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INTRODUZIONE
Scopo di questa tesi è riflettere sulle rappresentazioni di genere veicolate
all’interno delle fiction per adolescenti. L’attenzione si rivolge quindi ai modelli
di femminilità e maschilità che vengono costruiti e proposti dai teen drama, agli
stereotipi riguardanti la dimensione di genere e ai valori che i personaggi
femminili e maschili esprimono all’interno delle narrazioni.
La dimensione di genere costituisce un elemento fondamentale nella
costruzione delle identità individuali: i nuovi nati vengono educati a comportarsi
come bambine o bambini a seconda delle caratteristiche biologiche possedute, un
processo che comincia persino prima della nascita (acquisto vestiti e giocattoli,
arredamento cameretta, ecc.) (Ruspini 2001).
Il genere, come ormai consolidato da numerose teorie e studi che si sono
sviluppati a partire dalla seconda metà del secolo scorso (per una rassegna cfr.
Wallace e Wolf, 1994; Piccone Stella e Saraceno 1996), è una costruzione
sociale che a partire dalle differenze biologiche, cioè dal sesso, definisce gli
appropriati comportamenti legati all’essere donna o uomo. Le differenze, quindi,
non sono “naturali” ma il prodotto della cultura umana, dunque variabili nel
tempo e nello spazio.
Il carattere sociale e quindi mutevole della dimensione di genere pare
pertanto evidente: oggi viviamo una fase di profondo mutamento sociale che sta
investendo le identità di genere e le pratiche quotidiane dimostrano i
cambiamenti in atto (per esempio la partecipazione femminile al mercato del
lavoro; la ridefinizione della divisione dei compiti di cura, ecc.).
A questo processo di costruzione e cambiamento partecipano
congiuntamente diverse agenzie di socializzazione, private e pubbliche: famiglia,
sistema scolastico, gruppo dei pari, mezzi di comunicazione di massa.
È proprio su quest’ultima agenzia che desidero focalizzare la mia
attenzione poiché oggi assistiamo a quel processo di “mediatizzazione della
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cultura” (Thompson, 1998) per cui «la presenza pervasiva e istituzionalizzata dei
media induce trasformazioni nella cultura, nell’esperienza, nelle rappresentazioni
sociali e nelle immagini di realtà» (Grossi, Ruspini, 2007, p. XIV). I media
agiscono quindi come “agenti di socializzazione” che offrono modelli di
identificazione, «propongono figure femminili e maschili che diventano modelli
di comportamento normativi dal momento che la loro elevata visibilità li
trasforma in strumenti di legittimazione sociale» (Capecchi, 2009, p. 4).
Partendo da queste premesse, ho scelto di concentrami sul mezzo
televisivo che resta ancora quello più diffuso e pervasivo (Istat, 2010) e in
particolare sul genere seriale.
La fiction è stata lungamente denigrata (Moores 1998) e considerata un
genere “per casalinghe”. Oggi invece, grazie a numerosi studi (Buonanno 2005;
Moores 1998; Radway 1987), la fiction è rivalutata e considerata a tutti gli effetti
un prodotto culturale degno di attenzione scientifica. Le fiction sono storie,
narrazioni che generano emozioni ed empatia; nei loro personaggi ci si può
identificare; propongono una morale, modelli di comportamento, indicano dei
modi di essere. In altre parole entrano a far parte della nostra vita quotidiana (cfr.
Leccardi e Jedlowski 2003) e del nostro immaginario, della nostra visione del
mondo oltre che della nostra personale identità. Senza rispecchiare fedelmente la
realtà, e senza propriamente deformarla, i racconti della fiction televisiva
selezionano, rielaborano, discutono e commentano temi e problemi della vita
personale e sociale (Buonanno 2004). La serialità televisiva è quindi un prodotto
della cultura umana e va dunque presa in esame perché le storie che racconta e
che crea sono il tramite attraverso il quale la società rappresenta sé stessa (Ibid.,
2005).
Inoltre, il pubblico che ne fruisce è sempre più variegato e differenziato
sia per quanto riguarda il genere, sia per altre dimensioni come per esempio l’età
e il ceto (Capecchi 2006), coinvolgendo quindi sempre più spettatori.
La ricerca ha deciso di riflettere in modo particolare sulla fiction rivolta a
un pubblico adolescente, i così detti teen drama.
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Questo per due ordini di ragioni. In primo luogo perché il genere seriale
costituisce il tipo di programma più apprezzato e seguito da ragazze e ragazzi,
come emerge da una recente ricerca Istat (2008). Poi perché si ritiene che la
fiction per adolescenti costituisca un importante veicolo di trasmissione di
modelli di genere. L’adolescenza rappresenta una fase di crescita importante e
problematica allo stesso tempo, nella quale ragazzi e ragazze sperimentano nuove
esperienze sia a livello corporeo (pubertà) sia a livello delle relazioni sociali. In
questo periodo della propria vita viene pian piano a definirsi la propria identità,
vengono consolidati oppure cambiati i comportamenti di genere appresi
nell’infanzia.
Le fiction per adolescenti paiono pertanto veicolo di modelli di genere ai
quali ragazze e ragazzi possono attingere per la costruzione del proprio sé
sessuato.
Ma la fiction, come la televisione in generale, è anche una forma narrativa
che esprime la tensione tra tradizione e modernità tipica della nostra epoca
storica (Grossi, Ruspini 2007). Infatti da un lato offre occasioni di
consolidamento di stereotipi e tradizionalismi, mentre dall’altro riflette e si
portatrice di elementi di novità e mutamento. Come appena detto, la serie è un
genere che si presta particolarmente a proporre cambiamenti: sta infatti “al passo
coi tempi” e cioè rappresenta sempre più le nuove situazioni sociali che si sono
formate (per esempio donne lavoratrici, intraprendenti e scaltre; uomini che sono
capaci di esprimere il proprio lato sentimentale e dimostrano di prendersi cura
con affetto della famiglia e dei figli in particolare) (Capecchi 2006).
L’attenzione è pertanto rivolta ad osservare non solo quali modelli di
femminilità e maschilità sono veicolati dalle fiction oggetto della nostra analisi,
ma anche se tali modelli sono permeati da stereotipi o presentano delle
caratteristiche nuove e legate al mutamento sociale in atto. Ciò al fine di valutare
se i teen drama costituiscono un canale di comunicazione dove, accanto a
immagini consolidate, possono aprirsi degli spiragli per un nuovo immaginario
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che arricchisce l’orizzonte delle possibilità di confronto e sperimentazione di
genere di ragazze e ragazzi.
Per indagare i modelli di genere veicolati dalle fiction considerate mi sono
concentrata in particolare sui valori, cioè sull’importanza o meno attribuita a
diversi temi, come per esempio, l’amore, l’amicizia, l’indipendenza, il successo,
che i personaggi esprimono all’interno delle narrazioni.
La scelta di concentrare il mio lavoro sulla dimensione valoriale messa in
scena è motivata dal fatto che le identità di genere dei personaggi vengono
espresse e veicolate proprio attraverso i valori che esprimono. Osservando le
interazioni sociali e gli scambi comunicativi è quindi possibile estrapolare quali
rappresentazioni della femminilità e della maschilità vengono proposte al
pubblico.
Passiamo ora a presentare le domande che muovono la nostra ricerca:
quali valori legati al genere propongono le fiction per adolescenti? Sono presenti
differenze tra femmine e maschi? Quali immagini di femminilità e maschilità
emerge dai personaggi adolescenti in particolare? È possibile tracciarne dei
profili? Le rappresentazioni veicolano stereotipi tradizionali o trasformazioni
legate ai mutamenti sociali?
Si è altresì deciso di operare un breve confronto tra i personaggi
adolescenti e quelli adulti, con lo scopo osservare la presenza (o rilevare
l’assenza) di una differenza nei sistemi valoriali dei due gruppi, anche in questo
caso con un’ottica di genere, oltre che di generazione. Inoltre ho considerato una
fiction rivolta ad un pubblico adulto con lo scopo di confrontarne i risultati con
quelli ottenuti dai due gruppi precedenti. Questo perché è importante osservare se
un serial rivolto ad un pubblico più maturo può essere veicolo di diversi modelli
di genere rispetto alla fiction per adolescenti. Mi sono quindi chiesta: esistono
differenze tra i valori espressi dagli adolescenti e dagli adulti? E tra ragazze e
donne, e ragazzi e uomini? Gli adulti dei teen drama esprimono valori diversi
rispetto a quelli presenti nella fiction per adulti?
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Infine, ho deciso di analizzare due dimensione con uno “sguardo”
qualitativo: l’aspetto esteriore di alcuni personaggi femminili e l’espressione
della genitorialità nei ruoli materni e paterni. Queste sono infatti sembrate
dimensioni significative che emergevano all’interno del quadro generale delle
storie narrate. Inoltre rappresentano due dimensioni oggi al centro del discorso
pubblico: la strumentalizzazione del corpo femminile da una parte e i
cambiamenti all’interno della famiglia e della relazione di genere, come per
esempio i “nuovi padri” (Ruspini e Zajczyk 2008) attenti, sensibili e
comprensivi, dall’altra. Mi sono dunque chiesta: la dimensione corporea occupa
una posizione centrale nei personaggi? Quale modello di femminilità è
prevalente? Quali significati riveste? E ancora: quali modelli di maternità e
paternità vengono rappresentati? Riflettono tradizionalismi o i mutamenti in atto?
Questo lavoro di ricerca è strutturato nel seguente modo.
Nel capitolo 1 verrà discussa il concetto di genere e la sua costruzione
sociale, facendo anche un breve quadro delle teorie che ne hanno affrontato la
questione.
Il capitolo 2 presenterà un breve excursus sull’importanza di studiare
(ancora) la televisione oggi nonostante l’avvento dei new media. Inoltre verrà
affrontato il legame tra televisione e rappresentazione di genere, nella sua
peculiare tensione tra stereotipi e mutamento.
Nel capitolo 3, si restringerà ancora il quadro per arrivare al punto centrale
del lavoro: la fiction per adolescenti. Qui verrà definita la fiction, il suo essere un
prodotto culturale, la sua struttura narrativa, i personaggi come mezzo di
identificazione e le motivazioni dell’importanza che riveste tale canale di
comunicazione nella formazione delle identità di genere.
Con il capitolo 4 prende avvio il processo di ricerca vero e proprio.
Espliciteremo innanzitutto il quadro metodologico: disegno della ricerca,
tecniche di analisi impiegate (analisi del contenuto in particolare), la definizione
del campione e le scelte che ci hanno portato a selezionare le sette fiction oggetto
di analisi; poi l’analisi dei dati.
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Nel capitolo 5, che costituisce il fulcro del nostro percorso di ricerca,
commenteremo le tabelle di sintesi relative ai valori espressi dai personaggi
adolescenti e tenteremo la costruzione di profili di genere. Inoltre verrà discusso
anche il confronto tra personaggi adolescenti e adulti.
Infine, nel capitolo 6, approfondiremo la rappresentazione della
dimensione corporea e dei ruoli genitoriali.
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1. LA COSTRUZIONE SOCIALE DEL GENERE E I
RAPPORTI TRA LE GENERAZIONI
1.1 Il genere come costrutto sociale
La divisione maschile/femmine è una costante che attraversa tutta la storia
dell’umanità. «Concepita in modo statico, giustificata sovente con il ricorso alla
biologia, estranea al tempo della storia, la contrapposizione perpetua stereotipi e
costruisce un senso comune che tende a definire il maschile e il femminile come
entità autoevidenti, essenze inconfutabili» (Leccardi 2005, p.7). La “naturalità”
della differenza è stata storicamente affermata a partire dal sesso
1
biologico,
infatti «non ci si pone il problema del rapporto tra sesso e identità di genere
perché, si crede, non vi è discordanza tra quest’ultima e la propria anatomia: i
maschi diventeranno “naturalmente” uomini e le femmine donne (la biologia è un
destino)» (Ruspini 2005, p.11). Il sesso, le peculiarità anatomiche e biologiche
costituiscono la base attraverso la quale legittimare diversi comportamenti,
atteggiamenti, capacità, attitudini e posizioni sociali occupate. Ma donne e
uomini non sono solo contrapposti, sono anche complementari, legati da un
rapporto di attrazione al quale non possono sottrarsi.
La parte biologica rappresenta quindi la base sulla quale si è creato e
consolidato il senso comune
2
sulle differenze di genere, «quell’insieme di
definizioni che, nel momento in cui vengono applicate, agiscono sul mondo
stesso» (Jedlowski, p. 6).
1
Il sesso è determinato dalle specificità che, all’interno della stessa specie,
contraddistinguono soggetti diversamente predisposti alla funzione riproduttiva: livelli
ormonali, organi sessuali interni ed esterni, capacità riproduttive, ecc. (Ruspini 2001, p.
9).
2
Il senso comune è un insieme di credenze, di concettualizzazioni, di valutazioni della
realtà e massime per l’agire condiviso entro un determinato gruppo sociale (Jedlowsky
p. 4).
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Questo stato di differenza e contrapposizione ha così caratterizzato i
rapporti tra donne e uomini e le loro percezioni del sé fino a quando, grazie ai
movimenti e agli studi femministi si è presa coscienza della costruzione sociale
delle differenze legate all’appartenenza biologica.
La riflessione sistematica sulla condizione femminile inizia con il volume
“Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir (1949). Il concetto di differenza è la
categoria di riferimento dell’analisi dell’autrice, la quale indica la necessità di
superare la visione gerarchica dominante che vede la donna come altro e secondo
sesso, inferiore al maschile che è invece assunto come norma.
Ma è la studiosa Gayle Rubin che, pubblicando nel 1975 il suo famoso
saggio “Traffic in Women. Notes on the Political Economy of Sex”, introdusse
per la prima volta nel discorso scientifico il concetto di gender e sex-gender
system.
Questo testo ha dato un’importante svolta al dibattito e agli studi femministi
(ma ha offerto una nuova prospettiva analitica anche alla sociologia) perché
l’autrice sposta l’attenzione dal discorso sulla condizione femminile al rapporto
tra i due sessi, da un dato di partenza biologico e immutabile alla relazionalità e
mutabilità. In questo modo smaschera la costruzione socioculturale dei due sessi
e i significati attribuiti che organizzano la divisione dei compiti. Critica
aspramente la naturale inferiorità femminile che nasce dalla soppressione di
similarità in un momento storicamente determinato che può essere oggetto di
cambiamento e mutamento (Rubin 1975).
Con sex-gender system Rubin denomina l’insieme dei processi, adattamenti,
modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società trasforma la
sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei
compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro: creando,
appunto, “il genere” (Piccone Stella, Saraceno 1996).
Il contributo di Rubin è importante perché lega il biologico al sociale, ma
riesce a mantenere la “giusta distanza” tra di essi: esiste una differenza biologica
che non si può negare ma questa non è la causa diretta delle differenze nei
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comportamenti tra uomini e donne; è la costruzione sociale che avviene
attraverso la continua interazione e negoziazione dei significati che forma le
categorie di uomo e donna, di maschilità e femminilità. A partire da una
differenza biologica si costruiscono così universi diversi, che non sono però
necessariamente contrapposti e polarizzati, ma intersecati e sfumati, nei quali le
diverse caratteristiche si mescolano, dando vita a una molteplicità di modi di
essere donna e di essere uomo.
La formulazione del concetto di genere deriva la sua origine dalla
constatazione di uno squilibrio all’interno di una realtà sessuata, subìto dalle
donne che attraverso questo concetto hanno la possibilità di ripensare alla loro
condizione. Joan Scott (1987) analizza questo squilibrio indagando come si sia
costruito il sapere sulla differenza sessuale e attraverso quali modi si stabiliscono
specifiche relazioni di potere e subordinazione tra uomini e donne (Di Cori
1996). Sono i produttori del sapere che attraverso la pratica discorsiva
“costruiscono” la gerarchia tra i generi: «l’identità sessuale è parte fondante di
questo processo di costruzione discorsiva; lo è in un duplice senso: essa emerge
come frutto di relazioni di potere ed è a sua volta uno strumento primario di
generazione delle disparità» (Barazzetti 2002, p.24).
Il genere è anche un costrutto sociale multidimensionale «complesso,
dinamico, variabile, variamente declinato sulla base di differenti contesti storici,
realtà culturali e condizioni sociali» (Barazzetti, Leccardi 2001, p.7). L’essere
donna o l’essere uomo sono il prodotto di un processo storico che ha attraversato
le diverse culture e società, all’interno delle quali sono stati diversamente definiti
il maschile e il femminile. «Di pari passo con l’evolversi dei costumi, degli stili
di vita e – più in generale- della complessa relazione tra economia e società,
alcune prerogative che contraddistinguono il genere maschile e femminile sono
andate incontro a numerose variazioni e altrettante ne subiranno in futuro»
(Ruspini 2001, p.15).
Costituisce inoltre un modo di classificare, di indicare il modo sessuato, le
caratteristiche anatomiche con le quali le persone si presentano e sono percepite.
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Poiché nella società convivono due sessi il termine genere indica questa duplice
presenza. È solo con lo specifico concorso di un persistente rinforzo, sociale e
culturale, che tali differenze acquisiscono quel peso, quel significato e quella
portata che tutti conoscono. «Si tratta dunque di un termine binario, non univoco:
gli uomini, come le donne, costituiscono il genere» (Piccone Stella, Saraceno
1996, p. 8).
La duplicità del genere pone in modo radicale la questione della costruzione
sociale dell’appartenenza al sesso perché è negata la separazione
maschile/femminile e affermata l’inscindibilità della loro relazione. Inoltre ha
permesso di spogliare il pensiero maschile del suo carattere neutrale, del suo aver
storicamente costituito “il genere”, il solo “sesso” degno di nota.
Il genere dunque è anche un codice che implica reciprocità, dialettica
costante fra le sue componenti di base. Uomini e donne, maschile e femminile,
relazioni e interazioni, tutto ciò è incluso nel genere (Piccone Stella, Saraceno
1996).
Così concepito il genere acquisisce una dimensione spaziale e temporale
che può mutare (mentre prima il rapporto tra uomini e donne era ritenuto
immutabile perché legato alle caratteristiche biologiche), può essere decostruito,
manipolato, trasformato.
Il genere non è qualcosa di fisso e cristallizzato, ma è fluido, relazionale,
sempre in movimento (Ruspini 2001). È necessario superare la concezione
dualistica e polarizzata del genere perché essa impedisce di cogliere le sfumature,
i molteplici modi di costruzione della propria identità di genere, distribuita sul
continuum tra maschile e femminile.
1.2 Le teorie: un breve excursus
Presentiamo in questo paragrafo un breve excursus sulle teorie e gli
approcci che hanno affrontato e introdotto la questione del genere nel discorso
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scientifico e, più in generale, in quello sociale. Bisogna sottolineare che il
concetto di genere è abbastanza recente e rappresenta quindi un terreno fertile
che offre un’ottica nuova nella lettura dei rapporti sociali.
Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento tende a prevalere il modello
della parità tra i sessi. Secondo questa prospettiva, sorta negli Stati Uniti, donne
e uomini sono esseri umani uguali e le donne devono riequilibrare la loro
condizione di svantaggio emancipandosi attraverso il lavoro. Il genere è qui
considerato neutro, la contestazione è focalizzata sulla disparità tra i sessi più che
sulla costruzione sociale del genere e il modello di riferimento è quello maschile
(Capecchi 2006).
Successivamente, nel corso degli anni ottanta, questi approcci vengono
messi in discussione, sia negli Stati Uniti che in Europa, perché si rifiuta la
politica egualitaria che porta le donne ad assimilarsi alla logica maschile. Il
modello della parità tra i sessi viene così in parte sostituito da quello che
possiamo definire il modello della valorizzazione femminile (Capecchi 2006).
In questo contesto si colloca l’approccio essenzialista o culturalista che
sostiene che la base biologica della differenza sessuale (sessualità e capacità della
donna di dare la vita) è essenziale per la definizione delle qualità dell’essere
donna o uomo. Nancy Chodorow (1978) colloca in particolare l’origine della
differenziazione sociale e psicologica dei due generi nella funzione materna, non
nel corpo ma nell’attribuzione di quelle caratteristiche che da esso sono
socialmente costruite: la cura dei bambini, un atteggiamento amorevole,
comprensivo, sensibile.
Questo discorso però si basa su qualità innate e valorizza la cultura
femminile non già come esperienza, costrutto relazionale, ma viene radicata nel
corpo materno che è ciò che consente particolari capacità psicologiche,
relazionali, conoscitive, quindi un particolare modo di fare cultura (Piccone
Stella, Saraceno 1996).
In questa visione il genere diventa inscindibile dall’anatomia dei due sessi e
la loro differenza è qualcosa d’insormontabile, che si è socialmente costruita, ma
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trova le sue fondamenta in un corredo biologico che ne cambia profondamente le
qualità del carattere.
Molte sono le critiche fatte a quest’approccio e qui ne riportiamo
brevemente solo alcune. Innanzitutto, nonostante il suo intento di valorizzare le
caratteristiche femminili, finisce per cristallizzarne le qualità da sempre attribuite
o imposte alle donne. È anche una linea di ragionamento che confina le donne nel
loro bagaglio di qualità e capacità, le rende omogenee attraverso l’uguaglianza
delle caratteristiche anatomiche non tenendo conto della pluralità dei modi nei
quali ci si possa sentire donna.
I contributi più importanti al modello della valorizzazione femminile sono
dati dai Women’s Studies, la cui prospettiva ha come obiettivo valorizzare le
differenze esistenti tra donne e uomini, la cultura femminile, “snaturalizzare” le
disparità, decostruire l’universalità dei dogmi maschili (Irigaray 1985). A
differenza dell’approccio essenzialista la donna è valorizzata come cultura, come
esperienza, come relazione e non a partire dalla sua anatomia. Diventa inoltre
soggetto attivo nella presa di consapevolezza e percezione del proprio essere
donna.
Non solo il concetto di genere ha permesso alla donna di riconoscersi come
soggettività, attore attivo nella definizione della sua e altrui identità, ma ha fatto
sì che si iniziasse a rivolgere lo sguardo verso gli uomini, divenuti una variante
del genere, e osservare come anche la maschilità fosse costruita. A fianco dei più
rodati Women’s Studies sono così sorti anche i Men’s Studies. Questo filone
approfondisce la questione delle identità interrogandosi sul maschile e su come
questo sia stato costruito storicamente e socialmente (Vedovati 2007). Lo
sguardo maschile che ha caratterizzato la storia diventa così parziale, una delle
due facce del genere.
Nell’ultimo decennio si è sviluppato il modello postgenere il cui intento è di
decostruire la dualità binaria maschile/femminile, superare le differenze di
genere, «categorie socialmente costruite che rischiano di ingabbiare donne e
uomini entro confini prestabiliti senza tenere conto delle scollature esistenti tra
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sesso biologico, identità di genere e orientamento sessuale» (Capecchi 2006, p.
21).
In quest’ottica opera l’approccio decostruzionista, i cui autori di riferimento
sono Derrida (1969;1991) e Foucault (1999a). Al contrario dell’essenzialismo
sostiene che non vi è alcun corredo biologico a dare origine alla diversificazione
del genere ma una stratificazione di simboli e significati. L’attenzione è volta a
smontare il processo di costruzione storico-sociale responsabile dell’esistenza dei
due generi. È dall’esterno, attraverso il linguaggio e i discorsi che si costruiscono
i modelli di femminilità e maschilità.
Da questo punto di vista, essendo il genere un costrutto allo “stato puro”,
può venire scomposto e liberato, decostruito appunto. Si può disfare il discorso
sociale e mostrarne il carattere fittizio: questo vale soprattutto per le donne che
possono così riflettere sull’artificiosità della loro storica condizione di
subordinazione nei confronti degli uomini e smontandone i precetti aprire lo
spazio a una nuova e più consapevole percezione del sè.
Tuttavia decostruendo il genere, cioè smontata la pratica che lo ha generato,
si corre il rischio di farlo scomparire sia come categoria analitica conoscitiva, sia
come differenze date dalle diverse esperienze e sperimentazioni delle donne
lungo la loro vita, esperienze che vengono ridotte ad interpretazioni.
Da una parte quindi il decostruzionismo suona incoraggiante per le donne
perché mostra loro che le categorie che le definiscono sono una finzione e
offrendo nuovi orizzonti entro i quali sperimentare e definire la propria
femminilità; dall’altra le scoraggia dal cercare di essere un soggetto autonomo
perché il tentativo di reinventarsi e darsi nuove definizioni finirebbe con il
tramutarsi in nuove finzioni, impedendo così di uscire da questo circolo vizioso
(Piccone Stella, Saraceno 1996).
Infine, all’interno del paradigma di stampo postmodernista si è sviluppata
anche la teoria delle differenze locali o situate che tenta una sintesi tra le varie
prospettive. A questa ricomposizione teorica hanno partecipato studiose di varie
discipline quali Linda Alcoff, Linda Nicholson, Nancy Fraeser, per citarne