Introduzione Quante cose si possono dire con un crocifisso? A quante e quali
culture ci si può riferire tramite l’emblema del cattolicesimo?
Se è vero, come ricorda Umberto Eco, che il topic è sempre la
risposta a una domanda (Cfr. Eco 1979), questi due quesiti, nella loro
ampiezza, sembrano tenere bene insieme tutte le pagine di questa tesi.
E se la loro risposta può sembrare banale, basta pensare agli svariati
contesti d’uso del crocifisso per confutare questa ipotesi.
Ad esempio. Il crocifisso che svetta su una chiesa; quello che
campeggia alle spalle di un giudice sopra la scritta “la legge è uguale
per tutti” e quello posto in un’aula scolastica alle spalle di un docente
sopra la lavagna rappresentano lo stesso gruppo sociale? Un crocifisso
in una qualsiasi scuola italiana prima del 1985 e quello stesso
crocifisso nella stessa scuola, nella stessa aula, posto nella stessa
posizione dopo il 1985 hanno ancora “lo stesso significato”?
E soprattutto, che relazione hanno questi oggetti semiotici col
crocifisso che a seguito della sentenza della Corte Europea dei Diritti
dell’uomo (Cedu) sul “caso Lautsi” abbiamo visto essere brandito dai
partiti etnoidentitari – alcuni dei quali per lungo tempo lontani e ostili
al cattolicesimo?
Questa tesi nasce dal tentativo di cercare risposte plausibili ad
alcune di queste domande; seguendo uno dei percorsi semiotici del
crocifisso nella nostra cultura: quello relativo alla sua presenza nelle
9
aule scolastiche, e alla difesa di quest’uso parte del discorso giuridico,
politico e giornalistico.
Un uso la cui storia, così come quella della sua messa in
discussione, sono antiche quanto la storia del nostro paese
1
. Tuttavia,
se è vero che non sono mancate proteste riguardo all’esposizione del
simbolo cattolico già durante i primi anni del secolo (Cfr. Gallini
2004), è a partire dal 1987, poco dopo la ratifica del Nuovo
Concordato con la Chiesa Cattolica (1985) che ha sancito la non
confessionalità dello Stato, che la questione ha acquistato nuova vita,
approdando nelle aule di tribunale.
Al caso di Livio Riparelli (1987), preside della scuola
elementare di Ozzano dell’Emilia (Bo) che sospese nell’orario
scolastico le pratiche liturgiche e l’ostensione di qualsiasi immagine
religiosa, ha fatto seguito quello della professoressa cuneese Maria
Vittoria Migliano che tolse il crocifisso dall’aula nella quale
insegnava. Un caso di cui giungerà a occuparsene il Consiglio di
Stato: sanzionando negativamente l’iniziativa della docente. Più tardi
sarà suo marito, l’avvocato Marcello Montagnana, a balzare agli onori
della cronaca: rifiutando di assolvere il suo compito di scrutatore a
causa della presenza del simbolo cruciato nelle aule adibite a seggio
elettorale. In quel caso, però, il principio di laicità ebbe la meglio sui
“residui confessionali” della cultura italiana
2
(Cfr. Montagnana 2005).
Processi a cui recentemente hanno fatto seguito quello di Adel Smith,
che chiese la rimozione del crocifisso dalle aule della scuola di Ofena
(Aq) frequentate dai figli (2004), e del magistrato Luigi Tosti (2005),
che dopo essersi schierato contro l’esposizione del simbolo cattolico
1
Non a caso i testi che prenderemo in considerazione nel corso della trattazione
coprono un arco temporale che va dal 1860 (un anno prima dell’Unità d’Italia)
all’estate del 2010 (anno corrente).
2
Dopo una lunga battaglia legale la IV sezione penale della Corte di Cassazione
ha annullato la condanna stabilendo che il fatto non costituisce reato.
10
nelle aule di tribunale è stato recentemente rimosso dalla magistratura
(22 gennaio 2010)
3
.
Sentenze che, salvo in alcuni casi, hanno tendenzialmente
consolidato la stabilità e la legittimità del simbolo nelle aule
(scolastiche e di tribunale), ma che nel farlo hanno fatto germogliare i
suoi significati, accrescendone il campo semantico e costruendo un
oggetto semiotico del tutto nuovo: un crocifisso civile.
Se una prima parte della trattazione sarà dedicata proprio a
capire come un simbolo possa cambiare significato a seconda dei
contesti socio-culturali che lo accolgono e dell’uso che di questo se ne
fa – in modo da comprenderne la liquidità semiotica e il carattere
menzognero (Cap. 1); a partire dal secondo capitolo ci addentreremo
nella cultura italiana seguendo la vita semiotica del “crocifisso
scolastico”.
In particolare, dopo aver spiegato in che modo è entrato
nell’ordinamento giuridico e dunque nelle nostre aule (Cap. 2),
indagheremo la trasformazione del suo significato all’interno di un
iter processuale specifico: il caso di Soile Lautsi, cittadina italiana che
nel 2002 per tutelare la formazione dei propri figli in fatto di religione
chiese la rimozione del crocifisso dalle aule della scuola (Cap. 3).
I motivi per cui abbiamo scelto questo processo sono tre.
Innanzitutto perché è l’ultimo caso giuridico (giunto al termine)
relativo all’uso del crocifisso negli spazi pubblici. In secondo luogo
3
Dopo aver appeso il simbolo dell’ Uaar accanto a quello del crocifisso in
un’aula di tribunale (26 ottobre 2003), nel 2005 il giudice Tosti decise di
interrompere il normale flusso delle udienze fino a che nelle aule del tribunale di
Camerino non fossero rimossi i crocifissi. Bisogna ricordare che il presidente del
tribunale, pensando di venire incontro al giudice ebreo, gli propose più volte di
svolgere le udienze all’interno della sua stanza personale: trattando il caso come
un’obiezione di coscienza, e confinando l’attività del giudice all’interno di un
ghetto (Cfr. Risposta del giudice Tosti al Tribunale di Camerino in merito
all’interruzione delle udienze
http://www.uaar.it/uaar/campagne/scrocifiggiamo/43.html)
11
perché, mettendo in campo un’istituzione (Cedu) nata grazie a una
convenzione tra paesi europei (Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) si pone come un caso
particolarmente interessante per un’analisi delle dinamiche culturali
tra l’Italia e l’Europa, tra locale e globale. Infine, motivazione forse
strettamente connessa alla seconda, per via dell’esito della sentenza.
La Corte di Strasburgo, infatti, ha dato ragione alla richiedente:
condannando l’Italia a un risarcimento per pregiudizio morale; ed
evocando, ma non imponendo, la necessità di intervenire per evitare
che nel territorio italiano continuino a verificarsi discriminazioni
attraverso l’esposizione di uno specifico simbolo confessionale.
In realtà, dal nostro punto di vista – e forse più in generale in
una prospettiva di semiotica della cultura, ambito disciplinare nel
quale si snoda questa tesi – non è tanto l’esito della sentenza in sé a
essere interessante, quanto ciò che questa decisione ha generato nella
nostra cultura.
Dal giorno successivo alla sentenza abbiamo cominciato ad
assistere a una riemersione di quel simbolo che da tempo nella nostra
società aveva perso il suo mana , la sua forza semiotica.
Un terremoto culturale di cui si ritrovano le tracce anche in un
mondo distante dalla religione, quello dei consumi: ottimo indice delle
tendenze e delle trasformazioni di una società. Forse non è un caso se
proprio in seguito alla sentenza della Cedu e del rinnovato interesse
sociale che ha investito il simbolo cattolico si sono moltiplicati gli usi
commerciali del crocifisso tanto da essere lanciata sul mercato una
collezione di crocifissi artistici ( Hobby &Work ) , massicciamente
pubblicizzata tramite spot televisivi
4
.
4
http://www.hobbyeworkpublishing.it/index.cfm?fuseaction=opera&id=839
12
Promozione commerciale a parte, però, ciò che ha attirato
maggiormente la nostra attenzione è stato l’enorme numero di testi in
difesa del crocifisso che ha occupato le pagine dei giornali, le
frequenze radiofoniche e gli schermi televisivi. Spazi in cui hanno
trovato (e trovano) diritto di cittadinanza le voci di giornalisti, politici,
esponenti del Vaticano, politologi, filosofi e della gente comune. Voci
diverse, ma il più delle volte unite dalla volontà di difendere il
crocifisso e con esso un’enigmatica “nostra cultura”. Ed è proprio
questo movimento di difesa culturale che caratterizza il discorso
politico e giornalistico del dopo-Cedu che ci interessa indagare,
analizzandone forma e funzione all’interno del sistema culturale
italiano (Cfr. Cap. 4).
Tuttavia, ad animare la nostra società non è stata soltanto
un’apologia del crocifisso. Se, infatti, è vero che dal giorno
immediatamente seguente alla sentenza della Cedu i crocifissi nelle
aule scolastiche sono diventati “più visibili” agli occhi di tutti, è anche
vero che nello spazio pubblico italiano c’è stata una vera
moltiplicazione del simbolo cattolico in tutta la sua materialità:
crocifissi distribuiti in piazza, regalati ai giudici della Corte di
Strasburgo, imposti nelle sedi dei partiti laici, costruiti e appesi nelle
aule scolastiche dove mancavano, o inchiodati all’ingresso delle
scuole ecc. Operazioni discriminatorie, più che evangelizzazioni, di
cui si è fatto promotore il vasto mondo della politica italiana, e di cui
indagheremo finalità ed effetti di senso (Cfr. 5).
A questo punto, emerge una domanda centrale per questa
trattazione: a cosa è dovuta questa ribalta del crocifisso nella nostra
società ? L’ipotesi di partenza è che la motivazione sia politica, e solo
parzialmente e strumentalmente religiosa . Un’ipotesi scaturita dal
fatto che nei discorsi dei difensori del crocifisso a seguito della
13
sentenza Cedu il simbolo cattolico ci è parso essere sovraccaricato di
significazioni antropologico-culturali, ma anche giuridico-politiche,
francamente eterodosse. In pratica, il crocifisso del discorso politico e
giornalistico del “dopo-Cedu” non sembra essere quello che abbiamo
imparato a conoscere fin dai tempi del catechismo, quanto un simbolo
della cultura occidentale da difendere strenuamente, quando non da
imporre con forza all’Altro.
Abusi interpretativi (e pratici) del simbolo cattolico che
emergono con evidenza dall’analisi dei testi prodotti dagli esponenti di
molti partiti italiani: primi tra tutti Forza Nuova e la Lega Nord .
Tuttavia, confinare questi abusi e questa aggressività culturale alle
sole forze politiche xenofobe sarebbe un grave errore, che
impedirebbe di cogliere le trasformazioni della nostra società. È
un’intera collettività – italiana o comunque non solo cattolica – che si
è riunita attorno al simbolo cattolico. È un’intera cultura che ha
collegato la “questione crocifisso” all’integrazione dei musulmani e
non al tema della laicità.
Ed è in virtù della trasversalità discorsiva del tema che
analizzeremo sia il discorso giuridico , che quello politico e
giornalistico sul “caso Lautsi”. Discorsi diversi tra loro – per sostanza
espressiva, istanze di enunciazione, ecc. – ma tenuti insieme da una
funzione spiccatamente (e a volte violentemente) normalizzante.
Discorsi che prendono in mano il crocifisso per difendere una cultura
– più che una religione – che però non è mai la stessa. Discorsi tra le
cui pieghe tenteremo di rintracciare quel “nuovo” strato di senso che
ha avvolto il simbolo cristiano-cattolico per antonomasia: crocifisso
come simbolo etnoidentitario di una cultura
italiana/europea/occidentale dai confini sfumati; crocifisso come arma
politica e scudo crociato per difendersi dall’invasione dell’Altro.
14
Ecco perché, affinando i quesiti iniziali, possiamo riassumere il
fine dell’intera in una semplice domanda: che cosa difende realmente
chi a seguito della sentenza della Cedu ha detto di difendere il
crocifisso?
15
Parte I
Simbolo, memoria, semiosfera.
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Capitolo 1 – Simbolo, memoria, semiosfera.
Il simbolo è enigma, e la
Sfinge è il simbolo del simbolismo
stesso.
(G.W.F. Hegel, Ästhetik )
1.1 Il simbolo e l’ auctoritas: dalla rigidità
dell’emblema alla pienezza del modo simbolico , e
ritorno.
Il simbolo mistico è un generatore di
concentrazione, che fa vorticare una superficie
testuale, isola le lettere fino a che a un certo
punto parti per la tangente, ed è pura
marjuana.
(Umberto Eco, Sul Simbolo 5
)
Nel parlare quotidiano, così come nel linguaggio giornalistico,
politico e giuridico il numero di definizioni che del crocifisso vengono
date sembra rivelare una mancanza d’accordo su ciò di cui si parla.
Simbolo, icona, segno, emblema: tanti sono i sostantivi che lo
affiancano, e la compresenza in uno stesso testo di due o più
5
Eco, U. (1995) Sul simbolo, in L’immagine riflessa (a cura di Sandro Briosi),
n. 1, pp. 35-53. Per la precisione, la citazione è tratta dal dibattito che ha fatto
seguito al suo intervento all’interno del convegno Il simbolo oggi. Teorie e
pratiche (Siena 24-26 novembre 1994).
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definizioni rivela l’uso sinonimico che di queste se ne fa. Così, spesso
la scelta di un’etichetta linguistica piuttosto che un’altra si rivela un
semplice indizio del dizionario del parlante.
Anche a fronte di questa confusione terminologica, uno studio
sui significati possibili del crocifisso non può non iniziare dal capire
“cosa esso sia realmente”. Ambizione non facile perché
semioticamente parlando ognuno dei sostantivi comunemente usati
per riferirsi a esso dice qualcosa di sensato: ognuno illumina sotto un
certo rispetto o capacità l’oggetto, lasciando inevitabilmente
inesplorato qualcos’altro.
Imprescindibile in questa ricognizione è il riferimento a
Umberto Eco e a Semiotica e filosofia del linguaggio (1985). Un testo
in cui, oltre a essere ricostruita la storia dei significati attribuiti al
“segno” dalla filosofia contemporanea, si fa esplicito riferimento in
più punti proprio alla croce.
In relazione all’uso comune che si fa della parola segno, Eco
traccia una distinzione tra inferenze naturali , equivalenze arbitrarie ,
diagrammi , disegni , emblemi e bersagli . In particolare, considera la
croce un perfetto esempio di emblema: in quanto sta per il
cristianesimo, come la falce e il martello stanno per il comunismo e la
mezzaluna per l’islamismo – segni che Louis Hjelmslev e Ferdinand
de Saussure chiamerebbero simboli. Segni iconici «perché sopportano
manipolazioni dell’espressione che incidono sul contenuto, ma
arbitrari quanto allo stato di catacresizzazione a cui ormai sono
pervenuti». Così, «la croce o la mezzaluna sono emblemi che rinviano
a un campo definito di significati indefiniti » (Eco 1985, p. 8). In
pratica, se il loro significato in sé può essere astratto, difficilmente
descrivibile ed esprimibile a parole, rimane il fatto che il campo dei
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significati cui rimandano, almeno all’interno di quella data cultura, è
chiuso, strutturato, non espanso in modo indefinito.
All’esempio della croce e della mezzaluna possiamo
aggiungere quello del crocifisso, che a differenza della croce nuda non
è emblema del cristianesimo, bensì più in particolare del
cattolicesimo
6
.
Tuttavia, dire che il crocifisso nella nostra cultura è un
emblema del cattolicesimo non significa vietare che possa essere letto
in modo differente. Del resto, anche senza prendere in considerazioni
usi semiotici estremi e fuori dal comune, sappiamo bene che stiamo
parlando di un segno che rimanda a molti altri significati ben
codificati nella nostra enciclopedia : simbolo di Passione, misericordia,
redenzione, salvezza ecc.
In realtà per venire a capo di questo groviglio di termini, più
che chiederci “cos’è il crocifisso?”, dobbiamo porci a un’altra
domanda: “cos’è il simbolo?”. Per farlo, introdurremo la nozione
echiana di modo simbolico e distinguendola dalla lettura in chiave
emblematica .
Innanzitutto, uno studio sul simbolo non può prescindere dalla
sua etimologia. La parola “simbolo” deriva dal latino symbolum, a sua
volta derivato dal greco σύ μβολον súmbolon , dalle radici σ ύ μ- ( sym ,
“insieme”) e βολ ή ( bolē , “un lancio”). Quanto al significato è quello
di “mettere insieme” due parti distinte. A proposito del ruolo
dell’etimologia nella comprensione del simbolo e dell’esperienza
simbolica Eco dice:
6
Il crocifisso, infatti, non è un simbolo universalmente accettato all’interno del
cristianesimo. Il caso più lampante è quello dei cristiani ortodossi che si
riconoscono nella croce greca, priva della raffigurazione del corpo di Cristo (Cfr.
Cap. 3 § 2.2.1).
19
«Si ricordi la suggestione etimologica insita nella
parola /simbolo/: qualcosa che sta per qualcosa d’altro, ma
entrambe ritrovano un momento di massima pregnanza
quando si ricompongono in unità. Ogni pensiero simbolico
cerca di sconfiggere la differenza fondamentale che
costituisce il rapporto semiotico (espressione presente,
contenuto in qualche modo assente) facendo del simbolo il
momento in cui l’espressione e il contenuto inesprimibile
in qualche modo si fanno una cosa sola, almeno per chi
vive in spirito di fede l’esperienza della simbolicità » (ivi ,
p. 230, corsivi nostri).
(1) La prima caratteristica del simbolo , dunque, è la
“presunzione di analogia” fra simbolizzante e simboleggiato: una
caratteristica che lo accomuna all’ emblema .
Presunzione di analogia, motivazione culturale, ma ciò non
vuol dire affatto che si debba parlare di un’intimità ontologica
profonda tra simboleggiante e simboleggiato. È questa la posizione
dell’ ontologia linguistica , secondo cui il simbolo avrebbe «un
significato in sé», niente affatto frutto di una convenzione, e dunque
universalmente valido (Rivoltella 2002, p. 1067). A tal proposito, Pier
Cesare Rivoltella fa l’esempio dell’acqua, a suo dire, universalmente
intesa come simbolo della purezza e della trasparenza (significato
secondo) a partire dal fatto che queste sono anche le caratteristiche
“proprie”, “naturali” di tale elemento (significato primo). In virtù di
tutto ciò, nella liturgia battesimale cristiana il valore della
cancellazione del peccato originale sarebbe ontologicamente e non
solo convenzionalmente legato alla realtà fisica dell’elemento acqua
(Cfr. ivi , pp. 1067-1068).
20
Chiaramente si tratta di una lettura molto influenzata da un
problema di materia – più che di sostanza – e scarsamente sensibile
alle istanze del relativismo culturale, e che pertanto presta il fianco a
più d’una critica: sia nel suo parlare di caratteristiche «proprie di un
elemento», ipotizzando l’idea di una naturalità non costruita
semioticamente cui si potrebbe avere accesso in modo “diretto”, non
mediato culturalmente; sia nel suo presentare una lettura particolare,
accettata in uno specifico contesto culturale, come se fosse l’unica
lettura possibile, e dunque come se fosse universale .
Perché fra tutte le proprietà, non dell’ acqua, ma che io posso
rintracciare nell’ acqua, a partire dall’ acqua, io dovrei essere costretto
prima a selezionare quella della trasparenza – riconoscimento di un
elemento che potrebbe assumere una funzione segnica – e poi leggerla
metaforicamente come segno di purezza – collegamento della
funzione segnica riconosciuta a una porzione di contenuto attraverso
un’operazione di invenzione (Cfr. Eco 1975)?
Ma parlare di motivazione culturale per quanto riguarda il
simbolo non vuol dire neanche accettare la necessarietà della presenza
di un elemento iconico . Se la posizione dell’ ontologia linguistica di
Rivoltella è difficilmente sostenibile all’interno di un approccio
semiotico, molto più frequente nelle teorie semiotiche sul simbolo è lo
slittamento che dalla motivazione conduce all’iconicità. Ed è proprio
questo slittamento che Romeo Galassi (1997)
7
rimprovera a Jurij
Lotman, il quale afferma: «il simbolo si distingue dal segno
convenzionale per la presenza di un elemento iconico, per una
7
Galassi, R. (1997) “Lotman, la ‘semiotica’ e Saussure”, in R. Galassi e M. De
Michiel (a cura di) Il simbolo e lo specchio , Edizioni Scientifiche italiane, Napoli,
pp. 35-49.
21
determinata somiglianza tra piani dell’espressione e del contenuto»
(Lotman 1987, trad. it. p. 65)
8
.
In realtà, questo segno può anche avere elementi di iconicità o
di indicalità, ma la sua caratteristica distintiva non è la somiglianza
“naturale”, o presunta tale , con il referente. Senza impelagarci nella
diatriba sull’iconismo e nella revisione radicale del concetto da parte
di Eco (Cfr. Eco 1975, pp. 256-284; e Eco in Paolucci 2007, pp. 145-
174)
9
, ci basterà dire che nel simbolo l’Espressione e il Contenuto
sono legate assieme secondo determinate regole storiche e culturali,
ma ciò non significa necessariamente che i piani dell’Espressione e
del Contenuto si “rassomiglino”. Il simbolo è motivato, e la
motivazione è frutto di un’associazione convenzionale alla cui base
però giace un condizionamento socioculturale.
Così, per fare un esempio, la bilancia come simbolo della
giustizia, a cui fa riferimento Ferdinand de Saussure, non è frutto di un
legame diretto col referente, ma è un segno la cui comprensione
poggia sulla scelta di un singolo rispetto , l’equilibrio, su una
motivazione localmente e temporalmente situata: immediatamente
riconosciuta e letta come “vera” sì (presunzione di analogia), ma in
questo momento e in questa cultura
10
. Non a caso la bilancia come
8
Lotman, J. (1987) “Simvol v sisteme kul’tury”, in Trudy po znakovym
sistemam , XXI, Tartu, pp. 10-21 (trad. it. “Il simbolo nel sistema della cultura”, in
R. Galassi e M. De Michiel (a cura di) Il simbolo e lo specchio , Edizioni
Scientifiche italiane, Napoli, pp. 53-66).
9
Eco, U. (2007) “La soglia e l’infinito”, in Studi di semiotica interpretativa, C.
Paolucci (a cura di), Bompiani, Milano, pp. 145-176.
10
In realtà, come vedremo tra qualche pagina, seguendo la terminologia e la
teoria echiana dovremmo definire la bilancia l’emblema della giustizia, e non il suo
simbolo, dato che in questa specifica funzione segnica non si intravede quella che è
la seconda caratteristica del simbolo: l’apertura indefinita del suo piano del
contenuto; a cui invece fa posto un rimando piuttosto diretto a un campo ben
definito di significati. Tuttavia, in questo caso, parlando di presunzione di analogia
tra simbolizzante e simbolizzato, una caratteristica comune sia all’emblema che al
simbolo, la differenza non è così rilevante.
22