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L’attività del GATT (General Agreement on Trade and Tariff) fin dalla sua
entrata in vigore, nel 1948, si è svolta attraverso una serie di negoziati, i primi
cinque dei quali esclusivamente tariffari, basati cioè su concessioni daziarie
reciproche concordate per ciascuna voce doganale. Con il Kennedy round (1964-
67), che ha rappresentato la prima concertazione diretta ad una riduzione
generalizzata dei dazi doganali, per la prima volta il negoziato si è esteso ad una
tematica non tariffaria: quella dell’antidumping. Con il Tokyo round (1973-79),
oltre ad una nuova riduzione generalizzata dei dazi (35%), sono stati concordati
dei codici di comportamento per rimuovere i più importanti ostacoli non tariffari.
Infine con l’Uruguay round, oltre a definirsi l’istituzione dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio, sono stati inclusi nelle trattative anche settori fino
allora restati fuori dei negoziati GATT (agricoltura, servizi, proprietà
intellettuale). L’agenda dell’Uruguay round è stata lunga, ambiziosa e contiene
molto del lavoro non completato durante i precedenti negoziati del GATT ed
anche nuovi punti che erano emersi dai più recenti sviluppi nell’ambito del
commercio internazionale.
L’obiettivo dell’Uruguay round divenne così di affrontare il numero più alto
possibile di problemi che avevano indebolito il GATT e che avrebbero potuto
minacciare il ruolo, se non la sopravvivenza stessa, di un sistema commerciale
fondato su regole multilaterali. Vi era, peraltro, un diffuso scetticismo sulle
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possibilità che i negoziatori avrebbero avuto di affrontare con successo queste
sfide sempre più complesse. E questo portò più di un autorevole osservatore a
pronosticare, forse un po’ troppo affrettatamente, la fine del sistema GATT. Alla
fine, infatti, i pessimisti hanno avuto torto e i negoziatori sono riusciti a
completare il negoziato nel 1994. E l’Uruguay round rappresenta una pietra
miliare nelle trattative commerciali internazionali, non solo perché ha esteso con
successo le regole commerciali comuni incorporate nel GATT a nuove aree del
commercio internazionale, ma anche perché ha mostrato che il multilateralismo
negli scambi mondiali costituisce un’opzione ancora percorribile.
Sono molti i motivi che spiegano le difficoltà del negoziato e le conseguenti
incertezze che lo hanno circondato. Il numero di parti impegnate nella trattativa
era fortemente aumentato a partire dalla conclusione del Tokyo round, nel 1979,
ed era ulteriormente salito negli anni nel negoziato dell’Uruguay round. Si erano
aggiunti in quegli anni circa trenta nuovi membri del GATT, quasi tutti Pvs. Il
numero di paesi partecipanti al GATT era dunque aumentato, ma a scapito
dell’omogeneità in termini di interessi nazionali e regionali. Per di più, come si è
notato in precedenza, l’Uruguay round si era posto obiettivi molto ambiziosi, tra i
quali l’estensione delle regole GATT ad aree fino a quel punto lasciate all’esterno,
come gli scambi agricoli e di tessili, gli investimenti commerciali e i diritti della
proprietà intellettuale.
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I responsabili delle politiche dei paesi industrializzati esprimevano spesso
un’adesione puramente formale al multilateralismo e al GATT, enfatizzavano
l’importanza di una conclusione positiva dell’Uruguay round, ma non sembravano
disposti a trovare i compromessi tra i relativi interessi necessari a ottenerla, né
eccessivamente preoccupati delle conseguenze di un fallimento dei negoziati sul
sistema GATT. Ad eccezione di un piccolissimo gruppo di difensori convinti e
dichiarati del multilateralismo nelle relazioni commerciali internazionali, la
maggior parte dei leader politici del mondo occidentale sembrava estranea ai
rischi che occorreva affrontare in quest’area e indifferente nei confronti della
minaccia posta dalla possibile frammentazione delle relazioni commerciali
internazionali e dall’emergere di blocchi commerciali, il cui comportamento non
poteva essere previsto in modo sicuro.
L’interesse comune a creare un ambiente commerciale mondiale più libero e
più ordinato si dimostrò sufficientemente forte da spingere i membri verso
compromessi accettabili in molte aree. L’accordo tra gli interessi di così tante
parti in causa si dimostrò ancora possibile. Di fronte alle prospettive di un nuovo
insieme di regole in materia di scambi, i paesi che parteciparono all’Uruguay
round scelsero alla fine di salvare quelle esistenti e di rafforzarle in alcuni modi
importanti. Scelsero inoltre di dare vita a una nuova organizzazione per il
commercio mondiale (WTO) per simboleggiare le dimensioni estese dell’accordo
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raggiunto e forse anche la volontà di rafforzare le disposizioni istituzionali del
GATT che si erano dimostrate deboli all’inizio dell’accordo ed erano rimaste tali
nel corso degli anni. Tuttavia, per molti, il successo raggiunto era stato troppo
limitato per essere di consolazione.
I risultati di un ciclo di negoziati devono essere adottati integralmente ed
applicarsi a tutti i membri dell’OMC. Solo il principio di un processo unitario
garantisce che i negoziati vadano a vantaggio di tutti i membri dell’OMC e che i
risultati finali siano approvati da tutte le parti. In caso contrario, sarà difficile e
anzi quasi impossibile pervenire ad un equilibrio complessivamente vantaggioso
tra diritti e obblighi. Pertanto, è necessario che la Comunità continui a
pronunciarsi a favore dell’avvio e della conclusione dei negoziati come processo
unitario. Un ciclo globale di negoziati commerciali necessita di un’attenta
preparazione e deve produrre risultati nei tempi brevi richiesti dalla rapidità dei
mutamenti economici.
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I. LA TRASFORMAZIONE DEL GATT
1. Le circostanze della nascita del GATT
Riuscire a definire in maniera sintetica ed esauriente il GATT costituisce
impresa piuttosto ardua, essendo esso oggi qualcosa di concettualmente e
praticamente differente da ciò che avevano in mente i 23 paesi che nel 1947 gli
diedero vita. Ancora prima che il secondo conflitto mondiale fosse terminato, le
potenze alleate occidentali cominciarono a preoccuparsi di stabilire un ordine
economico sul quale avrebbero dovuto poggiare i rapporti internazionali una volta
che il mondo fosse uscito da una guerra che per molti versi, poteva essere
considerata il frutto della crisi economica del decennio che l’aveva preceduta.
Sul fronte monetario e valutario, la conferenza svoltasi a Bretton Woods
(Usa) nel luglio del 1944 si concluse con gli accordi che dalla cittadina americana
presero il nome e che furono operanti fino al 1971, quando gli Stati Uniti, con la
dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro, posero di fatto fine al sistema
valutario internazionale sul quale si era retto l’eccezionale rilancio economico
successivo agli anni della depressione e della guerra.
Se i negoziati valutari e finanziari ebbero vita relativamente facile, maggiori
problemi sorsero invece in seguito alla proposta degli Stai Uniti, nel 1945, per il
completamento degli accordi di Bretton Wood da realizzarsi con un’intesa sulla
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disciplina multilaterale degli scambi internazionali. Va detto che, già nel 1943,
esperti britannici e americani avevano stabilito i princìpi generali cui un’eventuale
trattativa avrebbe dovuto ispirarsi.
L’interesse degli Stati Uniti per una liberalizzazione del commercio
internazionale dipendeva, in una certa misura, da motivi d’ordine economico e
politico generale: era, infatti, convinzione dell’amministrazione Roosevelt che
uno sviluppo sostenuto degli scambi commerciali avrebbe favorito la crescita
economica e, con essa, la stabilità politica dei paesi democratici. Ciò che però
induceva gli Stati Uniti a sollecitare un accordo per lo smantellamento, (o,
almeno, per la progressiva riduzione) degli ostacoli, tariffari e non, al libero
svolgimento del commercio internazionale era soprattutto la necessità di trovare
nuovi sbocchi per la loro produzione, che durante gli anni della guerra aveva fatto
registrare uno sviluppo assai sostenuto.
Nel febbraio 1945 gli Stati Uniti, sulla base delle discussioni avute nei mesi
precedenti con la Gran Bretagna, presentarono un documento nel quale venivano
proposte le linee fondamentali di un codice di condotta relativo alle restrizioni
governative al commercio internazionale e dove si prefigurava la creazione di una
“Organizzazione internazionale del commercio ” (ITO) sotto l’egida
dell’ONU, da preporre al controllo dell’osservanza del codice stesso.
L’iniziativa americana fu fatta propria dalle Nazioni Unite e nel febbraio 1946 il
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Consiglio economico e sociale istituì un comitato preparatorio composto dai
rappresentanti di 19 paesi, cui venne affidato il compito di predisporre la
convocazione di una conferenza mondiale sul commercio e l’occupazione.
Durante i lavori del comitato preparatorio — che durarono 18 mesi e ai quali
non prese parte l’Unione Sovietica — emersero sostanzialmente tre posizioni:
quella degli Stati Uniti, che godeva dell’appoggio dei paesi del Commonwealth
1
bianco e che era favorevole alla maggiore liberalizzazione ed omogeneizzazione
possibile dei mercati internazionali; quella dei paesi europei preoccupati
soprattutto di proteggere la rinascita della loro industria, gravemente colpita dalla
guerra; infine, la posizione dei Pvs
2
, fortemente critica nei confronti delle tesi
degli Stati Uniti e tendente a sottolineare la necessità del varo di un programma di
aiuti finalizzato allo sviluppo delle regioni e dei paesi più arretrati.
Nel corso della Conferenza di Ginevra, che si tenne dall’aprile all’agosto del
1947 e che costituì la seconda ed ultima fase dei lavori preparatori, gli Stati Uniti
riuscirono ad imporsi: l’accordo che venne raggiunto recepiva soprattutto le
istanze liberistiche americane. L’ultima fase del negoziato poteva prendere avvio.
Il 21 novembre 1947 si apri all’Avana la conferenza mondiale sul commercio
e l’occupazione: l’Atto finale, sottoscritto il 24 marzo 1948 dai rappresentanti di
53 parsi e noto come Carta dell’Avana, benché accogliesse parte delle rivendica-
1
Complesso di Paesi, un tempo colonie inglesi e oggi indipendenti, uniti da una comune
cittadinanza facente capo alla corona britannica o dal riconoscimento del sovrano di Gran Bretagna
2
Paesi in via di sviluppo.
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zioni dei Pvs, conservò tuttavia un’impostazione decisamente vicina alle tesi
americane. Esso conteneva una serie di norme sulla politica commerciale, sui
cartelli, sulle materie prime, sulla distribuzione del lavoro e sullo sviluppo
economico: prevedeva inoltre la costituzione di un’agenzia delle Nazioni Unite,
l’ITO, che avrebbe dovuto vigilare sulla corretta applicazione delle norme stesse e
fungere da centro di ricerca sui problemi relativi agli scambi internazionali.
Nonostante, come sì e detto, la posizione americana uscisse sostanzialmente
vincente dal lungo negoziato, sorprendentemente il Congresso degli Stati Uniti
non ratificò il trattato, ritenendolo non compatibile con le posizioni economiche e
politiche espresse in quegli anni da Washington. Venuta meno l’adesione degli
Stati Uniti, maggiore potenza economica mondiale e parte promotrice
dell’accordo, la Carta dell’Avana perse ogni concreto significalo e fu lasciato
scadere il termine per la sua definitiva approvazione da parte di almeno 20 paesi,
condizione necessaria perché il Trattato diventasse operativo. L’ITO seguì
naturalmente la stessa sorte del Trattato. II fallimento finale dell’intesa avrebbe
potuto determinare una grave situazione di empasse nella regolamentazione delle
relazioni commerciali internazionali. Se ciò non ebbe a verificarsi fu soprattutto
perché fra la conferenza preparatoria di Ginevra e la conferenza finale dell’Avana
era stato sottoscritto un altro documento, l’Accordo generale sulle tariffe doganali
e il commercio (GATT), che costituiva una sorta di protocollo provvisorio d’appli-
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cazione della Carta dell’Avana. I negoziati che avevano portato alla conclusione
di tale accordo si erano svolti a Ginevra parallelamente a quelli condotti dal
comitato preparatorio della conferenza mondiale del commercio e
dell’occupazione: ad essi avevano preso parte 23 paesi (fra i quali tutti quelli che
partecipavano ai lavori del comitato preparatorio), invitati dal Dipartimento di
Stato americano a trattare la riduzione dei dazi doganali e delle barriere non
tariffarie. In pratica, il documento riprendeva gli aspetti essenziali delle
disposizioni commerciali della Carta dell’Avana, mentre ignorava le questioni
relative alla ricostruzione delle economie europee e all’assistenza ai Pvs.