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quest’ultima si genera e si mantiene grazie all’influenza reciproca tra
resoconti propri e narrazioni altrui.
Secondo questo indirizzo teorico, parlare di se stessi (resoconto) non
vuol dire solo descrivere ciò che si prova in quel momento, ma significa
avere un proprio punto di vista in base al quale la persona farà suo un
modo di essere, agendo nel mondo in funzione della visione che ha di
esso.
Inoltre, ciò che gli altri dicono di essa ha una certa influenza su questo
processo generativo d’identità e questo trova ragione anche in ambito
medico-clinico.
E’ proprio per questo motivo che l’ottica narrativistica considera ogni
forma di etichetta diagnostica per descrivere i fenomeni in ambito
clinico, come processi discorsivi che alimentano l’identità “malata”, per
cui la persona fa propri repertori discorsivi “tipizzati” (se la persona
viene diagnosticata in ambito clinico come “depressa”, questa può
generare una nuova costruzione del resoconto, inserendo in esso
elementi di “depressione”) (vedi cap.3).
Il narrativismo, proprio per spezzare ciò che individua come “circolo
vizioso”, propone una nuova forma di diagnosi che sostiene un processo
di conoscenza progressivo tra terapeuta e paziente, in cui il primo,
ponendo attenzione al resoconto del paziente, gli fornisce una storia
diversa dalla propria, che tralasci tutti gli elementi del disagio (processo
di interazione-dialogo).
A tal proposito è stata svolta una ricerca empirica, che, grazie ad un
questionario, ha cercato di portare alla luce gli elementi rappresentativi
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dei resoconti dei pazienti e delle narrazioni degli psichiatri,
relativamente alla somministrazione di un farmaco particolare: il sale di
litio.
Dal punto di vista teorico adottato, infatti, l’eventuale omogeneità
contenutistica dei “discorsi” di entrambe le parti potrebbe indicare che
esistano repertori narrativi ai quali il paziente è “vincolato” e perciò il
processo generativo d’identità è costruito e mantenuto dalle narrazioni
dei medici che coincidono con i resoconti dei pazienti.
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2- Approccio narrativistico
Nel testo “Identità e racconto. Forme di ricerca nel pensiero
contemporaneo” di Antonio Allegra (1999), l’approccio teorico trattato,
che in termini generali viene chiamato “narrativismo”, sta ad indicare
“la centralità metodica ed epistemologica di un criterio fondato più o
meno direttamente sulla narrazione”.
Questo tema, che negli ultimi decenni è stato ampiamente dibattuto
entro diversi settori degli “studia humanitatis”, ha come interpreti e
studiosi figure di spicco come Barthes, in ambito semantico, Bachtin in
campo linguistico e Bruner ad un livello più psicologico.
Secondo Allegra ciò che accomuna le diverse impostazioni dei suddetti
autori è il considerare la narrazione non solo come fenomeno
circoscritto alla sola produzione letteraria, ma facente parte della vita
quotidiana, del nostro agire e della nostra identità.
In questo senso noi viviamo immersi nella narrazione: “il pensiero
stesso nelle sue complesse articolazioni è in gran parte strutturato in
forma narrativa e la narrazione conferisce alla vita un significato e una
direzionalità” (Allegra ’99).
Per poter capire meglio questo tipo d’approccio è utile introdurre il
panorama teorico dal quale il narrativismo ha preso forma, partendo
dall’ambito letterario che si è sviluppato, soprattutto in Francia, verso la
metà del Novecento.
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2.1- Lo Strutturalismo e il Post-strutturalismo
Lo strutturalismo ha le sue origine nel 1916 grazie a Ferdinand de
Saussure e il Cours de linguistique gènèrale, ma ha una grande
influenza solo tra il 1950 e il 1970.
Contro l’assunto durato per secoli, secondo il quale i testi letterari
fossero capaci di rivelare il pensiero dell’autore e che ogni libro potesse
rivelare all’uomo la “verità”, lo strutturalismo sancisce la “morte”
dell’autore e libera la letteratura da ogni vincolo etico e morale
(Ferroni,1996).
Con Saussure, infatti, lo strutturalismo si propone come uno studio
puramente linguistico del “testo”, nel quale viene distinta la langue
dalla parole, dove la prima rappresenta l’aspetto sociale del linguaggio,
il sistema linguistico che ognuno di noi condivide con tutti i parlanti
della propria lingua, mentre la seconda rappresenta la realizzazione
individuale della langue, cioè l’espressione linguistica che i parlanti
effettivamente utilizzano.
Questa distinzione sta alla base di tutte le successive teorie strutturaliste,
infatti gli studi strutturalisti si caratterizzano per avere, come oggetto, il
sistema che implica qualsiasi tipo di campo umano di significato e non
le realizzazioni individuali, cioè l’organizzazione interna che regola gli
equilibri e i rapporti tra gli oggetti ( Ferroni e Guglielmino, 1997).
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Le parole, per Saussure, non sono simboli che corrispondono agli
oggetti del mondo che ci circonda ( i referenti), ma “segni” costituiti da
due parti : il significante e il significato.
Il significante è la parte concreta e tangibile nel segno ( suoni, gesti,
disegni…), mentre il significato è il concetto racchiuso nel segno ( ciò
che si “pensa” vedendo o sentendo la parte concreta del segno). Ad
esempio: al semaforo, il significante “color rosso” è legato al
significato “fermarsi” (Margiotta,1999).
Oltre allo studio dei segni, la teoria strutturalista si propone di studiare
tutta la letteratura: così come il linguaggio viene diviso nelle sue parti
costitutive (significante e significato), anche in letteratura gli
strutturalisti dividono il testo nelle sue parti costitutive (agente, azione
ecc…), dando vita alla sintassi narrativa. Un esempio di questa
concezione sintattica del testo si ha con lo strutturalista Vladimir Propp
(“Morfologia della fiaba” 1966) che, nei suoi studi sulle fiabe russe,
propone la distinzione tra i vari soggetti del testo ( eroe, antagonista…)
e individua le parti principali del racconto ( es: “un difficile compito per
l’eroe”, “ risoluzione del compito”, “ denuncia dell’antagonista”, ecc..).
Un’interessante rielaborazione delle teorie di Propp viene condotta da
J.Greimas (“Semantica strutturale”, 1966) il quale, portando lo studio
della sintassi narrativa a tutta la letteratura, costruisce una sorta di
“grammatica” narratologica universale. Nascono in questo modo le
“categorie binarie”, che dividono il testo in: 1- soggetto/oggetto, 2-
destinatario/destinatore, 3- aiutante/oppositore, ecc.
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Un ulteriore ampliamento degli studi strutturalisti è compiuto da
Tzvetan Todorov con la distinzione tra sequenza e testo.
Secondo Todorov, la sequenza è formata da un gruppo di proposizioni e
la sequenza-base è costituita da cinque proposizioni che descrivono un
certo stato narrativo che viene disturbato e poi nuovamente ristabilito in
una forma alterata. Questa successione di sequenze, secondo Todorov,
forma un testo.
Dalla descrizione degli studi dei principali autori strutturalisti, si può
capire come questa corrente teorica rappresenti un tentativo piuttosto
rigido di formalizzazione della teoria letteraria secondo criteri rigorosi,
quasi scientifici. E’ questa tendenza che fa dello strutturalismo uno
studio sincronico ( il sistema e la sua organizzazione e le sue possibilità
presenti) più che diacronico (l’evoluzione storica delle forme nel
tempo), ed è proprio per questo motivo che, alla fine degli anni ’60, lo
strutturalista Roland Barthes si allontana da questa posizione che non
tiene conto della dimensione storica e dell’evoluzione dei generi e delle
forme letterarie e perciò statica e astorica (Ferroni,1996).
Con Barthes si allontanano altri rappresentanti dello strutturalismo che
danno vita ad una nuova corrente: il post-strutturalismo.
Questa nuova contro-tendenza, introducendo il concetto di “soggetto
parlante”, rifiuta l’idea strutturalista di linguaggio come sistema
impersonale, ma lo vede come articolato con processi soggettivi : una
delle prime teorie moderne a rifiutare questa nozione saussuriana di
linguaggio è la scuola di Bachtin, filosofo formalista russo che insiste
nel dire che ogni espressione linguistica debba essere considerata nel
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suo contesto sociale, perché ogni singola parola dialoga con il suo
contesto, sia linguistico che sociale, e assume perciò un significato
diverso a seconda di dove si trovi (cfr.cap 2.4).
Il post-strutturalismo, perciò, prende le vesti di una critica verso
l’empirismo, secondo il quale la mente umana è l’origine di ogni
conoscenza, ricevendo le impressioni dal mondo esterno,
organizzandole ed esprimendole attraverso il linguaggio (Margiotta,
1999). Contro questo modello, il post-strutturalismo elabora la teoria
delle “formazioni discorsive”, che rifiuta di separare oggetti e soggetti
in mondi diversi, ma fa propria l’idea che ogni cosa sia sempre “in
processo”, persino lo stesso soggetto (Bachtin, cfr.cap 2.4).
In questa direzione Barthes ridefinisce la letteratura come “un
messaggio sul senso delle cose e non il loro significato” (per “senso”
egli intende il processo che produce il significato e non il significato in
sé). Infatti, secondo Barthes, il peggior errore che può commettere uno
scrittore è pensare che il linguaggio sia un mezzo naturale e trasparente
attraverso il quale il lettore coglie una “verità” o “realtà” solida e
unificata; al contrario, per Barthes, il miglior scrittore è quello che
conosce l’artificialità dello scrivere e gioca con essa (Barthes, “Saggi
critici”, 1966).
E’ questo il momento in cui Barthes raggiunge l’acme del pensiero
“post-strutturalista”, poiché, abbandonando le pretese scientifiche, si
rende conto che ogni lettore è libero di fronte al testo : “l’autore è morto,
non esiste, è ridotto a mero luogo di linguaggio, citazioni, ripetizioni,
per cui il lettore è libero di aprire e chiudere processi di significato del
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testo” (Barthes, la morte dell’autore,1968). In questo senso Barthes
vuole condannare quelle assunzioni false che per secoli sono state fatte
riguardo ai testi e alla loro “capacità” di rivelare all’uomo una verità
inappellabile, poiché, con la morte dell’autore, finisce anche l’illusione
del significato unico del testo, che diventa invece un tessuto di citazioni.
A tal proposito egli introduce il concetto di testo scrivibile, in cui il
lettore diventa soggetto attivo ed è incoraggiato a produrre significati
dalle citazioni lasciate dall’autore del testo, differenziandosi in modo
netto dal testo leggibile, in cui il lettore è solo consumatore di un
significato fisso.
E’ secondo questa logica che le parole di Barthes hanno un senso:
“Un testo è fatto di scritture molteplici che intrattengono rapporti di
dialogo; esiste però un luogo in cui tale molteplicità si riunisce e tale
luogo non è l’autore, come sinora è stato affermato, bensì il lettore: il
lettore è lo spazio in cui si inscrivono tutte le citazioni di cui è fatta la
scrittura; l’unità di un testo non sta nella sua origine, ma nella sua
destinazione...Prezzo della nascita del lettore non può che essere la
morte dell’autore” (la morte dell’autore,1968).
Come si può capire, lo strutturalismo e il post-strutturalismo hanno
diffuso un’attenzione quasi ossessiva per i testi e le loro strutture
interne, tralasciando la figura dell’autore del testo e proprio da questi
presupposti teorici il narrativismo ha potuto delinearsi.
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2.2- La psicologia culturale
Quando si parla di psicologia culturale e dell’importanza che essa ha
avuto per il narrativismo, è fondamentale parlare di uno dei più
importanti esponenti di questa corrente: Jerome S. Bruner.
Il suo nuovo indirizzo di ricerche, anche chiamato New look on
perception, nasce a New York attorno agli anni ’50 e si manifesta con il
distacco dal comportamentismo pragmatista della pedagogia americana
di quegli anni, sostenendo quindi l’influenza dei fattori socio-culturali
rispetto a fattori genetici nello studio sull’apprendimento. Solo
nell’ultimo decennio Bruner giunge alla psicologia culturale, spinto dal
suo interesse per il multiculturalismo e l’integrazione sociale e razziale.
Bruner, di fronte ai continui cambiamenti in atto nel mondo, sente il
bisogno di trovare un punto fermo verso cui indirizzare la propria
ricerca e questo punto lo trova nel Sé, che è l’oggetto della sua
psicologia culturale.
Il Sé, per Bruner, non è da intendere solo nella sua valenza individuale,
bensì come “momento” di interazione sociale e dialogica, con processi
propri e trasformazioni strettamente legate a quelle a cui è sottoposto il
mondo in cui il Sé si trova ad agire ed interagire.
La frase : “ To attend to the practises in which the meanings of Self are
achived and put to use”(Bruner,“Atti di significato”, 1990) potrebbe
ben spiegare il tipo d’approccio di Bruner, infatti il pensiero, in questo
contesto, non è inteso come attività esclusivamente individuale, ma
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come “interregno” tra il pubblico e il privato, dove gli atti intellettuali
non possono che essere delle “pratiche di dialogo”.
Secondo Bruner, queste pratiche si attuano attraverso la
“contestualizzazione intersoggettiva”, che non è altro che l’inserimento
di eventi, interazioni e espressioni nello spazio simbolico che gli esseri
umani definiscono come condiviso da tutti.
In questo senso gli uomini acquistano teorie sulle credenze, sui desideri
e sulle intenzioni delle altre persone e gran parte del significato dipende
dallo sviluppo di nozioni sempre più elaborate riguardo ciò che è
condivisibile con gli altri (Bruner, “Sviluppo cognitivo”, 1996).
L’uso del linguaggio stesso sarebbe impossibile senza queste nozioni e
l’acquisizione del linguaggio costituisce lo strumento culturale che
permette l’elaborazione.
L’intersoggettività, quindi, fornisce il mezzo per localizzare la
prospettiva dalla quale il significato deve essere osservato e preso in
considerazione. Infatti, senza una prospettiva comune, saremmo
incapaci di attribuire significato ad un semplice vocativo come “Oh,
guarda!”, perché non ci sarebbe una base per stabilire cosa si colloca in
primo piano in un’espressione e cosa sta dietro il punto di vista del
parlante.
I significati intersoggettivi, strumentali e normativi vengono integrati,
attraverso il pensiero narrativo, in un racconto che permette al soggetto
parlante e a chi lo ascolta di attuare uno scambio di significati.
Ciò che Bruner vuole evidenziare è che la comprensione non è altro che
un processo in cui individualità e cultura convergono: afferrare un
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significato e riconoscerlo come tale è la “conditio sine qua non” gli
uomini si sforzano di vivere insieme in un sistema simbolicamente
regolato e negoziato.
Ciascuno, a modo suo, è un’espressione della cultura, per cui, attraverso
il modo di agire, di pensare e soprattutto di raccontare, manifesta
l’impronta della cultura in cui vive e di cui condivide le regole. Perciò la
costruzione del Sé è influenzata non solo dalle interpretazioni che un
individuo dà di se stesso, ma anche da ciò che gli altri pensano di questa
sua versione.
In questo modo, i significati del proprio e dell’altrui mondo vengono
negoziati in scambi interattivi, durante i quali i vari Sé che si incontrano,
si raccontano e si co-costruiscono (Bruner, “La ricerca del
significato”,1992)
Sul ruolo della cultura, Bruner afferma che : “Se è vero che la mente
crea la cultura, anche la cultura crea la mente”; in questo senso la mente
è anch’essa un organo intersoggettivo che si sviluppa a contatto con gli
altri individui. Solo l’uomo, perciò, dispone di una mente, perché tra i
primati superiori, solo l’uomo impiega gran parte del suo tempo a
“insegnare” ai piccoli della sua specie e dispone di un modello di mente
che egli utilizza per comunicare con le menti degli altri. Bruner ricorda
anche in questo contesto l’importanza della narrazione come processo di
apprendimento: è la narrazione che permette al bambino di partire dal sé
e di relazionarsi con gli altri e con le cose del mondo circostante in
maniera partecipativa. Interessante l’esempio riportato da Bruner
riguardo il bambino autistico che, secondo l’autore, al contrario del
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bambino sano, non dispone di questa comprensione e per lui la
narrazione non ha senso, in quanto in nessun modo può pensare che le
persone che lo circondano possano essere come lui e pensare nel suo
stesso modo.
Oltre alla propensione per cui l’uomo imita e apprende dalle altre
persone che lo circondano, un’altra cosa che lo separa dai primati
superiori è, come è stato accennato prima, il linguaggio, che è una
capacità, per Chomsky e Fodor innata, di dimostrare particolare
sensibilità “a cogliere la struttura lessicale-sintattica di ogni linguaggio
naturale”. Per Bruner è impossibile stabilire empiricamente se nel nostro
genoma risiede “l’organo del linguaggio”: non si tratta comunque di
distinguere tra innatismo e anti-innatismo, ma semmai è il caso di
considerare come il linguaggio sia reso possibile da una “rete
intersoggettiva” che fonda la cultura.
Con l’auspicio del superamento dell’opposizione tra psicologia culturale
e materialismo biologico, Bruner afferma che sottovalutare il potere
della cultura di plasmare la mente umana è commettere “ un suicidio
morale”.