15
misteriosi ammonimenti: “Tacete! Anche il vostro silenzio affretterà la vittoria”; “La
migliore guerra alle spie si fa non parlando mai della guerra”; oppure “Arrestate
chiunque cerchi con discorsi, o colla propalazione di notizie allarmanti, di menomare la
ferma fiducia che noi tutti abbiamo nel glorioso esito della nostra guerra”. Si richiedeva
ai militi un’ulteriore sacrificio: il silenzio, l’omertà sulle loro fatiche!
L’intellettuale interventista Gaetano Salvemini consigliava addirittura le autorità
militari di non mandare i combattenti feriti a passare la loro convalescenza in famiglia,
perché i discorsi sui pericoli, i disagi e le morti in guerra avrebbero avuto effetti
psicologici disastrosi.
2
Sin dal gennaio 1916 il generale Cadorna aveva dovuto “dolorosamente
constatare” che vi erano “molti pusillanimi ed incoscienti i quali recandosi in licenza,
anziché diffondere la fiducia” nella vittoria finale, come avrebbero voluto “il loro onore
di soldati e il loro più sacro dovere verso la Patria”, compivano nel paese “vergognosa
opera di abbattimento e di sconforto”.
3
«I più accaniti – continuava Cadorna – sono certamente quelli che si sono peggio
comportati di fronte al nemico. Spargono inconsulte voci di insormontabili difficoltà,
di perdite enormi subite, insinuano la sfiducia nei capi, esagerano le sofferenze della
vita in trincea, raccontano che colera e tifo infieriscono tra le truppe, ecc. Tali notizie
false ed esagerate, anche se non propalate in pubblico ma divulgate fra i parenti e gli
amici, dilagano rapidamente e deprimono, specialmente nella parte meno colta della
popolazione, quello spirito pubblico che una saggia preparazione civile ha saputo
mantenere finora così alto e fiducioso nella vittoria delle armi»
1
Sull’uso del termine tradizionale di “battaglia” anche per la prima guerra mondiale, cfr. P. Fussell, La Grande
Guerra e la memoria moderna, cit., p. 14.
2
Riportato in PLOT, p. LVI.
3
La circolare da cui traiamo queste considerazioni è, secondo quanto indica la Relazione della Commissione
d’inchiesta su Caporetto (REL, pp. 497-498), la n. 402. La troviamo riportata anche in G. Del Bianco, La guerra e il
Friuli, vol. II (1915-1917), Del Bianco Editore, Udine 1939, pp. 400-401. Per un’interessante analisi della genesi,
16
Ritornando infatti ai loro paesi i soldati trovavano un ambiente molto diverso da
quello che si sarebbero aspettati: la nazione, al di là delle scontate parole d’ordine
scandite instancabilmente dai giornali, dei discorsi gonfi di retorica e di fede che
riempivano le cronache, non “sentiva” la guerra, sembrava sorda alle sofferenze dei
militi, addirittura insofferente della loro scontrosità o eccessiva timidezza nel raccontare
le loro avventure. Non è dunque un ambiente solidale, caldo e accogliente quello che li
attende:
«La vita gaia e spensierata delle grandi città – ricorda Del Bianco – la trascuratezza
nella quale erano lasciate le famiglie povere dei soldati al fronte, davano la sensazione
che nessuna cura, nessun pensiero vi fosse da parte dei cittadini e che il Paese non
apprezzasse, non comprendesse, non mostrasse riconoscenza per i sacrifici
dell’esercito. Chi dalle trincee veniva nell’interno vi trovava un senso di benessere
contrastante con la vita dura della prima linea, e provava l’impressione che vi fosse
una Italia che combatteva e una Italia che si divertiva»
4
Dopo diciassette mesi di lontananza il tenente Carlo Salsa rientra finalmente a
Milano; lo accoglie una città che sembra ignara di quanto sta accadendo non molto
lontano, e pure un poco sbruffona:
«Ho gironzolato per la città col mio fagotto sotto il braccio – scrive – come chi vede le
cose per la prima volta. Una specie di smarrimento avevo nel cuore. Non so anche
perché mi sia stupito di ritrovare tanta gente indifferente per le vie, di costatare che
tutto procedeva col ritmo di prima, che i teatri annunciassero degli spettacoli, che i
storia e memoria dei lavori della Commissione d’inchiesta su Caporetto, si rinvia all’agile volumetto di N. Labanca,
Caporetto, storia di una disfatta, Giunti, Firenze 1997, pp. 88-101.
4
La guerra e il Friuli, cit., p. 419. Per rileggere il clima che regnava nel paese si può fare riferimento
all’inquadramento storico, utile ancorché romanzato, proposto da Mario Silvestri nel secondo capitolo (Così viveva il
paese) del suo Isonzo 1917, Einaudi, Torino 1965, pp. 13-49.
17
ritrovi rigurgitassero. Qui non c’è la guerra: la guerra è lassù, per noi, nell’altro
mondo: qui cosa ne sanno? E, se non sanno, non si può pretendere che si piglino delle
scalmane. Mi hanno guardato perché ero vestito male: qualcuno mi ha chiesto: “Lei è
di fanteria?” con l’aria di pensare: “Che straccione!”. Ho incontrato per via una
vecchia conoscenza, Bonacossa, un tipo di ribelle che – ricordo – nell’attesa che si
dichiarasse la guerra sermoneggiava a gran voce in ufficio, menando tremendi pugni
sul tavolo; strillava che questa guerra si doveva fare, che era guerra sacrosanta, e
celebrava il valore nazionale, la santità della patria, il prestigio del passato. L’ho
rivisto ora, bardato come un legionario romano, con dei gambali gialli sensazionali:
gli ho fissato a lungo, sul collo, le pipe nere dei servizi sedentari»
5
Le retrovie del fronte, le città e i paesi di provenienza, rappresentavano per il
soldato in licenza la vita, gli affetti, il luogo dove dimenticare le sofferenze, ma spesso
erano anche i cosiddetti boschi sacri,
6
rifugio dei favoriti, dei furbi, dei camorristi, dei
trafficanti, con le loro divise e i loro incarichi che di bellico avevano solo l’immagine, e
che all’occasione trovavano perfino la boria di sfottere:
«È entrato poi un amico in borghese – scrive ancora Salsa – esoneratissimo.
Domandò, stupito: “Come! Nemmeno una medaglia?”. Mi stupii, a mia volta, che
nemmeno lui avesse una medaglia, col coraggio che dimostrava rivolgendo certe
domande. Cominciò a sentenziare: “Noi, la guerra, la conosciamo più di voi: perché,
da qui, si può osservare l’andamento generale, mentre voi non potete vedere che quel
poco che avete dinanzi alla punta del naso”. Continuò: “Che avete da lamentarvi? Tu
per esempio sei assai più fortunato di me, perché hai vissuto la bella tragedia e sei qui,
5
C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, Mursia, Milano 1982 (I ed. 1924), p. 200. Cfr. sullo stesso tema anche M.
Mariani, Colloqui con la morte, Sonzogno, Milano s.d. (prob. 1919), pp. 194-196; e A. Baldini, Nostro Purgatorio,
Treves, Milano 1918, pp. 68-75. Uno studio importante sulla città di Roma durante la Grande Guerra si deve ad
Alessandra Staderini (Combattenti senza divisa. Roma nella grande guerra, il Mulino, Roma 1995; cfr. in particolare,
per il tema qui affrontato, le pp. 413-425).
6
La Commissione d’inchiesta su Caporetto ha scritto importanti e caustiche pagine sulla pratica dell’imboscamento
(cfr., ad esempio, REL, pp. 400-406). Del Bianco fa menzione degli ufficiali usi “a trascorrere il tempo in ciance nel
18
come me, incolume”. Ho salutato in fretta, promettendo di ritornare. Brutto affare le
visite presso le famiglie che al fronte non hanno nessuno»
7
A vedere e sentire tutto questo, magari con la propria famiglia che navigava in
difficoltà finanziarie per i sussidi da fame che il governo passava, il combattente
“dapprima si turbava, si addolorava, ma alla fine si inaspriva”:
8
«La licenza è finita stupidamente – annota Mario Muccini – come è cominciata e
proseguita. E parto, senza rammarico e senza nostalgia. Ormai mi sento spaesato. Non
ci si intende più, noi delle trincee e quelli delle città. Noi odiamo loro perché sono vili,
codardi, egoisti e ladri. Essi odiano noi perché la nostra stessa presenza è una
rampogna per loro»
9
Si finiva per rientrare al corpo d’appartenenza quasi con sollievo, con l’istinto
dell’uccelletto che torna al suo nido, dove le situazioni sono note, la realtà stabile,
seppure nella sua tragicità. Dove la guerra si vive giorno per giorno come una lotta per
la sopravvivenza, non si legge o racconta attraverso le note dei bollettini ufficiali o della
propaganda. Scrive Curzio Malaparte:
«Quando il popolo delle trincee cominciò a rifluire – per quindici giorni – nell’interno
del paese […] i fanti impararono a odiare la nazione […]. Comitati di soccorso, Case
del soldato, Associazioni patriottiche, Comitati di beneficenza, tutto ciò gli aveva
«trincerone del Dorta» (come solevasi chiamare il caffè Dorta di Udine, intendendo per antonomasia definire gli ozi
della città)” (La guerra e il Friuli, cit., p. 411).
7
Trincee, pp. 201-202.
8
REL, p. 406. Le richieste di miglioramento della situazione alimentare e finanziaria della popolazione civile
verranno avanzate continuamente e da più parti, soprattutto nel corso del 1917. Si veda, ad esempio, l’intervento
dell’onorevole Modigliani ad una riunione del Comitato segreto della Camera il 29 giugno di quell’anno (Camera dei
Deputati. Segretariato generale, Comitati segreti sulla condotta della guerra (giugno-dicembre 1917), Archivio
Storico, Roma 1967, pp. 84-88) durante la quale il deputato invita il governo ad aumentare i sussidi alle donne che
avevano figli o mariti al fronte, onde evitare le tensioni di piazza che in quelle settimane eccitavano le città italiane.
9
Ed ora, andiamo! Il romanzo di uno “scalcinato”, Tavecchi, Bergamo 1938, pp. 205-206.
19
l’aria di una presa in giro, di un “bosco elegante e umanitario”, di una enorme
associazione dalle innumerevoli filiali intesa a gabbarlo, a fargli digerire l’amara
pillola della guerra con l’aiuto di uno zuccherino tricolore, a fargli dimenticare gli
orrori della trincea con l’esibizione di signorine in soggolo, di bandierine interalleate e
di cartoline illustrate. A mano a mano che il povero fante, ancora intontito da lunghi
mesi di solitudine e di tormento, si allontanava dalla linea del fuoco verso l’interno del
paese per godervi i quindici giorni regolamentari di oblio e di riposo, vedeva sorgere
sulla sua strada sempre nuove difficoltà e incontrava una sempre maggior quantità di
gente che si faceva un dovere di ricordargli, ad ogni piè sospinto, gli orrori della
trincea e la maledizione di dover soffrire e morire. Dopo la lunga marcia dalle linee ai
Comandi di tappa – centri di raccolta dei licenziandi – per strade ingombre di
autocarri che salivano carichi e scendevano vuoti (proibizione ai soldati inviati in
licenza di salire sui camions, anche se vuoti!) dopo le mille irritanti formalità,
inventate apposta sembrava, per tormentare, (perquisizioni, tagli dei capelli,
interminabili attese sotto la pioggia, cattive maniere di ufficiali imboscati, strillanti e
dimenantisi per un nonnulla), dopo i lunghi viaggi in carri-bestiame senza paglia,
dopo gli urli e le invettive dei Comandi militari di stazione seccati di quel nuovo
grattacapo e preoccupati di non far uscire i soldati per la città, di impedir loro
l’accesso ai Ristoranti, di farli penare sei ore per un “visto” o per una scatoletta di
carne […] Quando i fanti scesero dalle trincee […] nessuno quasi si accorse di quegli
uomini serî, sudici, logori, che passavano in silenzio senza sventolare bandiere e
cantare inni di guerra. Lo spettacolo di quelle interminabili tradotte piene di popolo
sbrindellato e grave, faceva pena e noia. Quei soldati avevano l’aria di uscire da una
prigione. Non dovevano avere molto coraggio, pensavano i pacifici borghesi, se la
guerra li aveva ridotti in quel pietoso stato di abbattimento. La guerra invece… Invece
la guerra, nell’immaginazione di quelli che erano rimasti lontani dalle trincee, era
sempre la bella lotta in campo aperto, nel sole, con le bandiere spiegate e i colonnelli a
cavallo alla testa dei reggimenti bene allineati e ben vestiti, con zaino e scarpe nuove.
E sole e sole e sole. Eh! la gioia di morire per l’Italia bella, giardino del mondo, madre
di civiltà, imitando le gesta degli antichi romani e dei nostri eroi del risorgimento!
20
[…] Quei fanti che tornavano in licenza avevano l’aria alquanto poco eroica: “Si sa,
non tutti sono coraggiosi” mi diceva una dama della Croce Rossa alla stazione di
Padova, vedendo passare una tradotta […] Durante la licenza, il fante contemplava il
cielo, i campi, le nuvole bianche, le messi bionde – tacendo; oppure girellava per le
città, soffermandosi dinanzi ai negozi, sbirciando le belle donne, gli uomini eleganti,
gli ufficiali del fronte interno attillati e indifferenti – ma buoni italiani, che diamine!…
La gente lo guardava con indifferenza: ed egli si schivava timidamente, per non dar
noia, per non disturbare, col cigolio delle scarpe ferrate, l’apatia della buona gente.
Quando si sentiva stanco o assetato, il povero fante doveva rinunciare perfino alla
gioia di entrare in un caffè: la folla lo intimidiva e, nelle ore in cui i caffè erano vuoti,
si vedeva proibire l’ingresso in nome di un ordine del Comando di Corpo d’Armata
territoriale. Un’altra ordinanza gli proibiva di uscire in compagnia di donne che non
fossero madre, sorella o moglie legittima. I casi di ufficiali e di soldati fermati in
mezzo alla strada e redarguiti da superiori (la punizione seguiva sempre, immancabile)
perché si mostravano in pubblico in compagnia della fidanzata, non erano rari […] nei
prostiboli! via! via! […] E il povero fante (ufficiale o soldato) si scansava
timidamente per non dar noia, forse in cuor suo rimpiangendo la buca fangosa»
10
Amara esperienza il vedersi misconosciuto da quanti la guerra non sapevano che
cosa realmente fosse.
11
Il paese meschino, quello che godeva alle spalle di quanti si
sacrificavano, riempiva di rabbia l’animo dei combattenti. La guerra nel paese ufficiale
veniva edulcorata, dipinta con i colori dell’incessante retorica, delle cavalcate trionfali,
del risorgimento eroico, di cui, secondo la propaganda, avrebbe dovuto rappresentare
l’ultimo glorioso atto.
12
Non descrivevano questa guerra anche le copertine illustrate
10
Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Mondadori, Milano 1981 (I ed. 1921), pp. 75-82. Cfr. con questo
passo, anche se il tono è nettamente diverso, due brevi paginette di C. Delcroix, Guerra di popolo, Vallecchi, Firenze
1923, pp. 227-229.
11
Cfr. lo stesso sentimento in due capolavori della letteratura di guerra internazionale: E. M. Remarque, Niente di
nuovo sul fronte occidentale, Mondadori, Milano 1956 (or. 1929), pp. 144-145; e H. Barbusse, Il fuoco, Sonzogno,
Milano 1950 (or. 1918), pp. 126-127.
12
Cfr., ad esempio, il Proclama del Re Vittorio Emanuele III per la fine della IV guerra per l’indipendenza italiana
(9 novembre 1918), riportato in A. Valori, La guerra italo-austriaca 1915-1918, Zanichelli, Bologna 1920, p. 532.
21
della Domenica del Corriere? Ricorda Paolo Monelli:
«Al cinematografo proiettavano la battaglia per la presa di Ala. Che era qualchecosa
di buffo, una concezione quarantottesca, truppe al Savoia! per quattro sullo stradone,
piume di bersaglieri e trombe che sonavan l’attacco, ufficiali caracollanti, austriaci in
fuga in ordine chiuso. Io espressi le mie proteste e la mia meraviglia con un po’
d’esuberanza. Ma il mio vicino mi guardò brutto e mi disse: “Scusi, se non le piace se
ne vada”. “Ma caro signore, non vede che buffonata? Io che faccio la guerra, le dico
che la guerra non è così”. “E che cosa me ne importa? Cosa volete venire a
raccontarmi la guerra come la fate voi! Lasciate che me la goda riprodotta come me la
figuro io”»
13
Annuncia trionfalmente il sovrano: “Il ciclo delle guerre, iniziato dal mio Proavo, sempre contro lo stesso avversario,
oggi si è chiuso. L’epopea svoltasi per tre quarti di secolo con memorabili eventi non poteva avere più fulgido
coronamento di gloria”. Cfr. anche, per avere un’idea di quanto certe tesi siano dure a morire, la sconclusionata
ricostruzione storica fornita da un periodico di corpo, il quale orgogliosamente proclama di concludere, con la
narrazione ad uso dei suoi lettori degli eventi della prima guerra mondiale, “la nostra storia delle guerre
d’indipendenza”: “il 4 novembre 1918 – scrive l’autore dell’articolo – finisce la 4ª guerra di indipendenza, che porta
l’Italia ai suoi confini naturali e quasi dovunque anche etnici” (V. Peduzzi, La notte buia di Caporetto e poi il sole
della vittoria, in «L’Alpino», febbraio 1997, pp. 16-18)!
13
Le scarpe al sole, Mondadori, Milano 1973 (I ed. 1921), p. 68. Secondo Salsa anche molti “generali sono incrostati
alle norme tattiche distillate dai libri: sono inzuppati di ricordi garibaldini, in cui la guerra si fa cantando, con le
fanfare e le bandiere in testa!” (Trincee, cit., pp. 64 e 99).
22
I volti ostili … fischiavano
Così, sospeso tra l’incredulità e la schiuma alla bocca, il combattente ritorna alla
sua trincea, luogo fidato e noto, con la convinzione di essere stato preso in giro per
troppo tempo, e comincia a maturare il germe della ribellione, quella sorda, di chi
comunque compie il dovere che gli è stato destinato, cieco ed ostinato come un mulo. In
trincea il soldato racconta la sua licenza: chi ha visto, che cosa ha fatto, la moglie, i
figli, i campi e il lavoro. Ma non si dà pace che il mondo, dietro di sé, sia così diverso
dal suo. Le ingiustizie, le sperequazioni che ha visto o subìto si tramutano nel suo animo
in rancore, disprezzo, perfino odio.
«La vita gaia e spensierata delle grandi città – scrive la Commissione d’inchiesta su
Caporetto nella propria relazione – la trascuratezza in cui erano lasciate le famiglie
povere dei combattenti, davano la sensazione che nessuna preoccupazione, nessun
pensiero per la guerra vi fosse da parte del Paese, e che questo non comprendesse, non
apprezzasse, non mostrasse riconoscenza per i sacrifizi dei combattenti. Chi dalla
fronte veniva nell’interno vi trovava un senso di benessere contrastante con la vita
dura della trincea, e provava l’impressione che vi fosse un’Italia che combatteva e
un’Italia che si divertiva, che fosse mobilitato l’esercito, non la nazione. Fin dalle
prime licenze i soldati tornavano al loro reggimento con animo assai depresso e
parlavano con irritazione di quanto avevano osservato nelle città»
14
I comandanti, i conferenzieri, i propagandisti e i giornalisti: da tutti ormai il
soldato, il fante “sporco di fango”, si sente preso in giro. E non esita, quando se ne
presenta l’occasione, a manifestare il suo disgusto in maniera plateale. Nel maggio del
23
1917 l’onorevole Federzoni, invitato dal generale Capello a tenere una conferenza di
propaganda al 127° fanteria (brigata Firenze), viene brutalmente fischiato.
15
Il
corrispondente di guerra del «Secolo», Rino Alessi, nel giugno dello stesso anno è
oggetto di un trattamento analogo:
«Ieri – racconta – passando per una strada traversa con la macchina mi sono trovato
casualmente nella zona di Santa Maria la Longa. Questa nostra divisa di
corrispondenti di guerra che nessuno capisce, malgrado il bracciale grigioverde con
l’aquila dello S.M., sorprende e irrita. Santa Maria la Longa è la famigerata località
delle decimazioni. Erano con me Giovanni Miceli ed Ermanno Amicucci. Siamo stati
salutati da fischi, improperi, lanci di sporcizie. Mi sono trovato persino un elmetto
nella macchina»
16
Sorte non troppo diversa subisce anche Olindo Malagodi il quale, di ritorno da
una lunga visita al fronte, annota sul suo diario alla data del 23 gennaio 1917:
«Dal punto di vista del morale ho dovuto rilevare un’aria di malinconia e di
stanchezza, e qua e là anche di irritazione e malcontento, chiuso e silenzioso, ma
appunto per questo più impressionante. Ed anche qualche episodio increscioso. Al
passaggio della nostra automobile, che è dello Stato Maggiore e ne porta l’insegna,
perché siamo guidati da un ufficiale di Stato Maggiore, partono qua e là delle grida
poco rispettose: “Gli imboscati!”»
17
Infine, un deputato di un collegio della zona di guerra, nella sua testimonianza
alla Commissione d’inchiesta su Caporetto, ricorderà di essere stato, nei primi mesi del
14
REL, p. 415.
15
L. Capello, Caporetto, perché?, Einaudi, Torino 1967, pp. 335-336.
16
Dall’Isonzo al Piave. Lettere clandestine di un corrispondente di guerra, Mondadori, Milano 1966, p. 68.
17
Conversazioni della guerra 1914-1919, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, p. 106.
24
1917,
«più volte insultato dalle donne e dai ragazzi, tanto da essere costretto ad avvertire i
carabinieri. Dovunque, nelle strade, nelle campagne, nelle osterie si predicava che la
guerra l’avevano voluta i borghesi ed i signori, che era stata da costoro voluta per
scopi capitalistici. Si arrivò al punto di insultare pacifici borghesi»
18
Anche le miti popolazioni dei paesi situati nelle immediate retrovie del fronte,
luogo di riposo per i combattenti, sembrano dunque risentire del malcontento
serpeggiante nell’esercito. E, forse istintivamente, hanno ben chiaro da quale parte sia
giusto schierarsi.
Il comandante della II armata, il generale Capello, rimane fortemente perplesso
di fronte a questa situazione: già da qualche mese, infatti, in completa autonomia, ha
elaborato e avviato un programma di “conferenze per ufficiali e truppa” allo scopo di
ravvivare in essi lo “spirito aggressivo”, evidentemente indebolito dalla “propaganda
pacifista” che ammorba il Paese e di cui i militari, andando in licenza, potevano
facilmente subire la “nefasta influenza” ed “al ritorno alle trincee comunicarla ai loro
commilitoni”.
19
L’opera di “risanamento” dovette assumere il carattere di un vero e
proprio “apostolato”: “il male era subdolo, nascosto, inafferrabile”, e la “disparità della
lotta” era dovuta “all’alimento sempre crescente che la cancrena riceveva dal
disfattismo imperversante nel paese”.
20
All’insegna dello slogan “Si combatte
coll’anima dei cannoni ma si vince coll’anima dell’uomo”, il generale istituisce presso il
suo Comando un Ufficio propaganda e istruzioni incaricato di sollecitare i comandi
inferiori secondo il suo dettato. Affidato dal luglio ’17 al tenente colonnello Alessandro
18
REL, p. 497.
19
L. Capello, Caporetto, perché?, cit., p. 300. Cfr. anche le testimonianze e il commento riportati in REL, p. 453.
25
Casati, tale ufficio, oltre a dare il la all’organizzazione di vari intrattenimenti per i
soldati (gare, feste di corpo, case del soldato, giornali di trincea, rappresentazioni
teatrali)
21
si preoccuperà di istruire i conferenzieri per le truppe. Tra i vari temi che
secondo Capello questi ultimi avrebbero dovuto trattare occorre citarne alcuni:
“Inconvenienti di una pace affrettata”; “La disciplina è fattore di vittoria”; “Il passaggio
al nemico è il delitto più ignominioso di cui si possa macchiare un uomo”; “Necessità
della nostra guerra”; e ancora “Benefici che ne ritrarrà la nostra emigrazione col rendere
rispettato ed onorato il nome di italiano”.
22
Descrive il clima surreale di una di queste
conferenze Attilio Frescura:
«Nella imminenza di una nostra ripresa offensiva, l’onorevole Federzoni, tenente dei
bombardieri, ha tenuto oggi una conferenza ai soldati della brigata Salerno. […] Egli
ha parlato bene, con bella foga, con abilità. Parlare di guerra a una brigata che vive sul
Carso non è facile. È anche vero che fischiare è difficile per un pubblico grigio-verde,
inquadrato e sotto le armi, con tanto di generali, di carabinieri e sorvegliato dagli
ufficiali. È un pubblico comodo, quello di una brigata. Credo che sia il pubblico ideale
20
Ibidem, pp. 26, 27, 37. Per una feroce critica dell’opera di “propaganda morale svolta fra le truppe della 2ª armata”,
cfr. REL, pp. 389-392.
21
«La Patria del Friuli» ricorda così in un articolo del 23 luglio 1917 l’inaugurazione di una casa del soldato a Beano,
nei pressi di Codroipo: “La casa del soldato si trova nella casa del sig. Luigi Mizzau nell’ampio cortile del quale
venne eretta per l’occasione una palestra di ginnastica. I soldati durante loro varie esercitazioni ginnastiche ebbero
presente il colonnello ed altri ufficiali, la fanfara suonò varie marcie. Nella Casa del soldato, una spaziosa stanza,
sulla parete centrale v’erano appesi i ritratti del Re e della Regina. Fra i due quadri c’era la seguente iscrizione:
Soldati – siate esemplarmente disciplinati – perché la disciplina – osservata scrupolosamente – rileva – squisita
educazione e gentilezza d’animo – onorevole affe[r]ma al proprio dovere – onestà e rettitudine di principii –
coscienza leale di soldato – amore devoto alla Patria – affetto sincero alla vostra famiglia – Patria e Famiglia
godranno sapendovi – soldato educato obbediente valoroso. Altre iscrizioni si trovavano sulle altre pareti della
stanza”. La funzione propagandistica di queste “istituzioni” difficilmente sfugge. Sulle case del soldato vedi anche
REL, p. 388. Cadorna ricorda poi i “sette teatri” che, nell’estate del ’17, organizzarono, “dietro alla fronte della II e
della III Armata”, “complessivamente 150 rappresentazioni” (L. Cadorna, Pagine polemiche, Garzanti, Milano 1950,
p. 30). Cfr. anche un articolo anonimo del «Giornale di Udine» dell’8 ottobre 1917 che traccia un sunto di
quest’attività: “la brevità dei giorni e il declinare della stagione verso i freddi e le piogge impediscono per ora la
continuazione di queste recite, che si svolgevano all’aperto davanti a grandi masse di quattro, cinque e persino
seimila soldati. Mai il più piccolo inconveniente turbò la precisione e la regolarità degli spettacoli che ebbero luogo
quotidianamente e contemporaneamente in tre teatri diversi […] Il numero totale delle recite in 50 giorni fu di 149.
Gli spettacoli misti di commedie in uno o due atti, di canto e di varietà, si alternarono con spettacoli tutti di prosa […]
In settembre prestarono la loro opera al Teatro del Soldato i seguenti artisti drammatici: Emma Gramatica, Giulio
Tempesti, Margherita Laderchi, Ada Nosotti”, e tanti altri. Per avere un’idea di come tali intrattenimenti venissero
organizzati prima del 1917, cfr. invece G. Reina, Noi che tignemmo il mondo di sanguigno, “Ausonia”, Roma 1919,
p. 121.
26
dei nazionalisti italiani. […] Un sordo mormorio commentava. E i volti ostili…
fischiavano»
23
Le conferenze erano più sopportate che comprese dalla gran massa dei
combattenti: si ascoltavano con stupore e rispetto i discorsi dei superiori, cercando di
capirci qualche cosa, districandosi tra termini difficili e astrusi, lontani dall’esperienza
comune di molti soldati. Ma le parole cadevano spesso nel vuoto.
«Quando gli ufficiali – scrive Curzio Malaparte – ci spiegavano le ragioni ideali della
nostra guerra e la necessità di schiacciare la barbarie ed il militarismo degli Imperi
Centrali, i soldati ascoltavano con profonda attenzione, ammirando la cultura
l’intelligenza dei superiori: ma non ne capivano niente. I pochi che riuscivano ad
afferrare, all’ingrosso, il senso del discorso, lo dimenticavano subito e se ne
stropicciavano. Il voler insistere sarebbe stata fatica sprecata: che importava ai soldati
saper per quale ragione si faceva la guerra? L’essenziale era questo: bisognava farla,
se no…»
24
Proprio durante una conferenza sulla necessità della guerra, tenuta alla truppa da
un aspirante ufficiale, due soldati del 72° fanteria processati il 6 luglio 1917 dal
tribunale militare del XXIV corpo d’armata, avrebbero gridato rispettivamente «Viva la
pace», il primo, e «Sì, la vogliamo», il secondo.
25
Un segno ulteriore della disaffezione
che serpeggiava tra le truppe.
Già parecchi mesi prima di Caporetto ha inizio, come si può comprendere, la
tattica dello “scaricabarile”: gli alti comandi scaricano sulla supposta propaganda
22
Cfr. l’Appendice I a L. Capello, Caporetto, perché?, cit., pp. 237 e segg.
23
Diario di un imboscato, cit., pp. 206-207. Cfr. anche M. Muccini, Ed ora, andiamo! Il romanzo di uno
“scalcinato”, cit., pp. 247-248.
24
Viva Caporetto!, cit., pp. 60-61.
25
ACS, TMG del XXIV C.d.A., vol. 5°, sent. n° 940 del 6 luglio 1917.
27
“disfattista” dell’interno, tutto il peso di un insuccesso che è invece prevalentemente
militare.
26
Presso l’esercito, secondo Cadorna, era in atto da tempo, da parte di non
meglio precisati elementi “disfattisti”, un’intensa propaganda che incitava i soldati alla
resa delle armi ed alla diserzione. Il “disfattismo” era diventato addirittura
un’ossessione per gli alti comandi. Né il governo a questo stato di cose sapeva porre
alcun ostacolo.
«Ne conseguì – scrive il generalissimo
27
– un abbassamento nello spirito combattivo,
prima altissimo, dell’esercito, manifestatosi con numerose diserzioni e con non
infrequenti atti di indisciplina, prodotti specialmente fra le truppe di complemento, le
quali portavano dal Paese il cattivo spirito diffondendolo fino alle prime linee»
28
Anche un personaggio valente come Angelo Gatti, incaricato di dirigere l’Ufficio
storico presso il Comando supremo e sicuramente vicinissimo a Cadorna, risente del
clima circolante nei palazzi udinesi durante l’estate del ’17. Annota infatti sul suo
diario:
«All’interno il paese non risponde più; il Governo non è capace di opporre argine:
questo è il fatto importantissimo. Ciò che vediamo al fronte è un tentacolo, una mano
avanzata»
29
26
Il comunicato diramato da Cadorna il 27 ottobre 1917, in piena ritirata, rappresenterà il manifesto di questo
atteggiamento. Per una critica serrata all’idea dell’esistenza di un presunto nemico “disfattista”, vedi le conclusioni
della Commissione d’inchiesta su Caporetto (REL, in particolare pp. 473-475), in cui si afferma recisamente che
“l’asserita esistenza” di un unico disegno o complotto “disfattista” costituisce “uno dei più profondi malintesi” della
condotta bellica italiana, e si accusa Cadorna di non essere mai riuscito a produrre “prove specifiche” di tale
fenomeno. Cfr. anche alcune belle pagine di S. Cilibrizzi, Caporetto nella leggenda e nella storia. I maggiori
responsabili: Cadorna, Capello e Badoglio, Libreria Internazionale Treves, Napoli 1947, pp. 22-28, 30-32, 86-92.
27
Sulla personalità del nipote dell’eroe di Porta Pia, vedi G. Rocca, Cadorna, Mondadori, Milano 1988. È
interessante notare come “l’espressione «Comando Supremo» fu introdotta dal Cadorna e adottata dovunque
rapidamente. In realtà il generale Cadorna era soltanto capo dello Stato Maggiore. Il comando supremo dell’Esercito
e dell’Armata non è, costituzionalmente, un ufficio né un organo, ma una funzione di spettanza del Sovrano.
L’organo direttivo delle forze operanti è pure lo Stato Maggiore. Ma nell’uso il generale Cadorna diventò il
«generalissimo» o il «comandante supremo»” (A. Valori, La guerra italo-austriaca 1915-1918, cit., pp. 80-81).
28
Pagine polemiche, cit., p. 24. Cfr. anche REL, p. 453.
28
Il “veleno incitante alla diserzione”, come uno storico
30
dell’epoca definisce la
“propaganda sobillatrice” che avrebbe rischiato di minare l’unità dell’esercito, è il
Leitmotiv delle quattro lettere che Cadorna, nell’estate del 1917, invierà all’allora capo
del governo Boselli.
31
Il tono accorato delle missive è indice dell’estrema tensione di
quelle settimane, che seguono l’ennesima e fallita offensiva sul Carso e il disastro
dell’Ortigara. Secondo Giovanna Procacci le quattro lettere sono da ritenere una sorta di
attacco da parte del Comando supremo nei confronti di un governo ritenuto più un
intralcio che un interlocutore:
«L’obiettivo di Cadorna era di addivenire a una crisi ministeriale e alla costituzione di
un governo più docile nei confronti del potere militare e della sua linea politica»
32
La prima lettera data il 6 giugno e ricorda il recente passaggio al nemico di ben
tre reggimenti di fanteria composti prevalentemente da siciliani. Non si tratta, secondo il
“Capo”, altro che di un
«nuovo frutto della propaganda contro la guerra che si svolge in Sicilia e che ha
ridotto l’isola ad un covo pericoloso di renitenti e di disertori, i quali, secondo le
segnalazioni del Ministero della Guerra, superano i 20.000»
33
29
Caporetto. Dal diario di guerra inedito (maggio-dicembre 1917), il Mulino, Bologna 1964, p. 84.
30
E. Barone, La Storia militare della nostra guerra fino a Caporetto, Laterza, Bari 1919, pp. 217-218.
31
Riportate in REL, pp. 506-514 e per ampi stralci in Pagine polemiche, cit., pp. 33-42. Sull’accoglienza ad esse
riservata, cfr. E. M. Gray, Il processo di Cadorna, Bemporad, Firenze 1920, pp. 7-12 e 134-168; e P. Pieri, L’Italia
nella prima guerra mondiale, Einaudi, Torino 1968 (I ed. 1965), pp. 133-134.
32
Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra, cit., p. 7.
33
La notizia, come riconoscerà lo stesso Cadorna, era stata oltremodo “esagerata”. Cfr. P. Melograni, Storia politica
della grande guerra 1915/18, Laterza, Roma-Bari 1977 (I ed. 1969), p. 288; nonché l’intervento dell’onorevole
Gesualdo Libertini al Comitato segreto della Camera in data 25 giugno 1917, nel quale il deputato critica aspramente
la circolare del 4 maggio che sospendeva “le licenze a militari siciliani per le diserzioni avvenute in Sicilia da parte
dei militari tornati dal fronte”, circolare poi revocata in capo a tre settimane ma che avrebbe prodotto una “pessima
impressione” tra le truppe (Camera dei Deputati. Segretariato generale, Comitati segreti sulla condotta della guerra,
cit., pp. 32-33).