio
kraepeliano, fondato sulla classificazione dei sintomi della malattia mentale; quest’ultimi
venivano estratti su base naturalistica e biologica, con il rifiuto di ogni compromesso con
la filosofia. L’accettazione del modello nosografico kraepeliano fu favorita dall’insistenza
con la quale anche la psichiatria italiana si era da tempo espressa sull’osservazione della
clinica, ed anche su una sorta di pessimismo che avvicinava la nuova scuola tedesca alle
tendenze di alcuni italiani, seguaci di Lombroso. La classificazione del modello
kraepeliano era basata sul modello biomedico, per il quale, la malattia mentale era dovuta
ad alterazioni cerebrali, che presentava manifestazioni obiettive tali da poter essere
osservate e ridotte a etichette diagnostiche e nosografiche. Kraepelin studiò
principalmente gli internati nelle case di cura e nei manicomi, attraverso il metodo
dell’osservazione diretta dei sintomi e dei comportamenti, dove il criterio di riferimento,
lo standard cui veniva misurato il comportamento del paziente, era il comportamento
dello psichiatra. Kraepelin sistemò in forme e tipi diversi, in curabili e non curabili, in
endogeni e esogeni, cercando di ancorare solidamente la prognosi e il decorso dei disturbi
alla diagnosi. Secondo Kraepelin, la sua nosografia aveva carattere universale, poiché i
sintomi psichici che egli osservò in diversi ospedali psichiatrici erano sempre gli stessi ed
erano identici tra loro; tuttavia non tenne conto che tale identità poteva essere prodotta
dall’influenza che il medesimo luogo, il manicomio, provocava, né tanto meno che ogni
soggetto è un soggetto diverso dall’altro, e che ognuno possiede i propri bisogni.
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L’antipsicologismo, inteso prevalentemente, ma non esclusivamente come
antispiritualismo, e l’organicismo furono i caratteri di fondo della psichiatria italiana di
fine Ottocento. Per quanto riguardava l’organicismo «l’insistenza su di esso appare
generale qualora lo si intenda nel senso che l’alterazione organica, celebrale e non
costituirà sempre la causa prima e nel contempo la spiegazione scientifica del disturbo
mentale (qui Lombroso si ricongiunge a con la quasi totalità degli psichiatri italiani)
laddove soltanto pochi - i lombrosiani appunto – sono disposti ad affiancare questo
organicismo per così dire primario, da gran tempo prevalente nella ricerca medica, con un
organicismo derivato che, prendendo a fondamento ed unificando apporti della più
svariata natura , antropologici, psicologici, etnologici, ecc.pretende di costruire su base
organica una sorta di personalità folle , cosi come in altri terreni tenterà, indubbiamente
con maggior fortuna, di costruire una personalità criminale» (Canosa, 1979).
La teoria psichiatrica rimaneva quasi immutata per tutto il corso del Novecento,
infatti non ci furono grandi novità. La dimensione organicistica tipica della psichiatria
italiana continuava a dominare, tranne qualche rarissima eccezione.
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Storia dei manicomi
Fino alla fine del Settecento, i folli, gli stravaganti, i pazzi, i deficienti o i menomati
vivevano nella comunità o venivano rinchiusi nella prigioni quando commettevano atti
dannosi alla collettività. Nella miseria generale in cui viveva il popolo, un pazzo, un
idiota o un ritardato mentale potevano trovare il loro posto in istituti segreganti, dato che
nel panorama di indigenza, fame, malattia e sporcizia, il volto della follia o della
menomazione poteva essere facilmente confuso con quello della miseria. Se poi il pazzo
compiva un atto delittuoso, veniva semplicemente rinchiuso in carcere ad espiare la sua
colpa insieme al delinquente, perché come tale veniva considerato. Con l'evolversi delle
conoscenze dell'uomo, anche l'atteggiamento nei confronti della pazzia mutava. Si
incominciava a comprendere che un pazzo non poteva essere ritenuto responsabile dei
suoi atti e non poteva essere segregato e incatenato come un delinquente. Alla fine del
‘700, all'Ospedale Bicetre di Parigi fu, infatti, proposta dallo psichiatra Philippe Pinel
l’abolizione delle catene agli alienati e la loro separazione dai delinquenti. Da questa
separazione, che fu definita la “prima rivoluzione psichiatrica”, nacquero i primi
manicomi. Tali strutture nacquero quindi da un gesto scientifico e umanitario, poiché per
la prima volta il folle veniva considerato un malato da curare e veniva riconosciuta la
necessità di tutelarlo dalla sua stessa malattia, che non poteva essere punita come un
delitto compiuto “in perfetta coscienza”. Tuttavia, nonostante il riconoscimento della loro
malattia, i pazzi continuarono a venire segregati in luoghi non molto diversi dalle
prigioni, dove l'elemento determinante restò sempre la pericolosità reale e presunta del
comportamento folle, insieme alla classe di appartenenza di chi veniva internato, che
molto spesso era quella dei poveri. Per quanto riguarda l’Italia la storia della follia,
secondo quanto affermato da Onagro Basaglia, incominciò nel XVIII secolo, momento
storico di fondamentale importanza che corrisponde all’epoca della Rivoluzione
Industriale. «Non si tratta di una semplice coincidenza. Non è casuale che follia,
neurastenia, sofferenza mentale, si siano manifestate in modo clamoroso soprattutto
all’epoca della Rivoluzione Industriale, quando gli scambi e i mutamenti di carattere
economico-culturale obbligano le grandi masse contadine ad emigrare, dove incontrano
forme di vita invivibili» (O. Basaglia, in Bermann, 1974). È proprio tra la fine del
Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando, con la comparsa dei primi paesi
industrializzati, comparvero le prime legislazioni in materia di assistenza psichiatrica, i
primi dibattiti sulla follia, le prime classificazioni dei folli; si svilupparono le
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istituzionalizzazioni manicomiali. Le fasi iniziali della storia dei manicomi possono
essere ricondotte alle grandi trasformazioni sociali che avvenivano con l’era industriale.
«In questa area sociale, si sviluppo una cultura basata su forti esigenze economiche, le
nazioni venivano considerate ricche se possedevano grandi concentrazione di “forza-
lavoro,” in questo modo la società era chiamata a suddividere la popolazione secondo
rigidi schemi, nei quali si stabiliva l’inclusione o l’esclusione dei cittadini, dalla società
stessa» (Ibidem). Il criterio utilizzato per classificare nelle due categorie era basato sul
concetto di abilità, chi era abile era anche utile alla società, chi non era abile era inutile e
per questo improduttivo. In quest’ultima classificazione si resero sempre più evidenti i
folli, in quanto inutili, improduttivi, dannosi e soprattutto pericolosi, tanto da poter essere
solo essere esclusi, da quella che Basaglia ha definito l’ideologia del controllo sociale.
L’escluso divenne il malato, che in quanto escluso dal sistema sociale, trovò posto solo
all’interno dei manicomi. Fu proprio intorno a questi temi che le prime legislazioni
fissarono il quadro dei principi definendo i canoni della cosiddetta “pericolosità sociale”
(Basaglia, 1980) e delle modalità di intervento per il suo trattamento. È sul concetto di
pericolosità sociale che si fondavano le norme che legittimavano le istituzioni
manicomiali. Come sostiene Canosa «quali che possano essere state le ragioni originarie
di una scelta di questo tipo, è un fatto che all’inizio dell’Ottocento la risposta sociale alla
follia è costituita dall’internamento in un asilo apposito, affidato alla professione medica e
di fatto sottratto ad ogni controllo della collettività da cui pure esso promana.
L’internamento, ultimo arrivato sulla scena della risposta sociale alla follia, vi acquista
immediatamente un ruolo predominante, sia rispetto alla malattia mentale stessa che alla
sua “cura”» (Canosa, 1979).
Il manicomio era frutto di una rimozione sociale e di una ghettizzazione della
sofferenza psichica, ed era quindi ricettacolo chiuso di qualcosa che in fondo seminava
paura. Tale struttura si presentava come una “istituzione completa”, in quanto al suo
interno era presente un controllo di grande portata. Goffman nel suo celebre scritto
“Asylum” ha delineato le caratteristiche principali presenti in tali strutture (Goffman,
1961), esse erano: « tutti gli aspetti della vita vengono controllati nel medesimo luogo e
sotto un’unica autorità; non c’è spazio per attività private oppure esso è molto limitato. Il
recluso è sempre in compagnia degli altri: tutti vengono trattati allo stesso modo e si
richiede loro di fare le stesse cose tutti insieme; c’è un rigoroso elenco di attività
giornaliere che non tiene conto degli interessi o dei desideri dei reclusi, ma che viene
imposto loro dall’alto; gli argomenti delle varie attività forzate sono uniti come parti di un
singolo progetto complessivo, di proposito studiato per gli scopi ufficiali delle istituzioni»
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(Goffman, 1961). In questo quadro di regole non c’era posto per nessuna iniziativa
personale e i pazienti erano costretti ad attenersi alle norme che, essendo molto precise,
contribuivano a caratterizzare l’istituzione manicomiale come un “istituzione completa”,
in quanto si prestavano ad essere senza possibilità di qualsiasi variante. «Negli ospedali
psichiatrici è d’uso ammassare i pazienti in grandi sale, da dove nessuno può uscire,
nemmeno per andare al gabinetto. In caso di necessità l’infermiere sorvegliante suona il
campanello, perché un secondo infermiere venga a prendere il paziente e lo accompagni.
La cerimonia è cosi lunga che molti pazienti si riducono a fare i loro bisogni sul posto.
Questa risposta del paziente ad una regola disumana viene interpretata come un dispetto
nei confronti del personale curante, o come un’espressione del livello di incontinenza del
malato, strettamente dipendente dalla malattia» ( Basaglia, 1980).
Il manicomio: struttura e organizzazione
Per poter comprendere il trattamento praticato all’interno dei manicomi è utile poter
partire della sua strutturazione e dalla sua organizzazione. Il manicomio solitamente
sorgeva alla periferia delle città, lontano dalla vita civile del paese; ed era prevista almeno
una struttura manicomiale per provincia.
Il manicomio era diviso in vari reparti: il reparto di accoglienza, quello di vigilanza,
quello dei cronici tranquilli e quello dell’infermeria; alcuni manicomi presentavano
inoltre altri tre reparti, quali quello dei minori, quello dei pazienti sudici, quello
nosografico e infine, quello dei servizi generali e quello del personale sanitario. Ogni
reparto aveva una propria funzione, ed erano presenti all’interno di queste strutture in
quantità doppie in quanto c’erano reparti femminili e reparti maschili. I reparti di
accettazione potevano dirsi come i più accoglienti, in quanto la loro funzione era proprio
quella di ricevere il paziente al suo arrivo. La carriera istituzionale incominciava in questo
reparto attraverso il quale il malato entrava nel “tunnel” dell’internamento manicomiale.
Il reparto di vigilanza invece, ospitava soltanto quei pazienti che avevano manifestato
comportamenti aggressivi o pericolosi, ed era strutturato in modo tale da poter essere
finalizzato al contenimento della potenziale pericolosità. I pazienti che venivano
ricoverati al suo interno non potevano più essere dimessi, proprio a causa della loro
presunta pericolosità. Quest’ultimo veniva definito come reparto degli inquieti, perché
raccoglieva i pazienti in crisi o comunque aggressivi, ed era organizzato in camerette di
contenzione, caratterizzate da una rigida divisione degli spazi. «Le camerette
funzionavano ad alga, sul loro pavimento, in assenza di qualsiasi altra suppellettile,
veniva steso uno strato di alghe secche che serviva al ricoverato come giaciglio, coperta e
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vestito. Andare agli inquieti era sinonimo di punizione e suonava come una minaccia
sempre presente per chi non accettasse le regole e istituzionali» (Tranchina, 1979).
Il reparto dei cronici tranquilli, invece, accoglieva tutti i pazienti che, se pur calmi,
non potevano più essere dimessi, in quanto o non avevano chi si prendesse cura di loro,
oppure una casa dove andare. Questi pazienti erano quelli che non procuravano problemi
al personale medico e di fatto avevano maggiori privilegi, ad esempio avevano maggiore
libertà ed autonomia, e nella maggior parte dei casi collaboravano con il personale
medico e avevano accettato tutte le regole dell’istituzione. Quando questi pazienti
diventavano anziani e non più autosufficienti, gravi o menomati, venivano trasferiti nel
reparto di infermeria, il quale accoglieva tutti i pazienti che erano invalidi e allettati, per i
quali l’uscita dal manicomio poteva avvenire solo attraverso il decesso. Questi erano
associabili a veri e propri reparti di geriatria.
Alcuni manicomi erano strutturati in modo tale da poter avere anche dei reparti per
minori, per i suicidi e quelli nosografici. I reparti per i minori erano quelli nei quali
venivano ricoverati i bambini provenienti dai brefotrofi o da altre strutture per l’infanzia.
Questi reparti erano probabilmente i più tristi, in quanto prevedevano la presenza dei
bambini, che al pari degli adulti venivano considerati “pericolosi a sé e agli altri”. Spesso
i bambini arrivavano al manicomio nei primi anni di vita e una volta diventati adulti
abbandonavano il reparto dei minori per essere trasferiti a quello per gli adulti.
I reparti per i sudici accoglievano pazienti che presentavano tutti la caratteristica di
essere incontinenti, ed indifferentemente per la loro età e per la loro patologia, erano
dichiarati incapaci di mantenere la pulizia della persona e per questo venivano chiusi in
questi reparti, normalmente sprovvisti di servizi igienici, in quanto utilizzabili
autonomamente dai pazienti stessi. Per questo motivo le condizioni di chi era ricoverato
in tali reparti venivano a peggiorare progressivamente, come del resto per tutti i reparti
manicomiale, in quanto non vi era possibilità di rieducazione alle regole igieniche.
I reparti nosografici erano quelli che accoglievano i pazienti che presentavo lo stesso
disturbo, sempre di natura organica e neuropsichiatria, come ad esempio per disturbi
epilettici, cerebropatici, alcolisti, ma anche per malattie mediche come la tubercolosi.
I reparti di servizi generali e del personale sanitario erano strutture deputate al
mantenimento della struttura. Il personale operante all’interno dei manicomi era composto
da psichiatri, medici, infermieri. L’infermiere aveva il compito di “nutrire, lavare e
vestire” l’internato, salvaguardandone l’integrità fisica. Lo psichiatra interveniva su
richiesta dell’infermiere in caso di un comportamento del paziente difficilmente
controllabile, specie se si pensava di dover ricorrere ad una sedazione farmacologica;
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inoltre il medico sovrintendeva al buon funzionamento del reparto e delegava agli
infermieri la normale gestione dell’internato.
Le funzioni dei manicomi
I manicomi prima ancora di essere strutture logistiche, caratterizzate dalla chiusura,
dalla separazione dal contesto sociale, dalla regressione e dalla perdita dei diritti umani,
erano un fatto culturale, una disposizione del pensiero, una ideologia. Il manicomio era un
modello teorico gestionale unitario e molto forte, che legava una concezione scientifica e
sociale della malattia mentale, quali la sua incurabilità e la sua pericolosità. Il progetto
assistenziale era caratterizzato dalla continuità e più in particolare dalla totalità del
controllo sui pazienti, offrendo molte garanzie di tutela per la società.
Gli internati venivano descritti come persone con alterato equilibrio psicologico ed un
comportamento non compatibile con quello che era l’attuale ordine sociale, per le quali la
società non trovando alcuna soluzione, sentiva la necessità di occultarli. Inoltre gli
internati erano, nella maggior parte dei casi appartenenti alle classi meno abbienti. Date
queste caratteristiche, le funzioni del manicomio potevano essere ricondotte ad almeno
quattro: tutela dell’ordine pubblico, funzione assistenziale e sanitaria, funzione curativa
per i pazienti, funzione scientifica e funzione di tutela per la società.
La funzione di tutela dell’ordine pubblico, quella di poter sollevare la società dalla
presenza di soggetti, che pur non avendo commesso veri e propri reati, che giustificavano
la carcerazione, creavano problemi e disturbi all’ordine sociale, e per tali motivi venivano
istituzionalizzati. Il manicomio infatti, manteneva numerosi rapporti con altri organismi
di normalizzazione della società: autorità giudiziaria, polizia, carcere e manicomio
giudiziario. In tal modo si rispondeva al bisogno di controllo e di esclusione sociale per i
pazienti psichiatrici. Un’altra funzione del manicomio, a favore della società, era lo
sfruttamento della forza lavoro dei pazienti ricoverati all’interno dei manicomi, la
cosiddetta ergoterapia, praticata e legittimata grazie alla legge 36 del 1904.
Il manicomio nasceva dalla funzione di contenere gli “scarti della società”, anche se
manteneva il carattere assistenziale con la caratteristica di occultare i problemi, piuttosto
che risolverli. Un’assistenza che tutelava i familiari piuttosto che i malati. La funzione
curativa era molto limitata e subordinata ai bisogni di tutela e di assistenza. Solitamente
all’interno dei manicomi le cure restavano prerogativa dei soli pazienti che venivano
ricoverati per un periodo di tempo circoscritto. Per i pazienti che per anni restavano
rinchiusi in manicomio non si poteva parlare di cura, ma solo di cronicizzazione della
malattia stessa, dovuta alla stratificazione sul disturbo originario della malattia