2
germogliarono in stili che esprimevano l‘unità e l‘autorità della classe dirigente. Era un fiorire di
una vigorosa cultura pubblica che poteva venire condivisa da Cristiani, Politeisti ed Ebrei4. Ma la
Chiesa, estranea alle logiche di gruppo della vecchia élite, si era rafforzata anche nella lotta ai
movimenti ereticali, progressivamente coinvolgendo la corte come i fedeli, scatenando spesso la
piazza, portando allo scontro. La Chiesa fu in grado di offrire all‘imperatore un‘ideologia del potere
che non ammetteva dubbi e che infine poté presentarsi come alternativa a quella senatoriale5.
La teoria di Eusebio di affermava che Costantino era il rappresentante di Dio sulla terra. Gli
imperatori potevano nominare e deporre i patriarchi, convocare i concili ecumenici e parteciparvi,
impegnarsi in discussioni teologiche, e pubblicare opere su argomenti dottrinali. Gli imperatori
quindi legiferarono su questioni riguardanti la Chiesa, cercando ad esempio di controllare le
ordinazioni (che comportavano privilegi fiscali) e di ridimensionare il potere dei vescovi. Non erano
tuttavia consacrati con una cerimonia religiosa e di tanto in tanto subivano umiliazioni da parte dei
vescovi, così come la Chiesa si poteva opporre al loro potere.6
Per quanto riguarda la cristianizzazione del territorio la rappresentazione della storia religiosa del
periodo 311-425 fornita da una generazione di scrittori cristiani voleva che in quegli anni si fosse
assistito alla ―morte del paganesimo‖ e che questa morte fosse ―naturale‖ conseguenza di un a lungo
preparato ―trionfo del monoteismo‖; pertanto, l‘epoca sarebbe stata punteggiata di tragici episodi
durante la successione degli imperatori, da Costantino I a Teodosio II, i quali avrebbero svolto il
loro ruolo divino nell‘abolire ―l‘errore dei greci‖, in cui i devoti degli antichi dei cercavano invano
di persistere7. In principio, la rappresentazione Cristiana del periodo fu formulata da Isidoro di
Pelusium8: egli imponeva il racconto di un netto spartiacque a partire dalla crocifissione del Cristo e
poi da Costantino I, ma in realtà il secolo fra Costantino e Teodosio II fu il ―secolo oscillante‖, ove
4
Brown 1998, pgg. 651-652.
5
Clemente 1996, pg. 77.
6
Cameron 1993, pgg. 84-85.
7
Brown 1998, pg. 633.
8
Isid. Pelus., Ep. 1.270, PG LXXVIII.344a.
3
la Chiesa emerse come vincitrice, ma solo dopo aver combattuto. Questa vittoria garantita - in cui le
resistenze alla conversione erano definite come lo strepitus mundi, il ―ruggito‖ di un mondo in
veloce assorbimento nella Chiesa - veniva raccontata per confortare i fedeli cristiani in tempi in cui
il paganesimo era ancora ben presente entro il loro orizzonte. Una narrazione della cristianizzazione
che puntava non sulla conversione, ma sul trionfo. Per molti cristiani era sufficiente che la Chiesa
avesse vinto e fosse vista vincere; i non credenti dovevano venire umiliati, la conversione si
pensava, sarebbe seguita. In ogni caso per i cristiani era sufficiente che i non credenti non
esternassero davanti a loro il loro credo, godendo così di una tolleranza basata sullo sprezzo9. La
Cristianizzazione dell‘amministrazione e dell‘élite che la sovrintendeva mantenne una ambiguità
molto studiata10. Nel V secolo, quindi, il Mediterraneo sembrava seguire la regola della
convivencia, fra una Cristianità trionfante e una discreta, persistenza dei politeisti11.
Ma agli inizi del quinto secolo, critici cristiani avevano evocato una 'rappresentazione' del proprio
tempo che era l‘opposto della precedente immagine trionfale: un mito del declino della chiesa,
accompagnata da una idealizzazione del periodo pre-costantiniano, che fu accettata da molti
cristiani. In questo mito, la nuova concezione del declino della chiesa venne esplicitata da Agostino
d‘Ippona nel 39212, quando incontrò una delegazione di cattolici vecchia maniera: egli disse che
dopo la conversione di Costantino, 'folle di pagani' avevano voluto entrare in chiesa perché non
potevano sopportare di rinunciare alla 'baldoria e l'ubriachezza con cui erano stati abituati a
celebrate le feste degli idoli', e che un clero tenero di cuore li aveva fatti entrare senza troppi
problemi. Il politeismo, già associato al termine ―paganesimo‖, si rivelava essere un nemico più
subdolo di quanto non si pensasse in precedenza. Non era più questione di abbattere le statue degli
dei e proibire i sacrifici a loro dedicati, il politeismo era sopravvissuto all'interno della Chiesa
stessa, sotto forma di abitudini che dovevano ora essere evitate da tutti i cristiani. Alcune
9
Brown 1998, pgg. 634-641.
10
Ibidem., pgg. 652-653.
11
Ibid., pgg. 641-642.
12
Aug., Ep. 29,8-9.
4
consuetudini, quindi, che non avevano avuto l'approvazione di un austero gruppo di critici,
potevano essere considerate 'abitudini dei pagani‘. Agostino sostenne anche che coloro che erano
entrati nella chiesa avevano portato con sé l'ombra di un modo di vivere antico: Antiquitas, ovvero
'antichità, la madre di tutti i mali', era l'ultimo nemico di tutti i veri cristiani13. Tali riflessioni erano
tipiche della pars Occidentis dell‘impero, amplificate dalla grave crisi dello stato qui verificatasi al
tempo delle invasioni barbariche. Nell'Impero d'oriente, al contrario, tra gli scrittori greci del V
secolo si affermò l‘eccitante immagine di una grande metabolé: la celebrazione di una
trasmutazione possente, con la quale il passato non cristiano scorreva in una trionfale era cristiana14.
Un altro dei principi fondamentali della Chiesa fu la sua occupazione nel sostentamento di vedove e
orfani. Dopo il 313, l‘impegno nelle opere di carità si espresse anche nella creazione di fondazioni
benefiche, per cui, attraverso le donazioni e il finanziamento di tali istituzioni, la Chiesa oltre a
ridistribuire ricchezza iniziò a svolgere un ruolo di primaria importanza nella trasformazione
urbanistica ed economica delle città. A differenza della beneficenza di epoca classica, la carità
cristiana infatti era volta ai bisognosi, della cui esistenza l‘aristocrazia romana non era consapevole.
Molti cristiani seppero rinunciare ai propri beni, come Paolino di Nola e Melania Juniore che, con il
marito Piniano, cedette le sue vaste proprietà per condurre una vita in sintonia con il principio
evangelico di povertà. Simili rinunce non erano così drastiche come sembrano, poiché i donatori si
preoccupavano in primo luogo delle proprie famiglie e poi, anziché elargire quanto restava
direttamente ai poveri, preferivano affidarlo alla Chiesa incaricandola della distribuzione e
accrescendo in tal modo la sua ricchezza. Va detto inoltre che molti monasteri fondati a seguito di
tali donazioni avevano spesso una gestione aristocratica e non erano immuni da privilegi15.
Le vicende di questo periodo vedono intrecciarsi lo sviluppo del vescovato di Roma con l‘adesione
dell‘amplissimo ordo al Cristianesimo. Il processo di cristianizzazione dell‘aristocrazia fra quarto e
13
Aug. Serm. de Saltat., PL Suppl. IV.974.
14
Brown 1998, pgg. 662-664.
15
Cameron 1993, pgg. 95-97.
5
quinto secolo, quando essa annoverava fra i suoi membri ancora molti pagani, incontrò resistenze
dovute alle serie preoccupazioni per il mantenimento del patrimonio familiare suscitate dalle
donazioni alla chiesa e dallo svincolo delle donne dall‘obbligo di contrarre matrimonio. La
contraddizione fra l‘esortazione cristiana alla rinuncia e al celibato e la necessità di procreare e
salvaguardare il patrimonio familiare, al fine di conservare la società stessa, divenne un problema
reale
16
. In un simile contesto, l‘adesione al cristianesimo, e soprattutto alla vita ascetica, di membri
delle famiglie senatorie più illustri, fu vista come una minaccia alla condizione acquisita, alla
ricchezza e alla tradizione17. A fine IV secolo, però, la cristianizzazione del senato era andata molto
avanti, così come il processo di integrazione della Chiesa con l‘aristocrazia stessa. Perciò anche la
drammatica rottura praticata da Teodosio negli ultimi anni del suo impero non provocò una frattura
irreparabile né mutò radicalmente i rapporti sociali. Il senato, ormai in maggioranza cristiano - e che
aveva favorito la caduta di Stilicone - reagì alla sua politica verso i barbari e non alla sua fede,
anche se la propaganda tesa a giustificare la repressione contro il generale montò accuse religiose18.
Dopo il sacco di Roma, i latifondisti estorsero all‘imperatore Onorio immediate concessioni fiscali,
e anche i vescovi ottennero quello che desideravano: l‘imposizione decisa dell‘unità cattolica in
tutte le province. In questo tempo, dopo il 410 d.C., molti senatori si erano rifugiati in Africa ed
erano tornati in Italia con copie d‘omaggio della Città di Dio - ove Agostino affermava che i mali
del mondo venivano dalla continua tolleranza del politeismo - e non erano più pagani, né arbitri
neutrali negli affari religiosi19. Pochi anni dopo, nel secondo decennio del V secolo, le famiglie, ai
cui membri Pelagio si rivolgeva, erano scivolate gradualmente nel cristianesimo attraverso il
conformismo politico e i matrimoni misti. Ciò significava che il «buon uomo» convenzionale della
Roma pagana era diventato il «buon cristiano» convenzionale del V secolo. Il formalismo della
bassa romanità poteva sembrare «umiltà cristiana»; la generosità che tradizionalmente ci si
16
Cameron 1993, pg. 96.
17
Ibidem, pg. 108.
18
Clemente 1996, pgg. 77-78.
19
Brown 1998, pg. 340.
6
aspettava dai patrizi, era divenuta «carità Cristiana». Comunque, questi «buoni cristiani» erano
l‘elite che faceva osservare le leggi imperiali infliggendo pene brutali, pronta a difendere i propri
latifondi con le unghie e con i denti20.
Nei profondi cambiamenti in atto in occidente nel V secolo, furono principalmente gli aristocratici,
istruiti nella disciplina della retorica, a ricoprire la carica episcopale. Esemplare da questo punto di
vista fu Martino di Tours, tanto stimato da diventare, dopo la morte, oggetto di culto. Paolino di
Nola è invece l‘esempio dell‘aristocratico che, avendo rinunciato a buona parte delle ricchezze e
stabilitosi nella piccola città di Nola in Campania, divenne vescovo agli inizi del secolo quinto e
costruì un complesso di edifici sacri. Così fece anche il suo amico Sulpicio Severo per celebrare
San Martino. Se il papato acquistò maggiore importanza e potere, sino all‘apice raggiunto al tempo
in cui il Tomus di Leone I suscitava grande scalpore durante il Concilio di Calcedonia del 451, ciò
fu dovuto anche all‘abilità e all‘energia di questi vescovi21. Una notevole quantità di ricchezze
venne dirottata in quegli anni verso la Chiesa, cosa che ebbe buoni effetti sulla vita dei poveri e
sull‘economia delle località in cui sorgevano i monasteri, ma soprattutto andò a vantaggio della
stessa Chiesa, che in questo periodo gettava le basi del suo potere economico e territoriale, ovvero
le basi del ricco papato medievale22.
b. Il senato
La classe di grandi latifondisti occidentali - apprendiamo da una lettera del 376 scritta dal senatore
Q. Aurelio Simmaco e indirizzata al collega Vetteio Agorio Pretestato, come anche dall‘opera del
senatore spagnolo Aurelio Prudenzio, nel suo Contra Symmachum, scritta 25 anni più tardi - si
riteneva la ―parte migliore del genere umano‖, la ―luce del mondo‖, senza far distinzioni fra
aristocratici pagani e cristiani, senatori di antica o di recente nobiltà; era convinta della propria
20
Brown 1998, pg. 351.
21
Cameron 1993, pgg. 80-84.
22
Ibidem, pg. 96.
7
eccellenza, di essere cioè l‘unico gruppo sociale legittimato per virtù intrinseca, a guidare il governo
e l‘amministrazione dello stato. L‘immagine propagandistica che l‘ordine senatorio propone nel
corso di tutto il tardo-impero, fino alla data fatidica del 476 d.C. e oltre, descrive il senato di Roma
come l‘espressione politico-operativa di una classe superiore e ‗diversa‘, depositaria della tradizione
più antica e pura della res publica romana (che si fonda sul mos maiorum e sulla prisca virtus), e
per questa ragione investita in eterno dal diritto-dovere di reggere le sorti dello stato23. Il recupero
di potere politico da parte del senato romano trasse impulso dalla crisi profonda del potere
burocratico-imperiale occidentale all‘indomani della bipartizione del 395 d.C., crisi che poi si
aggravò dopo la fine dell‘età stiliconiana e il sacco di Roma. Esso non avrebbe comunque potuto
verificarsi se fossero venute meno rendita fondiaria e prestigio morale. Nel corso del V secolo, la
ormai ristrettissima cerchia delle grandi famiglie senatorie romane, sul piano economico riuscirono
a conservare, se non ad accrescere24, i propri livelli di ricchezza e sul piano sociale consolidò presso
l‘opinione pubblica l‘immagine di un ordine senatorio più che mai legittimato a riprendere in mano
le redini dello stato25.
Il periodo d‘instabilità politico-militare seguito alla morte del generale Stilicone (408), si concluse
con l‘energica politica antibarbarica ripresa da Onorio e con i successi conseguiti dal generale
Flavio Costanzo che avevano segnato una ripresa del prestigio imperiale. I successi contro gli
usurpatori, realizzati da Costanzo, estraneo all‘élite senatoria, riaffermavano il ruolo dei referenti
effettivi del governo dei quali il Senato romano doveva tenere conto.
In quegli stessi anni dell‘affermazione del magister militum Fl. Costanzo, il senatore di origine
gallica Rutilio Namaziano scrive il De Reditu Suo (417) - opera impregnata dell‘intima
23
Roda 1996, pg. 5.
24
Amm. XIV 6, 28. 4; Olymp. fr. 44 FHG, IV 67-8.
25
Roda 1996, pg. 300.
8
consapevolezza del glorioso passato repubblicano del senato, come anche del suo enorme potere
economico – dove l‘autore evita di citare le azioni di Costanzo26.
Nei versi che precedono il celeberrimo inno di lode a Roma e alla sua eternità Namaziano rivolge
alla classe senatoria un elogio che tocca toni ignoti anche alla pubblicistica filo senatoria del secolo
precedente, pur a suo tempo duramente impegnata nell‘opera di legittimazione ideologica del ruolo
guida dell‘ordine. In apertura del poemetto, egli delinea l‘immagine della curia senatoriale come
quella di un consesso superiore e autorevole, aggregato e coeso da una forza unificatrice di natura
sovrumana, che consente ai senatori di sentirsi classe superiore e ‗diversa‘, legittimata all‘esercizio
del governo dell‘impero. Dell‘autorità e dell‘unità dell‘impero il senato e l‘ordine senatorio sono
fonte prima, nel quadro di una visione politico/ideologica totalizzante, che esclude il ruolo
dell‘imperatore. In altri termini Rutilio tratteggia un quadro di concreto riferimento politico, che
tende a riproporre la virtus senatoria come indispensabile elemento non solo morale, ma anche
operativo, per la rinascita dell‘impero dopo la crisi visigota, considerando anche il fatto che più di
un quinto del poemetto è consacrato all‘esaltazione di membri dell‘ordine in quegli anni in gran
parte viventi e al governo. Nella realtà descritta da Rutilio, in cui il potere imperiale è quanto meno
ignorato, la responsabilità della conduzione dello stato pare tornata nelle mani della classe
senatoria, alla quale appunto spetta il gravoso ma esaltante compito della ricostruzione materiale e
morale27.
Per i decenni restanti della prima metà del V secolo, altre forme di propaganda senatoriale le
abbiamo sotto forma di iscrizioni epigrafiche poste nel foro Traiano a Roma. Del secondo quarto
del V secolo è la statuam auro fulgentem con epigrafe alla base che gli imperatori Teodosio II e
Valentiniano III fecero innalzare in onore dell‘altrimenti sconosciuto ex-prefetto di Roma Flavius
Olbius Auxentius Draucus28, ciò su richiesta del senato romano. Draucus viene esaltato con accenti
26
Febronia 1999, pgg. 23 – 24.
27
Roda 1996, pgg. 293-299.
28
CIL VI 1725 = ILS 1284.
9
di fervore prima inusitati: il testo infatti spicca, da un lato, per la retorica utilizzata che supera i
parametri consueti all‘epigrafia onoraria tardoantica, dall‘altro, per la particolare struttura
dell‘encomio imperiale che, facendo perno sulla persona e sulla carriera di Draucus si dilata fino a
coinvolgere l‘intera assemblea senatoriale. Ne viene citato il cursus honorum e il suo devoto
assumere le cariche più significative, ma più rilevanti sono le note che le accompagnano e che
sottolineano come una simile carriera si fosse svolta secondo una tale integrità, capacità di
discernimento, misura, equilibrio e rispetto del proprio ruolo da procurargli la stima imperiale e la
riconoscenza di tutto il senato. Così facendo, gli imperatori dedicanti, per un verso, sottolineano con
vigore la capacità/diritto da parte del senato di valutare con correttezza le dignitates e quindi di
decidere quali fossero le persone giuste per assumere le funzioni di governo, per l‘altro celebrano
un campione dell‘attitudine dei senatori all‘administratio, facendo esplicito ricorso proprio ad
alcuni fra i termini (come meritum, di moderatio, di virtus, di probitas) appartenenti al linguaggio
ideologico clarissimo, sviluppato nella seconda metà del secolo precedente29.
A non molti anni prima risale l‘iscrizione - anch‘essa collocata, su impulso del senato, nel Foro
Traiano e incisa come la precedente sul piedistallo di una statua - offerta al vir clarissimus, Petronio
Massimo dai regnanti Onorio, Teodosio II e Costanzo III30. Per loro ordine la statua, quale
meritorium perenne monumentum era stata innalzata nel foro Ulpio: i meriti di Petronio Massimo
erano accresciuti dal fatto che tutta la sua carriera, fino al prestigio della prefettura urbana era stata
percorsa prima del compimento del venticinquesimo anno d‘età. Questo testo epigrafico presenta
evidenti analogie con il precedente e si colloca in forma meno diretta nel medesimo ambito
ideologico filosenatorio. L‘ambito a cui pertiene pure, del resto, la maggior parte dell‘epigrafia
senatoria occidentale della prima metà del V secolo31.
29
Roda 1996, pgg. 285-287.
30
CIL VI 1749 = ILS 809.
31
Roda 1996, pgg. 287-288.
10
In forma diversa ma convergente, dunque, le iscrizioni senatorie della prima metà del V secolo e il
testo di Rutilio rispecchiano, sul piano della retorica propagandistica, il fatto che in quell‘epoca le
grandi famiglie all‘interno dell‘aristocrazia senatoria romana erano riuscite a imporsi come
elemento equilibrante nei rapporti fra corte, impero bizantino, generali barbari e forze foederatæ32.
Significative furono le conquiste ottenute dal senato romano nella prima metà del V secolo. Già
L‘imperatore Onorio, a causa dell‘invasione di Alarico, non potendo resistere alle pressioni della
classe senatoria, stabilì che venissero esonerati dalla praebitio tironum, dalla collatio equorum e
dalle praestationes aurariae gli illustres e numerosi dignitari spectabiles e che fossero obbligati ai
munera suddetti coloro quos honorarios vocavit antiquitas33.
A causa dell‘intensificarsi degli scambi reciproci fra grandi latifondisti, all‘aumento delle terre
possedute dai potentes corrispose una contrazione dei mercati, che però non avevano mai raggiunto
uno sviluppo significativo34.
I senatori furono in grado quindi di controllare l‘economia imperiale, riconquistando anche parte
consistente della loro antica capacità di controllo e di direzione delle funzioni di governo. La
circoscritta élite delle grandi famiglie dell‘aristocrazia romana – che aveva sempre mantenuto
competenze sulla giurisdizione finanziaria35, in materia fiscale così come non perse mai del tutto
nemmeno la competenza in materia legislativa36 - rientrò in più circostanze da protagonista nel
gioco politico, esercitando incisive azioni sia di condizionamento rispetto alla corte di Treviri,
Milano o Ravenna, sia di riequilibrio rispetto agli uomini forti e a gruppi di pressione interni ed
esterni alla parte occidentale dell‘impero. L‘aristocrazia senatoria romana vive dunque da
protagonista l‘intera storia del tardo impero romano, di cui resta costantemente, anche se in modi e
32
Roda 1996, pgg. 299-300.
33
CTh. 11,18,1; 11,16,23=C I. 10,48,16; Febronia 1999, pg. 31.
34
Cameron 1993, pg. 107.
35
Specialmente dell‗amministrazione della città di Roma.
36
Febronia 1999, pg. 33; Cameron 1993, pg. 108 A partire dalla riforma di Valentiniano I del 372, il senato venne
rivoluzionato attraverso l‘immissione di una nuova gerarchia di rango: se in precedenza a un senatore era sufficiente
essere chiamato vir clarissimus, dopo quella data al di sopra dei clarissirni si trovavano gli spectabiles, a loro volta
superati dagli illustres; il possesso di questi titoli era legato a particolari cariche nella burocrazia statale da cui
derivavano anche altri privilegi.
11
forme di volta in volta diverse, uno dei principali motori. Una realtà contraddittoria, in bilico fra
tradizione e rinnovamento, fra continuità e frattura, fra speranze di rinascita e sintomi di
dissoluzione37.
Difatti, la carriera folgorante di Petronius Maximus, eccezionale nella sua rapidità anche per i
contemporanei, fu possibile grazie alla sua appartenenza a una delle famiglie senatoriali più
facoltose del tempo38.
Si può dire generalizzando che, nei decenni successivi al sacco di Roma, l‘amplissimo ordine
romano ebbe modo di ritornare – da posizioni paritarie e a pieno titolo - nell‘agone della politica,
ottenendo pure dall‘imperatore pubblico riconoscimento dell‘attitudine senatoriale all‘administratio
nonché il diritto alla leadership di governo, cosi come dimostra il testo dell‘iscrizione di Olbius
Auxentius Draucus39.
La situazione delle aristocrazie terriere provinciali, però, fu assai diversa: l‘insediamento definitivo
dei barbari nelle Gallie, negli ultimi anni del regno di Onorio e nei due decenni successivi, già dopo
il sacco di Alarico aveva indotto numerosi senatori ad abbandonare Roma per ricoprire le cariche
circoscritte alla loro provincia. Da ciò ne venne che solo una piccola percentuale di clarissimi,
abitualmente residenti a Roma o nelle vicinanze, partecipava alle riunioni senatorie40. All‘interno
della nobilitas si andava così creando una diversità di vedute dettate dalla differente realtà politico-
sociale in cui la classe aristocratica provinciale, diversamente da quella italica, si trovava a
operare41.
Quindi i magnati laici gallo-romani, nel V secolo, furono costretti a prendere le armi. Decenni di
convivenza con i barbari avevano diffuso di nuovo l‘uso delle armi, inoltre i senatori disponevano
di seguiti armati, formati dai buccellarii. Abbiamo testimonianza delle attività belliche di Aureliano
37
Roda 1996, pg. 6.
38
Vera 1996, pgg. 169-169.
39
Roda 1996, pgg. 301-302.
40
Febronia 1999, pg. 25.
41
Ibidem, pgg. 51-52.
12
che combatté accanto a Clodoveo a Tolbiac contro gli Alamanni; di Ecdicio che condusse una
banda armata levata fra i suoi contadini — «una specie di esercito pubblico», secondo Sidonio
Apollinare (che ne era cognato) — per combattere i Visigoti; infine, sappiamo di Tito che agì a
capo di una banda di buccellarii in Gallia, compiendo gesta armate così clamorose da venire
nominato comes dall‘imperatore bizantino Leone (457-474)42. Per converso, l‘aristocrazia romana
era ancora abituata ad essere protetta da altri ed era perciò riluttante a intraprendere azioni proprie o
a fare quelle concessioni che avrebbero potuto preservare l‘impero. Nel V secolo fu il complesso
funzionamento del prelievo fiscale e pagamento e rifornimento delle truppe ad andare in crisi,
rendendo lo stato impotente43.
c. L’esercito.
Nella prima metà del V secolo le istituzioni militari della Pars Occidentis fallirono la sfida della
sopravvivenza posta dalle tribù. La distinzione fra limitanei e comitatenses divenne irrilevante
quando un po‘ tutte le province, Italia esclusa, vivevano condizioni da frontiera44; l‘autorità di
Ravenna evaporò insieme con la sua abilità di provvedere alla paga e ai rifornimenti dell‘esercito,
mentre quest‘ultimo era composto da forze provenienti in gran parte dalle tribù il cui stato di
federate diveniva sempre più teorico, o da leader locali capaci di ricavare il necessario potenziale
militare dalle loro particolari regioni45.
42
Gasparri 1997, pg. 89.
43
Withby 2000, pg. 297.
44
Ibidem, pgg. 288-291 L‘esercito romano nel periodo tardo imperiale era suddiviso fra guarnigioni o unità territoriali e
unità mobili, una distinzione che in gran parte si accorda ai termini presenti nelle fonti di limitanei e comitatenses: i
primi erano assegnati a regioni di frontiera, gli ultimi in teoria lo erano alla compagnia dell‘imperatore. La distinzione
non era rigida, in quanto un‘unità poteva essere trasferita senza che le venisse necessariamente cambiata la categoria
d‘appartenenza. I limitanei servivano sotto il diretto comando dei duces, in carica su un dato territorio di frontiera, ma a
fini operativi potevano venire incorporate negli eserciti di manovra guidata dai magistri militum. I comitatenses
potevano venire a loro volta distinti in due ampie categorie: quelli che servivano nelle forze centrali o palatine, che
avevano base nelle vicinanze delle capitali imperiali, Ravenna e Costantinopoli ed erano comandate da un magister
praesentalis, e quelli che erano assegnati agli eserciti regionali, capitanati da un magister militum col titolo geografico
della specifica regione
45
Ibid., pg. 300.