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INTRODUZIONE 
 
Scopo di questa tesi è riflettere sulle rappresentazioni di genere veicolate 
all’interno delle fiction per adolescenti. L’attenzione si rivolge quindi ai modelli 
di femminilità e maschilità che vengono costruiti e proposti dai teen drama, agli 
stereotipi riguardanti la dimensione di genere e ai valori che i personaggi 
femminili e maschili esprimono all’interno delle narrazioni. 
La dimensione di genere costituisce un elemento fondamentale nella 
costruzione delle identità individuali: i nuovi nati vengono educati a comportarsi 
come bambine o bambini a seconda delle caratteristiche biologiche possedute, un 
processo che comincia persino prima della nascita (acquisto vestiti e giocattoli, 
arredamento cameretta, ecc.) (Ruspini 2001). 
Il genere, come ormai consolidato da numerose teorie e studi che si sono 
sviluppati a partire dalla seconda metà del secolo scorso (per una rassegna cfr. 
Wallace e Wolf, 1994; Piccone Stella e Saraceno 1996), è una costruzione 
sociale che a partire dalle differenze biologiche, cioè dal sesso, definisce gli 
appropriati comportamenti legati all’essere donna o uomo. Le differenze, quindi, 
non sono “naturali” ma il prodotto della cultura umana, dunque variabili nel 
tempo e nello spazio. 
Il carattere sociale e quindi mutevole della dimensione di genere pare 
pertanto evidente: oggi viviamo una fase di profondo mutamento sociale che sta 
investendo le identità di genere e le pratiche quotidiane dimostrano i 
cambiamenti in atto (per esempio la partecipazione femminile al mercato del 
lavoro; la ridefinizione della divisione dei compiti di cura, ecc.). 
A questo processo di costruzione e cambiamento partecipano 
congiuntamente diverse agenzie di socializzazione, private e pubbliche: famiglia, 
sistema scolastico, gruppo dei pari, mezzi di comunicazione di massa. 
È proprio su quest’ultima agenzia che desidero focalizzare la mia 
attenzione poiché oggi assistiamo a quel processo di “mediatizzazione della
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cultura” (Thompson, 1998) per cui «la presenza pervasiva e istituzionalizzata dei 
media induce trasformazioni nella cultura, nell’esperienza, nelle rappresentazioni 
sociali e nelle immagini di realtà» (Grossi, Ruspini, 2007, p. XIV). I media 
agiscono quindi come “agenti di socializzazione” che offrono modelli di 
identificazione, «propongono figure femminili e maschili che diventano modelli 
di comportamento normativi dal momento che la loro elevata visibilità li 
trasforma in strumenti di legittimazione sociale» (Capecchi, 2009, p. 4).  
Partendo da queste premesse, ho scelto di concentrami sul mezzo 
televisivo che resta ancora quello più diffuso e pervasivo (Istat, 2010) e in 
particolare sul genere seriale.  
La fiction è stata lungamente denigrata (Moores 1998) e considerata un 
genere “per casalinghe”. Oggi invece, grazie a numerosi studi (Buonanno 2005; 
Moores 1998; Radway 1987), la fiction è rivalutata e considerata a tutti gli effetti 
un prodotto culturale degno di attenzione scientifica. Le fiction sono storie, 
narrazioni che generano emozioni ed empatia; nei loro personaggi ci si può 
identificare; propongono una morale, modelli di comportamento, indicano dei 
modi di essere. In altre parole entrano a far parte della nostra vita quotidiana (cfr. 
Leccardi e Jedlowski 2003) e del nostro immaginario, della nostra visione del 
mondo oltre che della nostra personale identità. Senza rispecchiare fedelmente la 
realtà, e senza propriamente deformarla, i racconti della fiction televisiva 
selezionano, rielaborano, discutono e commentano temi e problemi della vita 
personale e sociale (Buonanno 2004). La serialità televisiva è quindi un prodotto 
della cultura umana e va dunque presa in esame perché le storie che racconta e 
che crea sono il tramite attraverso il quale la società rappresenta sé stessa (Ibid., 
2005). 
Inoltre, il pubblico che ne fruisce è sempre più variegato e differenziato 
sia per quanto riguarda il genere, sia per altre dimensioni come per esempio l’età 
e il ceto (Capecchi 2006), coinvolgendo quindi sempre più spettatori. 
La ricerca ha deciso di riflettere in modo particolare sulla fiction rivolta a 
un pubblico adolescente, i così detti teen drama.
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Questo per due ordini di ragioni. In primo luogo perché il genere seriale 
costituisce il tipo di programma più apprezzato e seguito da ragazze e ragazzi, 
come emerge da una recente ricerca Istat (2008). Poi perché si ritiene che la 
fiction per adolescenti costituisca un importante veicolo di trasmissione di 
modelli di genere. L’adolescenza rappresenta una fase di crescita importante e 
problematica allo stesso tempo, nella quale ragazzi e ragazze sperimentano nuove 
esperienze sia a livello corporeo (pubertà) sia a livello delle relazioni sociali. In 
questo periodo della propria vita viene pian piano a definirsi la propria identità, 
vengono consolidati oppure cambiati i comportamenti di genere appresi 
nell’infanzia. 
Le fiction per adolescenti paiono pertanto veicolo di modelli di genere ai 
quali ragazze e ragazzi possono attingere per la costruzione del proprio sé 
sessuato. 
Ma la fiction, come la televisione in generale, è anche una forma narrativa 
che esprime la tensione tra tradizione e modernità tipica della nostra epoca 
storica (Grossi, Ruspini 2007). Infatti da un lato offre occasioni di 
consolidamento di stereotipi e tradizionalismi, mentre dall’altro riflette e si 
portatrice di elementi di novità e mutamento. Come appena detto, la serie è un 
genere che si presta particolarmente a proporre cambiamenti: sta infatti “al passo 
coi tempi” e cioè rappresenta sempre più le nuove situazioni sociali che si sono 
formate (per esempio donne lavoratrici, intraprendenti e scaltre; uomini che sono 
capaci di esprimere il proprio lato sentimentale e dimostrano di prendersi cura 
con affetto della famiglia e dei figli in particolare) (Capecchi 2006). 
L’attenzione è pertanto rivolta ad osservare non solo quali modelli di 
femminilità e maschilità sono veicolati dalle fiction oggetto della nostra analisi, 
ma anche se tali modelli sono permeati da stereotipi o presentano delle 
caratteristiche nuove e legate al mutamento sociale in atto. Ciò al fine di valutare 
se i teen drama costituiscono un canale di comunicazione dove, accanto a 
immagini consolidate, possono aprirsi degli spiragli per un nuovo immaginario
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che arricchisce l’orizzonte delle possibilità di confronto e sperimentazione di 
genere di ragazze e ragazzi. 
Per indagare i modelli di genere veicolati dalle fiction considerate mi sono 
concentrata in particolare sui valori, cioè sull’importanza o meno attribuita a 
diversi temi, come per esempio, l’amore, l’amicizia, l’indipendenza, il successo, 
che i personaggi esprimono all’interno delle narrazioni. 
La scelta di concentrare il mio lavoro sulla dimensione valoriale messa in 
scena è motivata dal fatto che le identità di genere dei personaggi vengono 
espresse e veicolate proprio attraverso i valori che esprimono. Osservando le 
interazioni sociali e gli scambi comunicativi è quindi possibile estrapolare quali 
rappresentazioni della femminilità e della maschilità vengono proposte al 
pubblico.  
Passiamo ora a presentare le domande che muovono la nostra ricerca: 
quali valori legati al genere propongono le fiction per adolescenti? Sono presenti 
differenze tra femmine e maschi? Quali immagini di femminilità e maschilità 
emerge dai personaggi adolescenti in particolare? È possibile tracciarne dei 
profili? Le rappresentazioni veicolano stereotipi tradizionali o trasformazioni 
legate ai mutamenti sociali? 
Si è altresì deciso di operare un breve confronto tra i personaggi 
adolescenti e quelli adulti, con lo scopo osservare la presenza (o rilevare 
l’assenza) di una differenza nei sistemi valoriali dei due gruppi, anche in questo 
caso con un’ottica di genere, oltre che di generazione. Inoltre ho considerato una 
fiction rivolta ad un pubblico adulto con lo scopo di confrontarne i risultati con 
quelli ottenuti dai due gruppi precedenti. Questo perché è importante osservare se 
un serial rivolto ad un pubblico più maturo può essere veicolo di diversi modelli 
di genere rispetto alla fiction per adolescenti. Mi sono quindi chiesta: esistono 
differenze tra i valori espressi dagli adolescenti e dagli adulti? E tra ragazze e 
donne, e ragazzi e uomini? Gli adulti dei teen drama esprimono valori diversi 
rispetto a quelli presenti nella fiction per adulti?
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Infine, ho deciso di analizzare due dimensione con uno “sguardo” 
qualitativo: l’aspetto esteriore di alcuni personaggi femminili e l’espressione 
della genitorialità nei ruoli materni e paterni. Queste sono infatti sembrate 
dimensioni significative che emergevano all’interno del quadro generale delle 
storie narrate. Inoltre rappresentano due dimensioni oggi al centro del discorso 
pubblico: la strumentalizzazione del corpo femminile da una parte e i 
cambiamenti all’interno della famiglia e della relazione di genere, come per 
esempio i “nuovi padri” (Ruspini e Zajczyk 2008) attenti, sensibili e 
comprensivi, dall’altra. Mi sono dunque chiesta: la dimensione corporea occupa 
una posizione centrale nei personaggi? Quale modello di femminilità è 
prevalente? Quali significati riveste? E ancora: quali modelli di maternità e 
paternità vengono rappresentati? Riflettono tradizionalismi o i mutamenti in atto?  
Questo lavoro di ricerca è strutturato nel seguente modo. 
Nel capitolo 1 verrà discussa il concetto di genere e la sua costruzione 
sociale, facendo anche un breve quadro delle teorie che ne hanno affrontato la 
questione.  
Il capitolo 2 presenterà un breve excursus sull’importanza di studiare 
(ancora) la televisione oggi nonostante l’avvento dei new media. Inoltre verrà 
affrontato il legame tra televisione e rappresentazione di genere, nella sua 
peculiare tensione tra stereotipi e mutamento. 
Nel capitolo 3, si restringerà ancora il quadro per arrivare al punto centrale 
del lavoro: la fiction per adolescenti. Qui verrà definita la fiction, il suo essere un 
prodotto culturale, la sua struttura narrativa, i personaggi come mezzo di 
identificazione e le motivazioni dell’importanza che riveste tale canale di 
comunicazione nella formazione delle identità di genere. 
Con il capitolo 4 prende avvio il processo di ricerca vero e proprio. 
Espliciteremo innanzitutto il quadro metodologico: disegno della ricerca, 
tecniche di analisi impiegate (analisi del contenuto in particolare), la definizione 
del campione e le scelte che ci hanno portato a selezionare le sette fiction oggetto 
di analisi; poi l’analisi dei dati.
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Nel capitolo 5, che costituisce il fulcro del nostro percorso di ricerca, 
commenteremo le tabelle di sintesi relative ai valori espressi dai personaggi 
adolescenti e tenteremo la costruzione di profili di genere. Inoltre verrà discusso 
anche il confronto tra personaggi adolescenti e adulti. 
Infine, nel capitolo 6, approfondiremo la rappresentazione della 
dimensione corporea e dei ruoli genitoriali.
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1.  LA COSTRUZIONE SOCIALE DEL GENERE E I 
RAPPORTI TRA LE GENERAZIONI 
 
 
 1.1   Il genere come costrutto sociale 
La divisione maschile/femmine è una costante che attraversa tutta la storia 
dell’umanità. «Concepita in modo statico, giustificata sovente con il ricorso alla 
biologia, estranea al tempo della storia, la contrapposizione perpetua stereotipi e 
costruisce un senso comune che tende a definire il maschile e il femminile come 
entità autoevidenti, essenze inconfutabili» (Leccardi 2005, p.7). La “naturalità” 
della differenza è stata storicamente affermata a partire dal sesso
1
 biologico, 
infatti «non ci si pone il problema del rapporto tra sesso e identità di genere 
perché, si crede, non vi è discordanza tra quest’ultima e la propria anatomia: i 
maschi diventeranno “naturalmente” uomini e le femmine donne (la biologia è un 
destino)» (Ruspini 2005, p.11). Il sesso, le peculiarità anatomiche e biologiche 
costituiscono la base attraverso la quale legittimare diversi comportamenti, 
atteggiamenti, capacità, attitudini e posizioni sociali occupate. Ma donne e 
uomini non sono solo contrapposti, sono anche complementari, legati da un 
rapporto di attrazione al quale non possono sottrarsi. 
La parte biologica rappresenta quindi la base sulla quale si è creato e 
consolidato il senso comune
2
 sulle differenze di genere, «quell’insieme di 
definizioni che, nel momento in cui vengono applicate, agiscono sul mondo 
stesso» (Jedlowski, p. 6).   
                                                           
1
 Il sesso è determinato dalle specificità che, all’interno della stessa specie, 
contraddistinguono soggetti diversamente predisposti alla funzione riproduttiva: livelli 
ormonali, organi sessuali interni ed esterni, capacità riproduttive, ecc. (Ruspini 2001, p. 
9).  
2
 Il senso comune è un insieme di credenze, di concettualizzazioni, di valutazioni della 
realtà e massime per l’agire condiviso entro un determinato gruppo sociale (Jedlowsky 
p. 4).
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Questo stato di differenza e contrapposizione ha così caratterizzato i 
rapporti tra donne e uomini e le loro percezioni del sé fino a quando, grazie ai 
movimenti e agli studi femministi si è presa coscienza della costruzione sociale 
delle differenze legate all’appartenenza biologica. 
La riflessione sistematica sulla condizione femminile inizia con il volume 
“Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir (1949). Il concetto di differenza è la 
categoria di riferimento dell’analisi dell’autrice, la quale indica la necessità di 
superare la visione gerarchica dominante che vede la donna come altro e secondo 
sesso, inferiore al maschile che è invece assunto come norma. 
Ma è la studiosa Gayle Rubin che, pubblicando nel 1975 il suo famoso 
saggio “Traffic in Women. Notes on the Political Economy of Sex”, introdusse 
per la prima volta nel discorso scientifico il concetto di gender e sex-gender 
system. 
Questo testo ha dato un’importante svolta al dibattito e agli studi femministi 
(ma ha offerto una nuova prospettiva analitica anche alla sociologia) perché 
l’autrice sposta l’attenzione dal discorso sulla condizione femminile al rapporto 
tra i due sessi, da un dato di partenza biologico e immutabile alla relazionalità e 
mutabilità. In questo modo smaschera la costruzione socioculturale dei due sessi 
e i significati attribuiti che organizzano la divisione dei compiti. Critica 
aspramente la naturale inferiorità femminile che nasce dalla soppressione di 
similarità in un momento storicamente determinato che può essere oggetto di 
cambiamento e mutamento (Rubin 1975). 
Con sex-gender system Rubin denomina l’insieme dei processi, adattamenti, 
modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società trasforma la 
sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei 
compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro: creando, 
appunto, “il genere” (Piccone Stella, Saraceno 1996). 
Il contributo di Rubin è importante perché lega il biologico al sociale, ma 
riesce a mantenere la “giusta distanza” tra di essi: esiste una differenza biologica 
che non si può negare ma questa non è la causa diretta delle differenze nei
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comportamenti tra uomini e donne; è la costruzione sociale che avviene 
attraverso la continua interazione e negoziazione dei significati che forma le 
categorie di uomo e donna, di maschilità e femminilità. A partire da una 
differenza biologica si costruiscono così universi diversi, che non sono però 
necessariamente contrapposti e polarizzati, ma intersecati e sfumati, nei quali le 
diverse caratteristiche si mescolano, dando vita a una molteplicità di modi di 
essere donna e di essere uomo. 
La formulazione del concetto di genere deriva la sua origine dalla 
constatazione di uno squilibrio all’interno di una realtà sessuata, subìto dalle 
donne che attraverso questo concetto hanno la possibilità di ripensare alla loro 
condizione. Joan Scott (1987) analizza questo squilibrio indagando come si sia 
costruito il sapere sulla differenza sessuale e attraverso quali modi si stabiliscono 
specifiche relazioni di potere e subordinazione tra uomini e donne (Di Cori 
1996). Sono i produttori del sapere che attraverso la pratica discorsiva 
“costruiscono” la gerarchia tra i generi: «l’identità sessuale è parte fondante di 
questo processo di costruzione discorsiva; lo è in un duplice senso: essa emerge 
come frutto di relazioni di potere ed è a sua volta uno strumento primario di 
generazione delle disparità» (Barazzetti 2002, p.24). 
Il genere è anche un costrutto sociale multidimensionale «complesso, 
dinamico, variabile, variamente declinato sulla base di differenti contesti storici, 
realtà culturali e condizioni sociali» (Barazzetti, Leccardi 2001, p.7). L’essere 
donna o l’essere uomo sono il prodotto di un  processo storico che ha attraversato 
le diverse culture e società, all’interno delle quali sono stati diversamente definiti 
il maschile e il femminile. «Di pari passo con l’evolversi dei costumi, degli stili 
di vita e – più in generale- della complessa relazione tra economia e società, 
alcune prerogative che contraddistinguono il genere maschile e femminile sono 
andate incontro a numerose variazioni e altrettante ne subiranno in futuro» 
(Ruspini 2001, p.15).  
Costituisce inoltre un modo di classificare, di indicare il modo sessuato, le 
caratteristiche anatomiche con le quali le persone si presentano e sono percepite.
15 
 
Poiché nella società convivono due sessi il termine genere indica questa duplice 
presenza. È solo con lo specifico concorso di un persistente rinforzo, sociale e 
culturale, che tali differenze acquisiscono quel peso, quel significato e quella 
portata che tutti conoscono. «Si tratta dunque di un termine binario, non univoco: 
gli uomini, come le donne, costituiscono il genere» (Piccone Stella, Saraceno 
1996, p. 8). 
La duplicità del genere pone in modo radicale la questione della costruzione 
sociale dell’appartenenza al sesso perché è negata la separazione 
maschile/femminile e affermata l’inscindibilità della loro relazione. Inoltre ha 
permesso di spogliare il pensiero maschile del suo carattere neutrale, del suo aver 
storicamente costituito “il genere”, il solo “sesso” degno di nota.  
Il genere dunque è anche un codice che implica reciprocità, dialettica 
costante fra le sue componenti di base. Uomini e donne, maschile e femminile, 
relazioni e interazioni, tutto ciò è incluso nel genere (Piccone Stella, Saraceno 
1996). 
Così concepito il genere acquisisce una dimensione spaziale e temporale 
che può mutare (mentre prima il rapporto tra uomini e donne era ritenuto 
immutabile perché legato alle caratteristiche biologiche), può essere decostruito, 
manipolato, trasformato. 
Il genere non è qualcosa di fisso e cristallizzato, ma è fluido, relazionale, 
sempre in movimento (Ruspini 2001). È necessario superare la concezione 
dualistica e polarizzata del genere perché essa impedisce di cogliere le sfumature, 
i molteplici modi di costruzione della propria identità di genere, distribuita sul 
continuum tra maschile e femminile. 
 
 
1.2  Le teorie: un breve excursus 
Presentiamo in questo paragrafo un breve excursus sulle teorie e gli 
approcci che hanno affrontato e introdotto la questione del genere nel discorso
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scientifico e, più in generale, in quello sociale.  Bisogna sottolineare che il 
concetto di genere è abbastanza recente e rappresenta quindi un terreno fertile 
che offre un’ottica nuova nella lettura dei rapporti sociali. 
Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento tende a prevalere il modello 
della parità tra i sessi. Secondo questa prospettiva, sorta negli Stati Uniti, donne 
e uomini sono esseri umani uguali e le donne devono riequilibrare la loro 
condizione di svantaggio emancipandosi attraverso il lavoro. Il genere è qui 
considerato neutro, la contestazione è focalizzata sulla disparità tra i sessi più che 
sulla costruzione sociale del genere e il modello di riferimento è quello maschile 
(Capecchi 2006).  
Successivamente, nel corso degli anni ottanta, questi approcci vengono 
messi in discussione, sia negli Stati Uniti che in Europa, perché si rifiuta la 
politica egualitaria che porta le donne ad assimilarsi alla logica maschile. Il 
modello della parità tra i sessi viene così in parte sostituito da quello che 
possiamo definire il modello della valorizzazione femminile (Capecchi 2006). 
In questo contesto si colloca l’approccio essenzialista o culturalista che 
sostiene che la base biologica della differenza sessuale (sessualità e capacità della 
donna di dare la vita) è essenziale per la definizione delle qualità dell’essere 
donna o uomo. Nancy Chodorow (1978) colloca in particolare l’origine della 
differenziazione sociale e psicologica dei due generi nella funzione materna, non 
nel corpo ma nell’attribuzione di quelle caratteristiche che da esso sono 
socialmente costruite: la cura dei bambini, un atteggiamento amorevole, 
comprensivo, sensibile. 
Questo discorso però si basa su qualità innate e valorizza la cultura 
femminile non già come esperienza, costrutto relazionale, ma viene radicata nel 
corpo materno che è ciò che consente particolari capacità psicologiche, 
relazionali, conoscitive, quindi un particolare modo di fare cultura (Piccone 
Stella, Saraceno 1996). 
In questa visione il genere diventa inscindibile dall’anatomia dei due sessi e 
la loro differenza è qualcosa d’insormontabile, che si è socialmente costruita, ma
17 
 
trova le sue fondamenta in un corredo biologico che ne cambia profondamente le 
qualità del carattere. 
Molte sono le critiche fatte a quest’approccio e qui ne riportiamo 
brevemente solo alcune. Innanzitutto, nonostante il suo intento di valorizzare le 
caratteristiche femminili, finisce per cristallizzarne le qualità da sempre attribuite 
o imposte alle donne. È anche una linea di ragionamento che confina le donne nel 
loro bagaglio di qualità e capacità, le rende omogenee attraverso l’uguaglianza 
delle caratteristiche anatomiche non tenendo conto della pluralità dei modi nei 
quali ci si possa sentire donna. 
I contributi più importanti al modello della valorizzazione femminile sono 
dati dai Women’s Studies, la cui prospettiva ha come obiettivo valorizzare le 
differenze esistenti tra donne e uomini, la cultura femminile, “snaturalizzare” le 
disparità, decostruire l’universalità dei dogmi maschili (Irigaray 1985). A 
differenza dell’approccio essenzialista  la donna è valorizzata come cultura, come 
esperienza, come relazione e non a partire dalla sua anatomia. Diventa inoltre 
soggetto attivo nella presa di consapevolezza e percezione del proprio essere 
donna. 
Non solo il concetto di genere ha permesso alla donna di riconoscersi come 
soggettività, attore attivo nella definizione della sua e altrui identità, ma ha fatto 
sì che si iniziasse a rivolgere lo sguardo verso gli uomini, divenuti una variante 
del genere, e osservare come anche la maschilità fosse costruita. A fianco dei più 
rodati Women’s Studies sono così sorti anche i Men’s Studies. Questo filone 
approfondisce la questione delle identità interrogandosi sul maschile e su come 
questo sia stato costruito storicamente e socialmente (Vedovati 2007). Lo 
sguardo maschile che ha caratterizzato la storia diventa così parziale, una delle 
due facce del genere. 
Nell’ultimo decennio si è sviluppato il modello postgenere il cui intento è di 
decostruire la dualità binaria maschile/femminile, superare le differenze di 
genere, «categorie socialmente costruite che rischiano di ingabbiare donne e 
uomini entro confini prestabiliti senza tenere conto delle scollature esistenti tra
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sesso biologico, identità di genere e orientamento sessuale» (Capecchi 2006, p. 
21). 
In quest’ottica opera l’approccio decostruzionista, i cui autori di riferimento 
sono Derrida (1969;1991) e Foucault (1999a). Al contrario dell’essenzialismo 
sostiene che non vi è alcun corredo biologico a dare origine alla diversificazione 
del genere ma una stratificazione di simboli e significati. L’attenzione è volta a 
smontare il processo di costruzione storico-sociale responsabile dell’esistenza dei 
due generi. È dall’esterno, attraverso il linguaggio e i discorsi che si costruiscono 
i modelli di femminilità e maschilità. 
Da questo punto di vista, essendo il genere un costrutto allo “stato puro”, 
può venire scomposto e liberato, decostruito appunto. Si può disfare il discorso 
sociale e mostrarne il carattere fittizio: questo vale soprattutto per le donne che 
possono così riflettere sull’artificiosità della loro storica condizione di 
subordinazione nei confronti degli uomini e smontandone i precetti aprire lo 
spazio a una nuova e più consapevole percezione del sè. 
Tuttavia decostruendo il genere, cioè smontata la pratica che lo ha generato, 
si corre il rischio di farlo scomparire sia come categoria analitica conoscitiva, sia 
come differenze date dalle diverse esperienze e sperimentazioni delle donne 
lungo la loro vita, esperienze che vengono ridotte ad interpretazioni. 
Da una parte quindi il decostruzionismo suona incoraggiante per le donne 
perché mostra loro che le categorie che le definiscono sono una finzione e 
offrendo nuovi orizzonti entro i quali sperimentare e definire la propria 
femminilità; dall’altra le scoraggia dal cercare di essere un soggetto autonomo 
perché il tentativo di reinventarsi e darsi nuove definizioni finirebbe con il 
tramutarsi in nuove finzioni, impedendo così di uscire da questo circolo vizioso 
(Piccone Stella, Saraceno 1996).  
Infine, all’interno del paradigma di stampo postmodernista si è sviluppata 
anche la teoria delle differenze locali o situate che tenta una sintesi tra le varie 
prospettive. A questa ricomposizione teorica hanno partecipato studiose di varie 
discipline quali Linda Alcoff, Linda Nicholson, Nancy Fraeser, per citarne