MCCAIN vs OBAMA
USA‘08.
E’ stata ad oggi la campagna elettorale più intensa e più sporca di
tutte. Quello che è successo non ha niente a che vedere con la
fedeltà a un partito o a una tradizione politica. Qui si tratta di due
uomini molto diversi e del rapporto che il popolo americano ha
stabilito con loro. Un duello interessante e uno scontro intenso fino
alle ultime battute che è stato possibile capire solo analizzando le
due figure: John McCain e Barack Hussein Obama.
Hanno entrambi una storia affascinante, un carisma e una capacità
unica di far leva sull’elettorato aldilà degli iscritti ai loro partiti. In
questo confronto diretto tra i due candidati più brillanti dopo
Kennedy e Nixon, l’America ha visto una parte di se’, del suo
passato e del suo futuro. Nei prossimi capitoli sia Obama sia
McCain avranno un bel da fare. Prevedo tre set e una grande
partita.
MP
13
1. BEING JOHN MCCAIN
“Non mi intendo di economia come dovrei.
Ho comprato il libro di Greenspan.”
“Sono più vecchio della polvere e ho più cicatrici di Frankenstein”
1
.
E’ la classica risposta di John McCain a chi gli ricordava che a 72 anni, sarebbe
stato il presidente più vecchio della storia degli Stati Uniti
2
. La profezia non si è
avverata, ma la sua vita ha davvero i contorni di un’avventura. Un lungo rosario
di disastri e salvataggi, disgrazie e rinascite. Dopo ogni caduta, sempre una
vittoria. Abbattuto sui cieli del Vietnam, e torturato per oltre 5 anni nel famigerato
“Hanoi Hilton”
3
, rifiuta la libertà per non venire a patti con il nemico. Al ritorno
trova un mondo e una moglie, nel frattempo distrutta da un incidente, che non
riconosce più.
La sua rinascita è in Arizona. Lasciata la divisa, ricomincia da Cindy Hensley, di
17 anni più giovane, figlia del milionario distributore della birra Budweiser. Vince
un seggio al Congresso, poi si spalancano le porte del Senato. Ha collezionato
miriadi di soprannomi, ma è impossibile da etichettare. Proprio per questo, il
nickname più celebre e azzeccato, è Maverick: un cavallo fuori dal branco.
1
F. Leoni, M. Marinozzi, D. Moretti, John McCain, Tutte le guerre di Maverick, Utet Editore,
2008, p.202-226.
2
Il Presidente più anziano degli Stati Uniti d’America è stato ad oggi Ronald Reagan
insediatosi il 20 gennaio del 1981, due settimane prima del suo settantesimo compleanno. E’
rimasto in carica per due mandati, fino al 1988.
3
McCain, nel corso della Guerra in Vietnam, fu catturato dopo un terribile incidente su una
portaerei. Torturato e tenuto per 5 anni in una prigione infernale ribattezzata dai prigionieri
americani Hanoi Hilton. “Un grosso complesso dal perimetro a trapezio e le mura color ocra – come
racconta McCain – sigillato da enormi porte d’acciao”.
14
Sincerità e individualismo gli costano la prima corsa alla Casa Bianca, contro
George W. Bush, nella più “sporca” campagna che si ricordi
4
. Sconfigge un
tumore maligno che gli costa un’altra cicatrice. Al quarto mandato da senatore,
l’autobus per la presidenza si rimette a correre dritto fino alla nomination.
Camminatore, divoratore di libri, battutista fenomenale, McCain emana fascino
magnetico. Il peggior avversario possibile: troppo conservatore per i liberal, troppo
liberal per i conservatori. Ma come mai non ha vinto? Probabilmente, come
affermava proprio lui “So molto meno di economia rispetto ai temi militari o di
politica estera. Ho ancora bisogno di essere istruito.” L’economia, il suo tallone
d’Achille.
1.1 Taddy, Barry e Ronnie: i pilastri.
Theodore Roosevelt, Barry Goldwater e Ronald Regan. Dal primo ha ereditato
il coraggio e la capacità di superare gli steccati fra i partiti; dal secondo il seggio
da senatore in Arizona, dal terzo l’arte della politica messa al servizio degli
elettori e non dei partiti. Tre figure diverse emerse in tre distinti momenti storici,
tre modelli di vita privata e di azione pubblica.
Teddy Roosevelt è il faro e l’idolo. E’ stato il Presidente più giovane degli Stati
Uniti, capace di rompere col suo partito e correre da indipendente per la Casa
Bianca, il primo a battersi contro la corruzione statale e lo strapotere del grande
business. Le similitudini tra i due sono sorprendenti, a partire dalla vita privata.
Entrambi con un pedigree militare di prim’ordine, entrambi sposati due volte, tutti
e due bravi tanto a boxare quanto a far innamorare di se’ le folle e i giornalisti,
Mac ha corso nel 2000 da repubblicano anomalo e nel 2004 ha rischiato di fare il
vice al democratico Kerry in un ticket bipartisan che alla fine però non si è
concretizzato. In comune, la vocazione a portare una ventata di progressismo
all’interno del Grand Old Party, la scarsa confidenza con le questioni economiche
ma anche un’attenzione originale all’ambiente
5
.
Altro tratto che li accomuna è lo scarso autocontrollo, il caratteraccio e la
cronica difficoltà nell’incassare le critiche. Mac è famoso per i suoi improvvisi
4
A. Sullivan, Mission Impossibile, The Sunday Times, Internazionale, 15- 22, Maggio 2008.
5
Roosvelt pose come priorità la difesa della natura e la nazionalizzazione dei parchi, McCain si
batte da anni sul tema dei cambiamenti climatici.
15
scatti di ira, conditi da espressioni colorite ed epiteri irripetibili, spesso rivolti ai
colleghi senatori e solo di rado ai suoi subordinati. Nei suoi due libri Worth the
Fighting For e Character is Destiny il senatore illustra i pilastri del codice
Roosevelt. Vigore, coraggio e una vita vissuta energicamente. “Roosvelt credeva
che il combattimento fosse essenziale per una vita felice. Io ho capito cosa
intendeva...”.
L’unità nazionale prima dell’individualismo e del multiculturalismo, nel solco di
uno spirito dei pionieri che costituisce la base della collettività nazionale poi il
bene comune anteposto al materialismo. Ma è l’approccio interventista in politica
estera, nell’ottica di un ruolo da Superpotenza per l’America, il trait-d’union più
sorprendente attuale tra i due. Roosvelt fu il primo a parlare di Stati Uniti come
polizziotto del mondo, del “grande bastone” da usare sulla scena internazionale e
fu anche inflessibile nello scacciare i dogmi del pacifismo a oltranza, anche se
poi, ironia della storia, venne insignito del premio Nobel per la pace.
Con una punta di rammarico ricorda invece Barry Goldwater perchè se ancora
oggi spende parole di sincera ammirazione e rispetto per il padre spirituale della
rivoluzione conservatrice degli anni Sessanta, in verità il loro rapporto personale
non fu sempre facile. Goldwater, che molto aveva legato con l’ammiraglio Jack
McCain e con il quale ebbe anche un lungo scambio epistolare, non aveva lo
stesso feeling con il figlio. John provò in tutti i modi a legare con il senatore ma
nei primi tempi non gli riuscì di entrare nelle sue grazie. Lo studiò tenendosi a una
certa distanza: “Gli ho sempre portato grande rispetto, l’ho ammirato fino alla
venerazione, volevo piacergli (...). Con me non era mai ostile, solo un pò riservato
e sbrigativo nelle nostre conversazioni. Era cordiale ma non così affezionato
quanto avrei voluto”.
Il Goldwater che McCain avvicina in quegli anni è ormai a tutti gli effetti
un’icona del partito repubblicano, uno dei padri della patria dei moderati.
Sconfitto sul campo, dove perse nettamente nel 1964 la sfida presidenziale contro
Lyndon B. Johnson, fece breccia nei cuori dei ragazzi che in quegli anni andavano
affacciandosi alla politica. Barry tracciò nel libro-manifesto La Coscienza di un
Conservatore le linee portanti di quella ondata libertaria, incentrata sulla persona
e critica sull’invasività del governo federale. “Fiducia nell’individuo, scetticismo
nel governo, libero mercato e capitalismo vigoroso” erano i pilastri della sua
dottrina, uniti ad una critica del radicalismo religioso e ad una certa tendenza a
16
parlare senza troppi giri di parole che, secondo molti osservatori, fece di lui il
primo vero Maverick del Dopoguerra. Quando Goldwater si ritira dalla scena
pubblica, Mac non ne eredita soltanto il seggio ma anche lo spirito di Maverick e
il ruolo di punto di riferimento per uno Stato intero. Non sarà mai come Barry “il
figlio prediletto dell’Arizona”, ma saprà farsi conoscere e rispettare anche nei
momenti più difficili.
Di momenti intimi vissuti fianco a fianco con Ronald Reagan, McCain può
raccontarne molti. Tra i due, negli anni, si è andata cementando una relazione
fatta di vicinanza, ammirazione e rispetto, nata poche settimane dopo il ritorno in
patria del progioniero di guerra, passata attraverso gli otto anni della presidenza
dell’ex attore di Hollywood e proseguita oltre la sua morte, con l’endorsment fatto
dalla moglie Nancy a Mac a suggellare il sodalizio tra le due famiglie.
Scrive Robert Timberg: “Per conoscere McCain e capire come è arrivato ad
essere quello che è oggi, bisogna innanzitutto riconoscere il ruolo giocato da
Ronald Reagan nel riportare i veterani del Vietnam nella corrente principale della
vita pubblica americana. Senza Ronald Reagan, ci sarebbe stato comunque un
John McCain. Ma non ci sarebbe mai stato un Senatore John McCain e meno che
mai la prospettiva di un Presidente John McCain”. L’incontro tra i due avviene
nella casa dei Regan. In onore di John e dell’allora moglie Carol, Ronald e Nancy
stappano per loro una delle migliori bottiglie della cantina e per oltre due ore
rimangono incantati ad ascoltare i racconti del reduce. Qualche mese dopo,
Reagan invita McCain sul palco a parlare ad un suo incontro pubblico, a
Sacramento. Dopo nemmeno cinque minuti, la platea era già sciolta in pianti e
singhiozzi.
Ancora oggi Mac ricorda con fierezza un’analogia tra la sua carriera e quella del
Presidente che decretò la fine della Guerra Fredda. Nel 1980 Reagan conquistò la
Casa Bianca con una vittoria nettissima contro il Presidente uscente Jimmy
Carter, eppure la sua nomination fu molto sofferta: dovette, infatti, battere
l’ostracismo dei maggiori esponenti del Partito repubblicano che spingevano per
l’ex Governatore del Texas John Connally. Mac si è molto ispirato alla dottrina
della Reagan’s Majority, la strategia dell’inclusione, di superamento dei confini
repubblicani per andare a prendere i voti e i cuori dei democratici moderati,
17
entrati poi nel linguaggio politico corrente come i Reagan Democrats
6
. Da Regan
ha anche preso in prestito le architravi del proprio credo economico, fatto di molto
mercato, poco Stato e pochissime tasse
7
. In nome di una sua fedeltà all’ortodossia
reaganiana, poi, a più riprese Mac ha accusato il Partito repubblicano di aver
tradito gli ideali di Ronnie sulla riduzione delle tasse e sul freno alla spesa
pubblica.
1.2 McCainismo
Il suo curriculum racconta di un politico anomalo, di un destroso atipico, senza
dubbio lui era il più adatto, tra le file del Grand Old Party, alla missione
impossibile del 2008: far accettare agli americani un altro Presidente repubblicano
dopo otto anni di George Bush marcando, al tempo stesso, una forte discontinuità
con il predecessore. “Mac” era effettivamente l’uomo più giusto per l’impresa
proprio perchè è tutto tranne che un repubblicano ortodosso. Non è un
conservatore compassionevole alla Bush figlio, non ha cavalcato la rivolta fiscale
alla pari di Bush padre
8
. Da reaganiano convinto, contrario ad un esecutivo che
interviene in ogni aspetto della vita del cittadino ma, al tempo stesso, non
disdegna che a livello federale si regolamentino temi di importanza nazionale,
come è stato per il finanziamento delle campagne elettorali, la sicurezza aerea
dopo l’11 settembre, la campagna contro le multinazionali del tabacco o la
crociata contro gli steroidi nel baseball.
6
I Reagan democrats sono entrati a tutti gli effetti nel lessico politico dopo l’elezione presidenziale
del 1980, quando il candidato repubblicano, Ronald Reagan, battè il Presidente uscente Jimmy
Carter grazie anche al voto decisivo di molti elettori moderati del partito democratico. Elettori
“trasversali” che spostarono la ricetta liberista in politica economica e molto decisa in politica estera
dell’allora governatore della California. Elettori che ancora oggi spesso si spostano da sinistra a
destra.
7
La dottrina economica reaganiana, o Reaganomics, era soprattutto centrata su un’idea di
intervento pubblico molto leggero. Celebre rimane un passaggio del suo discorso di insediamento
da Presidente, il 20 gennaio 1981:”Il Governo non è la soluzione ai nostri problemi; il Governo è il
problema”.
8
George H. Bush vinse le elezioni presidenziali del 1988 contro il candidato Michael Dukakis grazie
anche alla sua campagna anti-tasse. E’ entrata nella storia la frase pronunciata durante la
convention repubblicana di New Orleans: “Read my lips:no new taxes”, “Leggete le mie
labbra:niente nuove tasse.”
18
Nel 2005, ovvero molto prima che si palesasse la possibilità di una corsa alla
presidenza, Sebastian Mallaby ha sintetizzato così sul “Washington Post” i punti
centrali del McCain-pensiero: “Il governo leggero di destra e il governo pesante
di sinistra sono entrambi stremati. L’unica piattaforma politica che abbia appeal è
il buon governo. Il senatore ha condotto battaglie in solitaria non per restringere o
ampliare i poteri del Governo, ma semplicemente per migliorarlo”. Pragmatismo,
la parola chiave del suo manifesto politico. McCain non ha offerto agli elettori
una ricetta preconfezionata, quanto piuttosto la garanzia che i problemi fossero
affrontati senza i paraocchi e con la giusta dose di buon senso che solo un politico
esperto e navigato può vantare. McCain rimarrà un Maverick, un cane sciolto: un
uomo, un militare, un senatore al servizio di una causa più grande. Il patriottismo,
il sacrificio personale e il rifiuto del cinismo sono altri pilastri fondanti del
McCainismo. Servire la nazione vuol dire, nel vocabolario di McCain, affrontare
il nemico sul campo di battaglia e resistere con orgoglio anche alle sue torture.
Con lo stesso coraggio della guerra, in politica la causa più grande significa
decidere cosa è più grande per il Paese e non per il partito o il proprio tornaconto
individuale. Non abdicare mai ai propri principi, a costo di scelte che, al
momento, possono sembrare contraddittorie e col rischio di venire bollati per anni
con etichette ingenerose e parziali. Quando deve darsi un’auto-definizione, Mac
non ha bisogno di troppi giri di parole: “Sono sempre stato un conservatore. Le
mie votazioni sono lì a ricordarlo chiaramente sull’economia, sulla sicurezza, sui
temi sociali. Ho alle spalle venti anni di politica da conservatore”.
I suoi voting records sono contestati quasi quanto le sue posizioni politiche e
anche sui numeri c’è parecchio da discutere. Nella loro minuziosa analisi in Free
Ride, Brock e Waldman mettono in evidenza come McCain abbia votato in linea
con il suo partito nell’80% per cento dei casi di media, ogni anno, dal debutto
come congressman ad oggi. Solo nel 2001 la percentuale del “voto fedele” è scesa
al 67% e al 74% nel 2006.
Nel pamphlet The Real McCain, invece, Cliff Schecter cerca di “pesare” quelle
percentuali sulla bilancia della convenienza politica. La tesi di fondo di Schecter è
che McCain abbia sì fatto la parte delle occasioni, salvo sciegliere nei casi più
spinosi il “voto selettivo”. Come a dire, quando c’è qualcosa di controverso su cui
decidere, Mac si eclissa e non si fa nemmeno vedere in aula.
19
Altri numeri, poi, ce li fornisce l’ex-senatore dell’Illinois: “Cambiamento non è
votare per il 95% delle volte a favore dei provvedimenti varati
dall’amministrazione Bush come ha fatto il senatore McCain nell’ultimo anno”.
Parole e musica sono di Barack Obama, il 3 giugno del 2008, nel discorso con cui
ha rivendicato la vittoria su Hillary Clinton alla fine della loro interminabile
battaglia per la nomination democratica. Obama, nel corso della campagna, ha
puntato forte sull’equazione “voti John e prendi George W.”, per mettere in
guardia gli elettori indecisi. Rileggendo l’iter politico di Mac da una prospettiva
più ampia e completa, invece, Schecter seleziona tre diversi momenti chiave che
esprimono altrettanti modi di essere John McCain, riveduti, corretti e aggiornati.
Il McCain 1.0 è un repubblicano duro e puro, un conservatore fedele alle idee di
Goldwater che si affaccia alla ribalta della politica nazionale. Moderato,
libertario, non interventista in politica estera e contrario allo Stato forte in
economia.
Il McCain 2.0: emerge il Maverick, il paladino delle grandi cause amato dai
mass media, il politico che parla chiaro e finisce con le ossa rotte quando lancia il
guanto di sfida al sistema.
A quel punto è maturo il tempo del McCain 3.0, l’ultima versione disponibile
del software: un conservatore rinato, meno idealista e più cinico, calcolatore fino
al punto di costruire ponti di dialogno verso quelli che in passato gli hanno rifilato
solenni bastonate.
1.3 I temi caldi della campagna meccainiana ‘08
Iraq
Qualcuno ha scritto che la corsa alla presidenza del senatore McCain è iniziata a
tutti gli effetti il 10 gennaio del 2007, quando George Bush annuncia la decisione
di inviare a Baghdad 21.500 soldati in aggiunta a quelli già dislocati sul campo.
Questo perchè quel giorno il Presidente decide di dare ascolto al senatore che da
mesi lo tartassa invocando la strategia del surge, ovvero di un potente rilancio
militare per stanare la guerriglia irachena e fermare le violenze settarie. Quel
giorno Bush sconfessa in un colpo solo se’ stesso e quattro anni di dottrina
Rumsfeld. L’ex segretario alla Difesa continuava a ripetere che non servivano
20
altre truppe mentre il numero di morti a stelle e strisce superava le più
pessimistiche previsioni.
Sostenitore della primissima ora dell’intervento militare per deporre Saddam
Hussein, McCain non ha mai messo in discussione la bontà di Iraqui Freedom, ha
semmai nutrito seri dubbi sulla strategia elaborata dal Pentagono. La “guerra
leggera” non lo ha mai convinto e, nonostante le conclusioni dell’Iraq Study
Group e le riserve del governo di Baghdad, ha portato a casa l’escalation bellica.
Una volta ha detto che non si sarebbe scandalizzato all’idea che gli Stati Uniti
restassero in Iraq per cento anni, più realisticamente ha fissato il 2013 come data
possibile per la stabilizzazione e l’inizio del rientro delle truppe. Va più volte nel
paese, in visita al contingente ma anche per constatare da vicino i progressi e sfida
Barack Obama a fare altrettanto, malgrado l’ex-senatore dell’Illinois sia stato da
sempre contrario alla guerra e abbia promesso il ritiro in tempi rapidi.
Sull’Iraq, McCain sapeva di giocarsi molto. Un’elezione presidenziale, la
possibilità di scacciare una volta per tutte la sindrome Vietnam e anche un pezzo
di cuore: il figlio minore Jimmy, che come il fratello maggiore Jack ha seguito le
orme del padre, prestando servizio nel Paese per diversi mesi nel corpo dei
Marines.
Politica estera
Realista ieri, falco oggi. Quando arriva a Washington è convinto che gli Stati
Uniti debbano far ricorso alla forza soltanto per difendere interessi nazionali
vitali. Nel 1983 vota contro Reagan e l’invio dei Marines in Libano. Dopo che
Saddam Hussein invade il Kuwait, apre ai bombardamenti aerei ma si oppone
all’attacco di terra: “Non possiamo contemplare di barattare sangue americano col
sangue iracheno”. Scettico sulla prima Guerra del Golfo, sarà uno dei padrini
della seconda.
Sotto la presidenza Clinton, chiede il rientro dei soldati dalla Somalia e si mette
di traverso sull’invio di truppe ad Haiti. Inizialmente si oppone anche
all’intervento militare nella ex Jugoslavia ma cambia idea qualndo realizza che i
raid aerei sulla Serbia non bastano a fermare la pulizia etnica di Milosevic in
Kosovo. E McCain stesso ammette che lo shock emotivo per il massacro di
Srebrenica nel 1995 rappresenta un punto di non ritorno.
21
Alla fine degli anni Novanta, la metamorfosi: si afferma il Neo-McCain, il
senatore paladino dei neocon
9
e della loro politica estera muscolare e aggressiva.
Nasce lo slogan del rogue state roll-back, la cura dimagrante da far seguire agli
“Stati canaglia”. Una dieta che applicherebbe anche a Teheran e al regime di
Pyongyang.
Dopo il grande freddo transatlantico sull’Iraq, McCain si autoproclamava il
Presidente del disgelo. Messa in tasca la nomination repubblicana, McCain è
volato dapprima in Israele, poi a Londra e a Parigi ha iniziato a riannodare i fili
del dialogo interrotto. McCain prometteva più collaborazione e meno arroganza
se fosse diventato il nuovo Presidente. La Cina come “sfida centrale” per
l’America senza però il rischio di scontro tra i due paesi, insisteva per escludere la
Russia dal salotto buono del G8, promettendo aiuto all’Africa contro Aids e
malaria e libero commercio ad America Latina e Canada. A tutti avrebbe portato
in dote un regalo simbolico, diventato poi uno dei primi obiettivi del nuovo
Presidente Obama: la chiusura del carcere di Guantanamo, per cui si batteva da
anni.
Economia
Il vero tallone d’Achille. Se sull’Iraq sfida l’impopolarità, sui temi economici
paga l’inesperienza. Il “Wall Street Journal”, nei giorni di accesa campagna
elettorale, ha scritto che “chi lo conosce bene si aspetta una presidenza difficile da
catalogare, è un conservatore populista che agisce più per istinto che non spinto
da una precisa ideologia economica”. Paladino del mercato pulito nella stagione
dei grandi scandali finanziari Enron e Worldcom, lui che ne ha conosciuto uno da
molto vicino
10
, preferisce la classe media dei taxpayers al grande business dei
9
Movimento filosofico e politico costituitosi intorno alla fine degli anni Sessanta attorno ad un nucleo
di fuoriusciti dal Partito democratico, per lo più intellettuali ebrei molto attenti ai diritti civili, ma delusi
dalla politica estera del proprio partito. Si differenzia dal tradizionale movimento conservatore per il
rifiuto del protezionismo economic del “non interventismo”. La dottrina dei neoconservatori
prevede, infatti, una politica estera molto aggressive tesa a esportare la democrazie e I diritti civili
anche nei paesi oppressi. Il settimanale “Weekly Standard” è la bibbia dei neocon.
10
Ci riferiamo allo scandalo dei “Keating Five”. Charles H. Keating Jr fondatore nel 1976 del A.C.C. ,
American Continental Corporation, azienda immobiliare su cui costruì la sua fortuna. Era il momento
in cui il mercato immobiliare americano registrava un boom senza precedenti. Keating diventò
milionario e famoso e cominciò ad appoggiare l’ex soldato e senator John McCain nelle sue
champagne politiche ed elettorali. Nel 1984, ACC aveva comprato la Lincoln Savings & Loan, uno
22
manager spregiudicati ma vuole uno Stato che resti fuori il più possibile dal
mercato. Per la crisi dei mutui, la sua ricetta è un piano di aiuti mirati per le
famiglie maggiormente in difficoltà.
Sulla politica fiscale è da sempre un liberista pragmatico. Nelle primarie del
Duemila si schiera contro il maxi-taglio delle tasse di Bush (perchè, a suo dire,
favorisce le fasce sociali già ricche) salvo poi, anni dopo, votarne la proroga.
All’indomani della candidatura a presidente aveva proposto la riduzione del
10% delle imposte sulle imprese per aumentarne la competività e un’altrettanta
consistente sforbiciata per le famiglie, compresa l’abolizione della alternative
minimum tax per una bella fetta della middle class. Da reaganiano ortodosso,
combatte il Governo invasivo e spendaccione. Liberista spinto sul commercio,
vede come fumo neglio occhi il protezionismo dei democratici e, per questo, si
sarebbe rivelato probabilmente un prezioso alleato dell’Europa. Se fosse stato
eletto, alla sua mente economica, Douglas Holtz-Eakin, sarebbe spettato il non
facile compito di conciliare il minor gettito fiscale con la gestione delle spese
militari che, stando ai programmi, per almeno quattro anni non dovrebbero
diminuire. Ma questo sarà compito di Barack e del suo staff.
Energia e Ambiente
L’obiettivo dichiarato da McCain si presentava ambizioso: ridurre la dipendenza
degli Stati Uniti dal petrolio straniero, con un occhio vigile al cambiamento
dei tanti istituti di depositi e prestiti che a qualche anno vivevano una stagione di grandi profitti. Era
il momento della deregulation: lo Stato aveva fatto un passo indietro per favorire lo sviluppo
economic, lasciando così gli istituti di credito privati liberi di fare investimenti, anche molto rischiosi,
con I soldi dei correntisti. Un’opportunità che Keating non si fece scappare. La Lincoln diventò il
motore trainante della A.C.C., generando profitti vertiginosi (passò da 3 a 80 milioni di utili in un solo
anno) contribuendo a creare quella bolla speculativa che scoppierà in faccia a Keating, ai
correntisti, ai contribuenti e, ovviamente, a McCain. Keating diede vita a una forsennata azione di
lobbying per contrastare inchieste e mettere all’interno dell’autorità garante uomini di sua fiducia.
Per frenare l’azione dei revisori, ha anche assunto come consulente Alan Greespan, ma non
funziona. Keating, allora, chiederà aiuto alla politica per nascondere le sue magagne e all’amico
McCain e altri quattro, poi soprannominati “Keating Five”. Purtroppo anche il sostegno politico non
riuscirà nell’impresa. Nel 1990 Keating finità in carcere, due anni dopo verrà condannato a 10 anni
di prigione. Il fallimento delle Savings & Loans era stato, fino alla scandalo dei mutui subprime dello
scorso anno, il peggior disastro finanziario dopo il crollo di Wall Street del ’29. La Lincon con i suoi 250
milioni di debito è stata la punta di diamante: 23 mila risparmiatori perderanno tutto, John McCain
sarà sempre stigmatizzato dallo scandalo.
23
climatico. La chiave per tenere legati questi due problemi si chiama cap and
trade. Si tratta di un complesso meccanismo di limiti e incentivi che punta a
ridurre le emissioni di gas sarra controllando e punendo le compagnie che non
rispettano i tetti stabiliti dalla lagge. Alle aziende virtuose, invece, vengono
assegnati dei bonus da poter rinvestire anche nelle energie alternative, come bio-
carburanti, solare, eolico e biomasse. McCain invoca flessibilità nell’affrontare il
problema e si oppone all’ipotesi di una tassa per il clima. Si dice pronto a un
nuovo impegno ambientale dell’America sulla scena mondiale. E’ disponibile a
ratificare il trattato di Kyoto (possibilmente aggiornato e migliorato) a patto, però,
che anche le due nuove grandi realtà economiche e produttive mondiali, Cina e
India, facciano altrettanto. Il suo non sarà stato un programma coraggioso come
Gore, ma è di sicuro molto più avanzato e verde di quello di Bush.
Temi sociali
Un pedigree da convinto anti-abortista, fiero oppositore dei matrimoni
omosessuali, sostenitore del libero possesso delle armi, manifesto del duo
McCain-Palin, avrebbero dovuto garantirgli l’amore della destra repubblicana più
intransigente. Eppure non è così. L’ala dei conservatori hard-core, che ha una
memoria da elefante, guarda in cagnesco McCain da almeno un decennio. Non gli
perdonano la crociata per i soldi puliti in politica: la McCain-Feingold
11
ha,
infatti, limitato non poco i flussi di denaro dalle casse delle lobby alle casse del
GOP
12
. Non dimenticano che sulla riforma dell’immigrazione Mac ha fliratato a
lungo con i democratici e, in particolare, con il Satana per antonomasia, Ted
11
Il suo tentativo di campaign finance reform insieme al democratico Russ Feingold iniziò nel 1994,
giunse al Senato come McCain-Feingold Act nel 1995, fu rigettato l’anno successivo e mai più
riproposto. Nei cinque anni successivi, McCain fu rieletto senatore per la terza volta, portò avanti
nuove proposte di legge e iniziò una guerra contro le lobby del tabacco. Nel 1999 pensò di
riproporre il McCain-Feingold Act, ma ciò gli costò probabilmente le primarie contro Gorge W. Bush
l’anno successivo, quando tutti lo accusarono di opporsi al suo stesso partito.
12
E’ l’acronimo di Grand Old Party, cioè il Partito repubblicano. Il partito nasce nel 1854 per
contrastare un provvedimento che avrebbe reso la schiavitù lecita anche nel Kansas. Secondo
l’Oxford English Dictionary il termine Grand Old Party è usato per la prima volta nel 1876, la sigla
GOP nel 1884. Il primo Presidente repubblicano è stato Abraham Lincoln, eletto nel 1860. Il simbolo
del Partito è un elefante, il colore ufficioso il rosso. L’asinello e il blu sono emblem e colore del Partito
democratico.
24
Kennedy. Gli rinfacciano il sostegno convinto della ricerca sulle cellule staminali
embrionali, tema su cui Bush ha posto il veto durante tutta la sua presidenza.
Sull’aborto, poi, lo considerano più un pro-choice (favorevole alla scelta da
parte della donna) alla stregua dei liberal che un pro-life come loro. All’ultra
destra bigotta non basta che McCain abbia chiesto e chieda ancora di ribaltare la
“Roe contro Wade”, la storica sentenza della Corte Suprema che dal lontano 1973
fa precedente e, dunque, legislazione sull’argomento. Più che delle dichiarazioni
politiche di bandiera, alla sua destra si fidano di una risposta data nel Duemila a
una domanda molto personale. Nel corso di un dibattio con gli altri aspiranti alla
Casa Bianca, gli chiedono “Cosa farebbe se sua figlia le dicesse di essere incinta e
di voler abortire?”, McCain risponde: “L’ultima parola spetterebbe a Meghan con
il supporto e il consiglio mio e di Cindy. Sarebbe una decisione privata della
nostra famiglia che condivideremmo tra di noi e con nessun altro.”
1. CALL ME BARACK
“Change. Yes, We Can!”
“La storia del primo presidente afro-americano alla Casa Bianca
comincia alla fine di un luglio afoso, a Boston. E’ il 2004, mancano tre mesi alle
elezioni presidenziali e Barack Obama è solo in politico locale candidato al senato
degli Stati Uniti. Il suo appassionante e lucido discorso a sostegno della
candidatura di John Kerry è più che una rinfrescante sorpresa per la platea. Le sue
parole elettrizzano la convention democratica. I giornalisti di tutto il mondo sono
conquistati da questo oratore dal nome strano e pericolosamente simile a quello di
Osama Bin Laden
13
.
Il giorno dopo, sulla stampa statunitense sarà un coro di hurrah per la
rivelazione del Partito Democratico. Tutti parleranno di lui come di un naturale
aspirante alla presidenza americana. Da allora, è stata una marcia trionfale.
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G. Moltedo, M. Palumbo, Barack Obama, La rockstar della politica americana, Utet, 2008.
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Barack, in swahili, la lingua franca del Kenya e dell’Africa orientale, vuol dire
“Benedetto”. E’ lo stesso nome del padre, un intellettuale africano del Kenya che,
grazie ad una borsa di studio, a 23 anni si trovò a studiare alla University of
Hawaii, a Honolulu, dove avrebbe incontrato Ann Dunham, originaria del Kansas,
futura moglie e mamma di Barack.
La storia di Obama è composta da tanti capitoli diversi. Una sequenza di
esperienze che sono alla base della sua personalità prismatica fuori dal comune.
Nell sue tante facce e identità ognuno può rispecchiarsi: “Ho tanti pezzi diversi di
persone diverse in me” confida, riconoscendo lui per primo che “questo è il
segreto del mio successo”. Un intellettuale, mai snob, sempre alla mano, in grado
di pronunciare discorsi alti, con il suo retroterra alla Columbia e a Harvard, e un
minuto dopo lo senti parlare, se è il caso con la cadenza afro-americana, a una
platea di neri.
Nato a Honolulu il 4 agosto 1961, sotto il segno del leone. Nelle sue vene
scorrono gocce di sangue cherokee, scozzese e irlandese, e vanta tra gli antenati
gente che ha combattuto per il movimento contro la schiavitù.
Già alla convention del 2004 si era dimostrato un leader carismatico per il
Partito Democratico, un protagonista capace di incarnare e simboleggiare il tanto
atteso cambiamento della politica statunitense. Il suo voler superare le
contrapposizioni figlie dei conflitti degli anni Sessanta. Il suo esibito rapporto,
anche “politico”, con la fede. E’ il profilo di una persona in cui, in modo naturale
e autentico, inclinazioni e pratica politica si sposano perfettamente.
La sensazione di chi legge il suo libro, The Audacity of Hope,è che Obama “non
abbia reinventato se stesso via via che si muoveva da un lavoro all’altro
(organizzatore di comunità a Chiago, direttore della “Harvard Law Review”,
professore di diritto costituzionale, parlamentare statale) ma abbia piuttosto
interiorizzato questi ruoli, abbracciandoli tutti.
14
”
Il successo di Boston, la vittoria elettorale per il seggio di junior senator
dell’Illinois, la pubblicazione di due libri, interventi, prese di posizione, discorsi,
iniziative tese a rafforzare il personaggio che via via prendeva forma, secondo una
strategia accurata che non lascia nulla al caso. Una strategia che, nella sua regia,
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M. Kakutani, Obama’s Foursquare Politics, With a Dab of Dijon, “The New York Times”, 17 ottobre
2006.
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ci parla di un politico che sa dove andare, è consapevole della sua forza e del suo
destino. Barack, il quarantasettenne della porta accanto, adesso si è trasferito con
tutta la famiglia al 1600 di Pennsylvania Avenue, la stanza dei bottoni.
2.1 L’attore e la sua regia
“L’America ha bisogno di un seduttore e della
sua luce riflessa, come un’attricetta”
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La “macchina” che ha assistito Barack Obama nel corso della sua campagna
politica ed elettorale è di primissima qualità. Il suo principale consigliere, oltre
alla moglie Michelle, fedele compagna di vita e di squadra, è David Axelrod, uno
dei più quotati strateghi politici americani (tra i suoi clienti John Edwards, Hillary
Clinton, Eliot Spitzer, Tom Vilsack, Rahm Emanuel). L’uomo che ha intuito il
punto di forza di Obama e ha saputo trasformarlo nella sua carta vincente: la sua
“autenticità”. In evidente contrasto con il personaggio “costruito” di Hillary
Clinton, l’altra faccia del partito. Preparata, esperta, abile finchè si vuole, ma
distante, fredda, mai veramente sincera. Probabilmente elementi che hanno
causato anche la sua sconfitta.
Il responsabile della attività su internet è quel Jim Brayton a cui Howard Dean
deve molto per il ruolo cruciale che ebbe la rete nella raccolta di fondi e sostegni
per la sua campagna nelle primarie del 2004. E poi, per la politica internazionale,
Samantha Power, esperta di diritti umani e vincitrice del premio Pulitzer, e per la
comunicazione, Robert Gibbs, già al servizio di John Kerry.
Al fianco di Axerod c’è un altro uomo-chiave, il suo socio David Plouffe,
manager della campagna obamiana, grande passione per la politica. Lavoro
prussiano e al tempo stesso carico di passione, Plouffe ha saputo fronteggiare
finanziariamente la delicata e decisiva sfida del “Super Tuesday”
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, mentre
l’organizzazione clintoniana cominciava già a soffrire i contraccolpi di una
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J. Wypijiewski, The Nation, Sex Bomb, Internazionale, n.758, 22-28 agosto 2008.
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Il 5 febbraio 2008, nel più grande “Super Tuesday” della storia delle presidenziali americane,
hanno votato per le primarie e caucus democratici e repubblicani ben 24 stati tra cui i più popolosi
(California, New York e Illinois). In campo Dem la sfida è finite in un sostanziale pareggio, con 838
delegati e tredici stati assegnatia Obama e 826 delegati e 9 stati a Clinton.
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