Ogni storia è l’insieme di tante altre storie che si intrecciano l’un l’altra
rendendosi parte essenziale della storia principale; piccole gocce dentro un
ruscello che, in apparenza, sembra scorrere da sé quand’è invece spinto
dalla sola inerzia delle gocce che lo compongono. A sua volta, ogni goccia
del ruscello è composta da infinite particelle ed ogni particella di questa può
essere scomposta ancora in una quantità di altre parti matematicamente
indeterminabile se non con una parola: infinito.
Ci sono storie di uomini e di donne che contengono questa indeterminatezza
che genera, quando le confrontiamo con la nostra modesta biografia, il
dubbio e quasi la paura che possano esistere persone simili, meravigliose
per le loro azioni, per il loro modo d’essere o semplicemente di affrontare
la vita.
L’argomento che si tratterà di seguito, prende spunto da una di queste
storie: la storia di un regista e teorico teatrale (Eugenio Barba) che ha dato
vita ad un gruppo (l’Odin Teatret); la storia di questo gruppo che ha creato
infinite rappresentazioni di altrettante storie (gli spettacoli dell’Odin
Teatret); la storia di uno spettacolo (l’Ur-Hamlet) che ha generato infinite
sensazioni che, con i limiti della modestia e del medium utilizzato, si
cercherà qui di trasmettere.
7
Si prenderà come esempio la messa in scena del citato Ur-Hamlet nello
spettacolo tenutosi nel giardino di Palazzo San Giacomo a Russi (RA) il 23
luglio 2006. La descrizione degli elementi scenici e del testo spettacolare
che hanno concorso alla messa in scena, sarà preceduta da una dissertazione
che riassumerà la storia di Eugenio Barba, dell’Odin Teatret e dell’ISTA
(l’International School of Theatre Antropology) con le conseguenti teorie
che ne hanno posto le basi.
Scopo dell’intera trattazione sarà dimostrare che lo spettacolo citato, con la
sua intera messa in scena, si pone sul panorama della storia del teatro
contemporaneo come l’esempio – se vogliamo, pratico – non solo delle
teorie facenti capo all’Antropologia Teatrale, ma anche di una serie di
teorie già presenti in diversi storici del teatro che ipotizzano una “scienza
dei teatri”
1
che prende le mosse dal Teatro Eurasiano, includendo realtà
“alternative” come lo è l’Odin Teatret e lo sono stati il Teatr Laboratorium
di Grotowski piuttosto che il Living Theatre.
Quello che si tenterà, sarà la descrizione di un ruscello – o forse di un
possibile fiume nato da un ruscello – le cui gocce sono degli attori che si
muovono lungo strade tracciate dalle mani di un regista-teorico, spinti da
una forza che sarebbe troppo semplice chiamare “teatro”, perché è energia
che genera la voglia di prender parte a qualcosa che, forse, diventerà quel
1
Cfr. § 1.2 p. 17
8
cerimoniale che si fa spettacolo, rappresentazione di un vivere, un “essere”
che non ha la necessità di “dire” con parole note da centinaia di anni e poi
divenute solo storia scritta su “carta da biblioteche”. È qualcosa di nuovo
che scopriamo, un “noi” visto attraverso altro.
9
Capitolo 1
Eugenio Barba e l’Antropologia Teatrale.
10
1.1 Eugenio Barba e l’Odin Teatret
Le situazioni sconvolgenti nascono dagli incroci di attimi imprevedibili,
mai tenuti in considerazione prima del loro manifestarsi. Eugenio Barba
aveva 24 anni quando si scontrò per la prima volta, e veramente, con l’idea
che il teatro potesse essere la sua chiave di volta.
Dopo aver terminato il liceo alla scuola militare di Napoli, a 17 anni parte
verso Copenaghen in autostop e poi a Stoccolma. Per un anno si imbatte in
una serie di lavori: lavapiatti, raccoglitore di giornali, aiutante dei contadini
nelle campagne. In Lapponia lavora in una miniera di carbone prima di
essere sbattuto al di là della frontiera norvegese dalla polizia a causa del
visto scaduto. A Oslo lavora come lattoniere, fa da modello al pittore Willi
Midelfart prima di imbarcarsi per due anni su una nave che lo porta per la
prima volta in India, il “Talabot”. Ritorna nel 1957 e si iscrive
all’Università di Oslo: di giorno lavora come saldatore, di sera segue i corsi
all’università. Conosce la realtà teatrale della Norvegia: con la scusa di
invitarvi le ragazze per far colpo, andava spesso a teatro, «ma gli spettacoli
erano una noia terribile. [Non capiva] perché mai quello che un attore stava
per fare o il modo in cui stava per reagire o per pronunciare una frase
11
dovesse essere tanto prevedibile»
2
. In quel momento decide di studiare
regia, ma in Norvegia non vi erano scuole. L’idea per riuscirvi arriva da un
film visto ad Oslo nell’autunno del 1959: Ceneri e diamanti di Andrzej
Wajda: «le immagini di una guerra civile, di una passione disperata, del
senso dell’onore e del disprezzo per la vita, di una tenerezza per la follia e
la debolezza degli esseri umani stritolati dalla ferocia della storia»
3
.
Nei primi di gennaio del 1961 Eugenio Barba è in Polonia. Si iscrive
all’Università di Varsavia, studia il polacco e si prepara per la prova di
ammissione alla scuola di teatro che passa con un progetto su l’Edipo
tiranno di Sofocle. In Polonia assiste a molti spettacoli, stringe nuove
amicizie e sente parlare di un regista che lavora ad Opole, una cittadina
vicino Cracovia, e che propone degli spettacoli d’avanguardia: assiste alla
rappresentazione di Dziady (Gli avi) di Jerzy Grotowski, senza troppo
entusiasmo, senza tanti stravolgimenti d’animo. Ma nell’ottobre del 1962
Barba si reca di nuovo ad Opole, conosce personalmente Jerzy Grotowski
col quale stavolta instaura subito un rapporto che si basa sin da quegli albori
su una profonda intesa intellettuale.
Dal 1962 al 1964 Eugenio Barba è assistente di Jerzy Grotowski al Teatr-
Laboratorium 13 Rzędów (Teatro delle 13 file): partecipa alla
2
E. Barba, La terra di cenere e diamanti, Milano, Ubulibri, 2004, p. 84
3
Ivi, p. 17
12
trasformazione di quel teatro di provincia in un «ensemble la cui
intransigenza artistica sarà il seme di una profonda rigenerazione della
nostra arte»
4
; si fa portavoce attivo della rivoluzione copernicana di
Grotowski, dell’abolizione della «separazione fisica tra attore e spettatore»,
della realizzazione alla lettera dell’«unità tra scena e sala»
5
. Eugenio Barba
vede la nascita e l’evoluzione di Akropolis e del Dr. Faust di cui diventa
principale propugnatore fuori dalla Polonia, aiutato dai coniugi Temkine
(Rymonde e Valentine), da quel momento speciale roccaforte a Parigi fuori
dal Soviet sia per l’ensemble di Grotowski che per Barba.
Nel 1964 Barba è si nuovo a Oslo, o meglio, si ritrova “sbattuto fuori” dalla
Polonia in quanto “persona non grata”. Cerca lavoro come regista in tutti i
teatri di Oslo, ma non avendo attestati ed essendo quello di Grotowski un
nome sconosciuto, l’impresa è a dir poco ardua. Prende contatti con persone
nelle sue stesse condizioni: «affamate di teatro ma impossibilitate a saziare
questa fame»
6
, cioè giovani rifiutati dalla scuola nazionale di teatro.
Insieme a quattro di questi giovani (Anne Trine Grimmes, Else Marie
Laukvik, Tor Sannum e Torgeir Wethal, all’epoca tutti al di sotto dei
vent’anni), il 1° ottobre 1964 fonda l’Odin Teatret. Nel 1966, l’Odin Teatret
si trasferisce ad Holstebro, una cittadina di 18.000 abitanti nello Jutland, in
4
Ivi, p. 32
5
Ivi, p. 38
6
Ivi, p. 86
13
Danimarca, sospinto da una sovvenzione del comune e da un locale
assicurato (una fattoria vuota fuori città) concessi in cambio della promessa
di realizzare un “teatro laboratorio”.
Fino alla metà degli anni ‘70, il lavoro dell’Odin Teatret si distingue per
l’organizzazione di seminari, due all’anno: uno in primavera di una
settimana su un tema specifico (commedia dell’arte, linguaggio scenico,
teatro indonesiano, teatro giapponese), l’altro in luglio di due-tre settimane
sul training. I seminari sono vere occasioni di crescita del gruppo ma anche
di interscambio culturale con e attraverso realtà in apparenza differenti. Il
lavoro del gruppo è basato sulla pratica del training che, attraverso esercizi
ginnici, tecnici e prettamente teatrali, permette di «lasciare da parte la
psicologia e la preoccupazione di dar vita a un personaggio per concentrarsi
sulla costruzione di una presenza con codificazione personale»
7
. Solo con
spettacoli di piccole dimensioni (60-70 spettatori) il gruppo si apre
all’esterno, e non per ricevere un riscontro del lavoro o un ipotetico
risultato, ma per dar forza alla funzione dello spettatore che «non è passiva,
bensì attiva, inventiva. Gli spettatori, in qualche modo, sono nello
spettacolo, collaborano allo spettacolo»
8
. Rilevante è anche la
configurazione degli spazi: in Ornitofilene (1965-66) e Kaspariana (1967-
7
E. Barba, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, Milano, Ubulibri, 2004, p. 196
8
R. Alonge, Il teatro dei registi, Roma, Ed. Laterza, 2006, p. 163
14
68) «lo spazio si realizza secondo i principi di Grotowski. [...] Con Ferai
(1969-70), [...] lo spazio è un ovale con gli spettatori lungo i due lati lunghi,
l’azione è centrale ma si dilata alle spalle degli spettatori [...]; lo spazio usa
il tempo, colloca l’occhio dello spettatore all’interno di uno spazio che solo
nella successione temporale del guardare viene mentalmente ricostruito ed è
quindi avvolgente e coinvolgente»
9
.
Nel 1974, con un soggiorno ad Ollai (Sardegna), nasce la concezione del
“baratto”: pratica che definisce l’identità del gruppo partendo dalla
differenza, dall’incontro con culture differenti nel tentativo di un
interscambio che è culturale prima d’essere spettacolare, in «uno spazio che
costruisce la percezione dello spettatore e si concreta di materia negli
oggetti, nei suoni, nei costumi»
10
.
Durante l’Incontro Internazionale di Ricerca Teatrale, diretto da Eugenio
Barba e tenutosi nel 1976 a Belgrado nell’ambito del Bitef/Teatro delle
Nazioni, nasce l’idea di un “Terzo Teatro”, che da subito non si definisce
come «un fenomeno artisticamente decifrabile»
11
. «Non è un “altro teatro”
che nasce, ma altre situazioni cominciano ad essere chiamate teatro»
12
.
Terzo Teatro indica «un rituale vuoto che riempiamo con il nostro “perché”,
9
F. Cruciani, Lo spazio del teatro, Roma, Ed. Laterza, 2004, pp. 173-174
10
Ivi, p.175
11
E. Barba, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, op. cit., p. 171
12
Ivi, p. 181
15
16
con la nostra necessità personale»
13
. Questa concezione viene diffusa anche
durante gli altri viaggi che l’Odin Teatret intraprende in America latina
(Perù e Cile) e in Europa, sempre alla ricerca di «un inusitato spazio
primario, aggregante, comunitario e transculturale del teatro»
14
.
13
Ivi, p. 200
14
F. Perrelli, Storia della scenografia, Roma, Carocci Editore, 2006, p. 189