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La parte compilativa raccoglie la descrizione della ricerca e la presentazione dei
colloqui svolti secondo le modalità del focus-group; seguono la descrizione dei colloqui
condotti e i dati da essi emergenti.
L’elaborato si conclude con alcuni accenni riguardanti una proposta formativa al fine di
ottenere volontari più qualificati e preparati ad affrontare le situazioni che emergono dai
servizi urgenti.
La ricerca indaga quanto l’addestramento sia mirato alla preparazione di volontari e
come questi nella loro spinta ad aiutare le altre persone ricorrano all’impiego di risorse
emotive personali, spesso le più intime e delicate, che richiedono una maggior attenzione
per emergere.
Questo vuole essere uno spazio di pensiero offerto ad un mondo competente quale è
quello della sanità ma che non ha ancora ben individuato la grandezza ed il peso dell’aiuto
che gli può venire offerto dalla figura dello psicologo in veste di professionista in grado di
alleviare le problematiche, se non di potenziare il sistema.
Il mio obiettivo sarà quello di affiancare all’emergenza la psicologia al fine di
alimentare una circolarità di solidarietà che è il presupposto per il superamento di ogni
evento luttuoso o connotato come tale.
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PARTE PRIMA
PREMESSE TEORICHE
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1 Le relazioni d’aiuto
“La relazione è il rapporto tra due variabili colte in una situazione determinata secondo
le forme dell’identità, della successione, dell’opposizione, della coesistenza, della
dipendenza, della causalità e simili” (Galimberti).
Partendo da questa accezione generale si possono individuare alcuni tipi di relazioni
specifiche: in psicologia si parla del rapporto tra medico e paziente come di relazione
terapeutica, in psicoanalisi di relazione analitica caratterizzata dalle proiezioni transferali e
controtransferali, di relazione oggettuale a proposito di rapporto del soggetto con gli oggetti
e di relazione duale in ambito di psicologia della famiglia (relazione madre-figlio per
esempio).
La relazione d’aiuto è quella che si stabilisce tra due persone di cui una, senza una
specifica professionalità, supporta ed aiuta l’altra.
La relazione, per le sue intrinseche proprietà non rintracciabili nel comportamento di
un solo partecipante, mostra di sottolineare molto lo studio dell’interazione; ne deriva
l’osservazione della comunicazione verbale e non verbale.
L’etologo inglese Hinde ha stabilito alcuni parametri che consentono di definire una
relazione. Tra questi:
- il contenuto dell’interazione
- la quantità
- la qualità e la frequenza di relazione
- i limiti di reciprocità con conseguente valutazione di profitti e perdite
- le percezioni interpersonali di ciascun partner
- grado di affidabilità che ciascun partner della relazione dà all’altro.
Dallo studio di questi parametri relazionali è possibile descrivere la struttura della
relazione e attribuirle caratteristiche che la possono connotare.
Descrivo ora la relazione d’aiuto che avviene tra due persone (o tra una persona ed un
gruppo o tra un gruppo ed una persona o tra un gruppo ed un gruppo) intesa come relazione
asimmetrica all’interno della quale un polo offre e l’altro riceve. La frequenza di questa
relazione non è discriminante, se non di volta in volta all’interno di ogni aiuto, ed è altresì
importante notare che uno dei due partner adotta una sorta di capacità di reverie e l’altro ha
solitamente verso di lui un alto grado di affidabilità.
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1.1 Introduzione storica al volontariato come relazione d’aiuto
La presa di coscienza dell’importanza delle relazioni d’aiuto in ambito socio-sanitario è
avvenuta nel XX secolo, anche se già alla fine del XVIII secolo si gettarono le basi per il
servizio sociale.
Nella Francia del 1700 l’assistenza privata venne organizzata grazie alle attività
filantropiche di illustri personaggi che si attivarono sulle rovine della Rivoluzione Francese.
Risale al 1900 il passaggio da un “sentimentalismo umanitario” ad una tecnica di
educazione sociale e di riabilitazione psicologica. All’interno dell’assistenza sociale ha
assunto sempre maggiore importanza la relazione d’aiuto descritta per la prima volta negli
anni ‘30 come forma di intercomunicazione che crea un ponte tra chi è assistito e chi
assiste. Si tratta di una comunicazione che presuppone una solidarietà affettiva, un senso di
simpatia e cooperazione fra gli individui.
Negli anni ’50 del secolo scorso la relazione d’aiuto era vista come aspetto
psicopedagogico: l’operatore sociale finalizzava il suo aiuto al ridare capacità ad una
persona che necessitava di sostegni esterni. Nel decennio successivo la relazione d’aiuto
arrivò alla sua definizione completa: venne descritta come una relazione professionale
all’interno della quale una persona viene assistita; chi aiuta deve essere in grado di
comprendere il problema nei termini in cui si pone per quel particolare individuo ed
aiutarlo ad evolvere personalmente nel senso di un suo miglior adattamento sociale.
Nel corso degli anni ’70 e ’80, le professioni d’aiuto hanno subito, una vera e propria
esplosione quantitativa, sia nell’ambito sanitario (psicoterapeuti, psicologi clinici,
psichiatri, counselor, infermieri, medici, etc...) sia in ambito sociale (assistenti sociali,
educatori extra scolastici, animatori scolastici, operatori di comunità, etc…).
Lo sviluppo del volontariato e della così detta “terza dimensione” (offerta di servizi di
interesse sociale da parte di una dimensione “terza” rispetto al mercato ed allo Stato, vale a
dire dell’associazionismo privato senza fini di lucro) ha stimolato il contributo di molti
operatori laici che ora si affiancano agli operatori professionali.
Mai si sono avuti così tanti “altruisti per professione” (Lubove 1965) così tante persone
che hanno specializzato se stesse nel dare sostegno e direzione all’essere o al vivere di altre
persone.
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Parallelamente al supporto che viene dato dalle organizzazioni pubbliche nell’ambito
della sanità, si è assistito ad un continuo proliferare (sia in termini di supporto, sia di primo
intervento) di gruppi di volontariato. Tali gruppi sono formati da aggregati di singoli, da “
persone che esplicano una qualsiasi attività solidale, in modo personale, spontaneo e
gratuito, esclusivamente per fini di solidarietà” (legge quadro nazionale 266/1991).
Al volontariato è riconosciuto un particolare valore sociale; esso si muove all’interno di
una dimensione socio-assistenziale, di impegno civile e di produzione culturale.
“I gruppi di volontariato sono organizzazioni non pubbliche che offrono un servizio e/o
agiscono a tutela dei diritti sociali, al fine di rispondere a bisogni e problemi presenti nella
comunità” (Francescato, 1988, p. 200).
In questa tesi si parlerà nello specifico di una forma molto particolare di volontariato
che rientra all’interno dei servizi socio-assistenziali, ovvero di volontariato in ambito
sanitario.
In Italia le associazioni che offrono questo tipo di servizio sono:
• Sezioni Provinciali e Comunali dipendenti dalla Croce Rossa Italiana (CRI);
• Pubbliche Assistenze appartenenti all’Associazione Nazionale Pubbliche
Assistenze (A.N.P.As.);
• Associazioni appartenenti alla Confederazione Nazionale delle Misericordie di
Italia;
• Associazioni non allineate e non aderenti ad alcun movimento nazionale.
In questa sede mi prefiggo di andare ad indagare il servizio urgente svolto dai volontari
della Croce Rossa Italiana.
Alle persone che si dimostrano sensibili nei confronti di questa libera forma di
relazione d’aiuto viene richiesta una preparazione di base necessaria allo svolgimento dei
servizi ed una forte motivazione atta a fornire un servizio attivo.
Nel testo “Forme di solidarietà e linguaggi della politica” (Amerio 1996) l’autore
riporta cinque aree motivazionali emerse da una ricerca basata su una serie di colloqui
rivolti a diverse categorie di volontari:
• Autointeresse: l’interesse sociale è visto come un modo per promuovere
un’immagine di sé positiva e la propria desiderabilità sociale;
• Autorealizzazione: l’impegno sociale è visto come occasione di arricchimento e
crescita personale;
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• Orientamento al compito: l’impegno sociale è finalizzato al raggiungimento di
obiettivi concreti legati a determinate attività, senza particolare attenzione ai propri interessi
o a quelli degli altri;
• Orientamento agli altri: l’impegno sociale è basato sulla percezione dei bisogni e
problemi degli altri e sulla disponibilità a dare un proprio contributo per farvi fronte;
• Responsabilità sociale: l’impegno sociale è sentito come una sorta di dovere,
determinato dal sentimento di appartenenza a una collettività, in cui la partecipazione ed il
senso civico si configurano come regole base del vivere civile e comunitario.
In un altro studio Marchi (1993) indica quattro aree motivazionali inerenti le
professioni di aiuto e nello specifico quelle della professione infermieristica.
1. Motivazioni vocazionali: intese come richiamo insopprimibile volto ad aiutare le altre
persone. Può scaturire dal riconoscimento del valore fondamentale della vita o dal
desiderio inconscio di sentirsi utili agli altri ed in particolare a coloro che soffrono.
2. Motivazioni sociali: per risultare maggiormente integrati nel contesto comunitario e per
ampliare la propria rete d’azione e di conoscenza.
3. Motivazioni psicologiche: è molto difficile analizzare le motivazioni profonde, spesso
inconsce, che spingono al volontariato. Si viene spinti, da un lato, dal desiderio di
conoscere, dall’altro, da quello di curare. Alla base del desiderio di curare c’è il bisogno
di restituire integrità ad un organismo leso, dando così una risposta al desiderio di
compensare in qualche modo la propria fragilità di essere umano. Dalla parte opposta
occuparsi di malattia può voler dire, in qualche modo, esorcizzare la nostra paura di
ammalarsi, soffrire, morire.
4. Motivazioni diverse di natura collettiva e culturale (per es. la famiglia di provenienza, lo
stato economico e sociale, l’origine rurale ed urbana, le convinzioni religiose e
politiche) ed individuali (sesso, età, caratteristiche psichiche ed emotive).
Occorre precisare che il volontario non è spinto tout court da una sola area
motivazionale ma in esso convivono allo stesso tempo e si alternano diverse aree.
Questa ambivalenza motivazionale è ben illustrata da Palmonari:
“Il costo più alto di ogni impegno individuale nel volontariato consiste proprio nello
scoprire, in ogni momento, che le proprie motivazioni non sono così semplici,
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disinteressate e coerenti come, illudendosi, si pensa siano”. (“Rivista del Volontariato”
Maggio 1997).
Si occupa dell’aspetto motivazionale del volontariato anche il professor Amerio:
“L’impegno sociale riveste inoltre un’importanza fondamentale per i bisogni personali
di autorealizzazione, crescita e gratificazione sul piano emotivo-affettivo, contribuendo alla
produzione di senso esistenziale, all’interno di relazioni di indipendenza e mutualità”.
(Forme di solidarietà e linguaggi della politica. 1996).
Da quanto detto, occorre tenere ben in considerazione quali siano le motivazioni
principali che spingono l’aspirante all’attività di volontariato perché, se è vero che le
principali categorie motivazionali che supportano il volontariato possono essere quelle
sopra elencate, in ambito Croce Rossa se ne possono rivelare anche altre che spingono ad
iniziare un percorso di volontariato ma che, essendo orientate verso il soddisfacimento di
bisogni autocentrati tra cui quello di provare emozioni forti, con il passare del tempo fanno
emergere un volontario incapace di instaurare una sincera relazione d’aiuto.
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2 Le capacità relazionali
“Che cosa dobbiamo fare maestro?”
“Siamo qui per capirlo”.
Ne Il nome della rosa di U. Eco
Esistono una moltitudine di lavori che sono squisitamente di competenza psicologica;
Blandino (1996) definisce il lavoro psicologico come “tutto ciò che concerne la presa in
carico e l’elaborazione della dimensione relazionale e interpersonale presente in
qualsivoglia lavoro”.
Nello svolgimento di tali lavori interviene una pluralità di persone che vanno dallo
psicologo all’operatore sociale al volontario, i quali dovrebbero essere in possesso di
competenze o capacità specifiche e peculiari che si possono intendere come “capacità
relazionali”.
Per riuscire ad impostare al meglio una relazione d’aiuto bisogna servirsi di diversi
strumenti; in primo luogo occorre possedere uno “strumento mente” molto sviluppato ed
equilibrato e questo sia per poter aiutare al meglio le altre persone sia per difendere se stessi
e la propria salute mentale da un lavoro così particolare.
L’operatore dovrebbe aver raggiunto una capacità introspettiva tale da mostrare
dominanti le sue parti “sane” e quantomeno conoscere quelle “malate”.
Lavorare dapprima su se stessi per poi passare alla relazione d’aiuto significa entrare in
una logica di rispetto degli altri e proteggerli fin da subito da eventuali manipolazioni e
strumentalizzazioni.
Un buon atteggiamento d’aiuto presuppone fin da principio la capacità di saper
concedere parte del proprio tempo e, come detto prima, della propria mente all’altra
persona, saperla realmente ascoltare. Arrivare ad ascoltare in senso autentico, con empatia,
vuol dire creare un sistema dinamico con due polarità in rapporto tra di loro, dove l’utente è
un polo e l’helper l’altro: entrambi consci di essere in quel momento “sulla stessa barca” e
di star lavorando in sinergia.
All’interno della relazione d’aiuto l’operatore deve saper offrire, ancor prima della
propria conoscenza, preparazione e competenza tecnica, una capacità che Gitelson (1962)
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indica come umanità. (Umanità individuata non come fattore curativo ma requisito per
questo).
La capacità relazionale si va quindi definendo quale capacità di gestire la complessità
interpersonale; ciò vuole dire ascoltare, essere presenti nella relazione, saper entrare in
contatto, comprendere le richieste.
Risultato ultimo di un buon lavoro nelle relazioni d’aiuto non vuole essere quello di
risolvere i problemi, di passare informazioni o cambiare situazioni esterne, ma bensì
trasmettere la capacità di mettersi in rapporto con l’esterno e con il proprio interno, essere
in poche parole più ricettivi. Non si cerca, come detto, di eliminare i conflitti bensì di
aiutare ad affrontarli, comprenderli, tollerarli ed imparare da questi.
Interviene in nostro aiuto il contributo teorico di Bion, il quale afferma che: il vero
lavoro psicologico è quello di imparare a pensare piuttosto che agire, fermarsi in mezzo ad
una battaglia, pur avendo paura, per individuare da dove arrivano le pallottole.
Da quanto detto si potrebbe dedurre che le capacità relazionali vanno intese non come
un prestare delle cure ma più semplicemente (il che è molto più complesso) come un
prendersi cura, un riuscire a pensare ed aiutare a pensare. Quanto si va annunciando appare
naturale e legato al buon senso; l’unico ostacolo è rappresentato dal fatto che non vi sono
scorciatoie, “l’unica strada è data dalla pazienza” (Casement, 1985).
Al fine di sviluppare buone capacità relazionali non esiste altra strada se non
l’intraprendere un serio processo di formazione personale. Tale percorso non fornisce la
garanzia di un operatore perfetto però fa di questi una persona in grado di apprendere dai
propri errori.
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2.1 La comunicazione terapeutica
Il termine comunicazione è molto ampio ed è “impiegato su di un piano biologico,
ecologico ed umano per indicare quello scambio di messaggi che va dagli organismi
unicellulari agli animali alle macchine e all’uomo, le cui forme comunicative sono
studiate, a seconda della forma, della funzione e della destinazione, dalla psicologia, dalla
linguistica, dalla sociologia, dalla teoria dell’informazione e dalla cibernetica” (Galimberti
1999).
Parlando di comunicazioni specifiche occorre di volta in volta contestualizzarle per
saperle collocare e comprendere.
Trattando di comunicazione terapeutica ci riferiamo ad uno strumento molto particolare
volto a dare supporto e a trasmettere dei contenuti tra due esseri umani, i quali si
differenziano per il loro contingente stato asimmetrico.
Watzlawick, Beavin e Jackson hanno individuato alcune proprietà della
comunicazione:
“Non è possibile non avere un comportamento, in una situazione di comunicazione il
comportamento ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione. Ne consegue che,
comunque ci si sforzi, non si può non comunicare; ogni comunicazione ha un aspetto di
contenuto ed un aspetto di relazione… Gli esseri umani comunicano sia con il modulo
numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico esprime al meglio gli aspetti
contenutistici, mentre il linguaggio analogico esprime gli aspetti relazionali” . La
comunicazione può essere verbale, non verbale e paraverbale.
La comunicazione verbale veicola i contenuti, quella non verbale le emozioni; quella
paraverbale è intermedia tra il verbale e il non verbale, comprende ad esempio intercalari,
espressioni presenti ma senza reale espressione linguistica, pause, intonazione, volume di
voce, mormorii, tossire o sbuffare.
La comunicazione non verbale indaga il volto, il contatto corporeo, la gestualità il
ritmo del respiro, la postura, la disposizione nello spazio, il silenzio, l’aspetto esteriore e le
azioni.
A proposito di disposizione nello spazio, si potrebbe richiamare all’attenzione le
teorizzazioni proposte da Hall sullo studio della distanza interpersonale. Questa distanza
viene chiamata prossemica e l’autore riconosce sostanzialmente quattro fasce di distanza in
cui la comunicazione ha caratteristiche definite: distanza intima, tipica di due persone
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strette da una forte relazione, distanza personale, ovvero quella adottata da persone che si
conoscono e si parlano tra di loro, distanza sociale, adottata per esempio nei rapporti
formali di lavoro (vedi un colloquio con una scrivania di mezzo), e distanza pubblica,
caratteristica dei discorsi che vengono fatti per esempio da un pulpito o da un palco con più
persone che ascoltano.
Nel momento in cui si indaga la comunicazione terapeutica, occorre andare a
comprendere i vissuti dell’utente; l’evento malattia comporta sempre un disagio per
l’individuo che avverte senso di pericolo e frustrazione nascente dalla situazione.
Della malattia intesa in questi termini se ne occupa Marchi (1993):
“Dalla malattia nasce quindi il pericolo per la vita (minaccia di morte), per l’integrità
fisica (dolore, invalidità e menomazione), per l’identità personale (modificazione
dell’immagine di sé, perdita dell’autonomia, del controllo e della realizzazione di sé), per la
sicurezza personale (impatto con nuove situazioni e persone) e per la vita sociale
(separazione dalla famiglia e da tutto il contesto sociale –amici, vicini di casa, lavoro-
dipendenza da altre persone e conseguente perdita dello status sociale)”.
Dinanzi agli stessi sintomi persone diverse assumono comportamenti diversi: in alcuni
casi si può osservare un comportamento finalizzato ad alleviare i sintomi, in altri
opposizione ad essi, in altri ancora il permanere in uno stato di incertezza, fino ad arrivare
all’assenza di reazione.
Una delle situazioni in cui il soggetto è indotto a porsi di fronte alla malattia è
rappresentata dall’ingresso in ospedale: in primo luogo tale evento per quanto sia preceduto
da una fase di preparazione genera in lui uno stato di stress; a ciò si accompagnano la paura
e la solitudine dovute all’allontanamento dall’ambiente famigliare e dalla quotidianità di
ogni giorno e dall’inserimento in un mondo fatto di regole nuove e di conoscenze obbligate
e in cui il problema principale è rappresentato dall’evoluzione della malattia e dal rapporto
con i procedimenti diagnostici e terapeutici; infine si aggiunge il senso di frustrazione
determinato dalla perdita di indipendenza e dalla spersonalizzazione.
I bisogni dell’uomo e soprattutto quelli del malato sono stati studiati da diversi autori,
tra cui Maslow. Il soddisfacimento dei bisogni permette la conservazione dell’equilibrio,
mentre la mancata soddisfazione di essi ha come conseguenza la perdita dell’equilibrio e,
nel nostro caso, può sfociare in malattia. L’autore ha classificato cinque tipi di bisogni,
ordinandoli gerarchicamente in modo tale che la soddisfazione dei bisogni di una categoria
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inferiore comporta il sorgere di quelli della categoria superiore (si veda più avanti il
capitolo teorico 4.3).
Marchi (1993) si occupa anche dell’analisi dei rapporti che possono intercorrere tra
infermiere e paziente:
1. Il rapporto di potere si ha quando due persone interagiscono non sullo stesso livello,
non in modo paritario bensì bipolare. La relazione asimmetrica vede un individuo
che detiene il potere e l’altro che lo subisce. Questa relazione non stimola
l’autonomia ma favorisce atteggiamenti di dipendenza e la comparsa di reazioni
regressive o aggressive.
2. Il rapporto terapeuticamente nullo è caratterizzato da reciproca sfiducia e distacco,
l’infermiere considera il proprio lavoro non gratificante, scarsamente utile dal punto
di vista sociale ed il malato non ha fiducia nella struttura sanitaria.
3. Il rapporto supportivo è quello che intercorre tra due persone che ricoprono livelli
paritetici anche se diversi.
In “Psicoterapia e relazioni umane” Rogers ha definito quest’ultimo tipo di rapporto, il
rapporto supportivo, come quello “in cui almeno uno dei due protagonisti ha l’intenzione di
favorire nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di
agire più adeguato ed integrato nell’altro”.
Si tratta quindi di una relazione di collaborazione la cui finalità è il superamento dei
problemi di salute; affinché tale obiettivo possa essere raggiunto occorre che il rapporto
supportivo si basi sulla fiducia, che l’infermiere assuma un atteggiamento di empatia e di
interessamento d’amore, e che il paziente raggiunga uno stato di autonomia. Per quanto
riguarda quest’ultimo punto l’infermiere deve agire in modo tale che il paziente conservi
l’autonomia raggiunta anche quando viene a trovarsi in uno stato di totale dipendenza.
Sudden et Al. (1981) ha indicato diverse fasi del rapporto supportivo tra infermiere e
paziente:
1. Fase di preinterazione: è la fase che precede il contatto tra infermiere e paziente, ed è
l’unica in cui l’infermiere agisce da solo; spesso l’operatore sanitario raccoglie
informazioni sul paziente attraverso l’anamnesi fatta in Pronto Soccorso e la
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documentazione che il paziente ha con sé; in questo modo l’operatore si mette in grado
di pianificare l’incontro.
2. Fase introduttiva o di orientamento: coincide con il primo incontro, è importante che
l’infermiere in questo primo momento di conoscenza diretta chiarisca la sua posizione e
che venga definito il “contratto”, cioè l’insieme degli oblighi che entrambi devono
assolvere
3. Fase attiva o di mantenimento: in questa fase il rapporto tra l’infermiere ed il malato
entra nel pieno dell’interazione; si opera attivamente per raggiungere gli obiettivi e le
finalità che i due partecipanti hanno fissato.
4. Fase conclusiva: coincide con la fine della relazione che si è instaurata tra l’infermiere
ed il paziente. Questo momento, anche se è la conclusione di un positivo rapporto
supportivo, può essere vissuta con sentimenti contrastanti; comunque, quando oramai si
avvicina la fine del rapporto, è necessario parlare dei sentimenti che si provano senza
aspettare a manifestarli all’ultimo incontro, per aver l’opportunità di confrontarli e
discuterli. È importante comprendere da entrambe le parti che il rapporto, seppur
gratificante, come predisposto all’inizio, deve concludersi.
Se vogliamo possiamo estendere queste fasi alla presa in carico di un paziente in un
servizio ordinario o durante un servizio urgente.
Parlando nello specifico di intervento urgente si può abbinare la fase di preinterazione
di Sudden alla chiamata della centrale con la descrizione del paziente e del servizio che si
andrà ad espletare. La fase introduttiva può essere individuata nel primo contatto con il
paziente; in questa circostanza occorre andare a comprendere la reale domanda del
paziente.
La fase attiva può corrispondere alle manovre di primo soccorso e trasporto in ospedale
e la fase conclusiva all’affidamento del paziente ai medici ed infermieri del Pronto
Soccorso dell’ospedale che si è raggiunto.
Si può concludere dicendo che alla comunicazione terapeutica spesso è legata la nascita
di situazioni stressanti e frustranti, di fronte alle quali ogni persona può agire con diversi
meccanismi di difesa: aggressione, rimozione, negazione, razionalizzazione, proiezione,
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introiezione, identificazione, formazione reattiva, compensazione fantastica, ritiro sociale e
ritiro emotivo.
Questo modo di agire apparentemente può sembrare proprio solo dell’utente; in realtà
come verrà descritto nel paragrafo seguente, si evidenzia anche nell’operatore, il quale nella
relazione d’aiuto spesso incorre in frustrazioni, ansia e depressione.