2
natura stilistica, pseudolinguistica, scritturale e via dicendo
5
. Dante, prima ancora di
concepire quell’opera che è alla base di un’intera letteratura (e oseremmo dire di una
lingua), ebbe l’eccezionale merito di cogliere la viva realtà di una situazione
potenzialmente tanto magmatica e, muovendosi pur sempre in maniera accorta all’interno
di una salda tradizione retorica, di trarne vantaggio per l’affermazione tanto di quella
dignità che da tempo l’egemonia del latino negava al volgare, quanto della necessità che
proprio il volgare (o la ricerca di un volgare: la stessa che ritroviamo, secondo moduli
differenti e premesse teoriche sensibilmente diversificate, sia nel De vulgari eloquentia che
nella Commedia) venisse a svolgere una funzione coesiva soprattutto dal punto di vista
sociale. Egli stesso potrebbe aver tentato, già prima della Commedia, l’esperimento di una
canzone trilingue (Ai faux ris), la cui attribuzione però è tuttora incerta. E d’altra parte
Baranski sostiene non a torto che “anche la Vita nuova e il De vulgari eloquentia siano
formalmente opere plurilinguistiche”
6
. E’ chiaro, comunque, che a quest’altezza
cronologica l’approccio al plurilinguismo in Dante risentisse ancora di quella concezione
per nulla sincretica del rapporto tra i diversi idiomi che è propria di una certa letteratura
medievale e di cui si è detto in precedenza.
Ma, al di là delle esperienze dantesche antecedenti alla sua più alta prova, appare certo
che ciò che possiamo leggere nel sacrato poema sfugge, in qualche modo, al confronto
coi pur illustri precedenti: sia perché frutto di un’elaborazione teorica affatto sofferta (e per
di più all’apparenza contraddittoria), sia perché il plurilinguismo vi si attua mediante una
totale ed inedita libertà espressiva, aderendo perfettamente ad una base, che è quella
fiorentina, e dando vita così ad un pastiche linguistico che suscita una forte impressione di
omogeneità, sebbene sia costituito in molti (e fondamentali) passaggi da materiale
linguistico assolutamente eterogeneo
7
. Per dirla con le parole di Erich Auerbach, “la lingua
di Dante appare quasi un miracolo inconcepibile. Di fronte a tutti gli altri scrittori
precedenti, fra i quali furono tuttavia grandi poeti, la sua espressione possiede una tale
ricchezza, concretezza, forza e duttilità, egli conosce e impiega un numero talmente
superiore di forme, afferra le più diverse apparenze e sostanze con piglio tanto più saldo e
sicuro, che si arriva alla convinzione che quest’uomo abbia con la sua lingua riscoperto il
mondo. Spesso si crede d’aver trovato donde egli abbia attinto questa o quella
5
“[L]a pratique du bilinguisme poétique comporte toujours un jeu de contrastes” (Zumthor 1960, p. 587)
6
Baranski 1996, p. 63.
7
A tal proposito lo stesso Baranski, sulla scia di Contini e in opposizione a Baldelli 1978a, addirittura nega
che per la Commedia si possa parlare di plurilinguismo tout-court: “Mi trovo perciò in disaccordo con chi ha
qualificato lo stile della Commedia come ‘plurilinguistico’, siccome ciò presuppone, in ultima analisi, un
distacco tra le diverse lingue che è proprio della cultura di base retorica che Dante intese superare”
(Baranski 1996, p. 74).
3
espressione, e invece le fonti sono tante, egli le accoglie e le impiega in modo tanto
esatto, originario, e pur così suo proprio, che tale ritrovamento non fa che aumentare
l’ammirazione per la potenza del suo genio linguistico”
8
. L’eccezionalità di tale esperienza,
dunque, non è tanto nella stabilizzazione di un codice linguistico quale quella che Dante
sembrava invidiare al latino nel Convivio e indicare come discriminante nei confronti del
volgare nel De vulgari, quanto nella stupefacente libertà con cui egli s’accosta,
apparentemente a dispetto dei proclami teorici e delle passate esperienze poetiche, ad
una lingua in fieri, e nella matura diligenza con cui egli s’impone il limite della terzina quale
unico argine (unitamente al residuo di una incondizionata fiducia nell’esempio dell’uso che
di certe forme fanno i suoi modelli, romanzi e classici che siano) ad un “vulcanismo
glottopoietico”
9
altrimenti debordante.
8
Auerbach 1956, p. 198.
9
Nencioni 1990, p. 4.
4
1.2 Elementi del plurilinguismo nella ‘Commedia’ dantesca
Uno studio, fosse anche per sommi capi, sulla lingua utilizzata da Dante nella Commedia
richiede una premessa obbligatoria, e cioè che esso sarà per sua natura soggetto ad
alcune variabili delle quali occorre tener conto, soprattutto in considerazione del fatto che,
non essendoci pervenuto alcun autografo dantesco
10
, la trattazione di aspetti
fonomorfologici può configurarsi come incerta o comunque confutabile
11
. Qui di seguito (e
nello studio su Inf., XXII al cap. 2) prenderemo come riferimento l’edizione Petrocchi 1994
e ci cureremo di segnalare in nota i casi in cui saranno prese in esame lezioni da essa
divergenti.
Seguendo l’utilissima traccia del Migliorini
12
, opereremo dunque una suddivisione che
tenga conto tanto di quelle voci naturalmente a dispozione della discretio del poeta,
quanto di quelle occorrenze che conferiscono al testo una qualche coloritura differente
dalla tonalità base del fiorentino del tempo; tra queste sarà poi opportuno considerare
quante si distacchino dal fondo fiorentino sincronicamente, procedendo verso un’apertura
alle voci dialettali estranee alla base linguistica di riferimento, e quante invece operino un
recupero diacronico di forme già appartenenti alla tradizione letteraria (classica e
romanza) nota a Dante
13
. Occorrerà distinguere dunque tra: fiorentinismi, dialettalismi,
arcaismi, unicismi, latinismi, grecismi e francesismi, con l’avvertenza però che il discrimine
può non essere così netto, giacché molte voci entrate nel fiorentino del primo ‘200 come
forestierismi o rusticismi potevano essere, già all’epoca di Dante, considerate a tutti gli
effetti arcaismi e non avvertite come estranee all’uso locale.
Quanto ai fiorentinismi, c’è da premettere una considerazione fondamentale: e cioè che la
Commedia si presenta come “l’opera più fiorentina di Dante, nella sua struttra fonetica,
morfologica, sintattica e nel lessico fondamentale, forse per un ricupero del fiorentino,
anche sul piano teorico”
14
; ed è un recupero più volte dichiarato, diremmo quasi ostentato,
come in Inf., X, 22-27:
10
Ma per un’ampia analisi sulle circostanze della composizione e della divulgazione della Commedia si
rimanda a Ciociola 2001.
11
Ed è appunto questo il motivo per cui la critica attribuisce accortamente grande valore alle parole in rima,
che sono vincolate dalla struttura metrica del testo e perciò risultano (salvo nei casi in cui è possibile la rima
imperfetta o siciliana) meno corrutibili e più affidabili (cfr. Parodi 1957 e Manni 2003, p. 139).
12
Migliorini 1966.
13
Pagliaro 1966, p. 566-ss.; a tal proposito si osservi come talvolta una medesima voce possa essere
attribuibile all’influsso congiunto di diverse tradizioni culturali: è il caso dell’assenza di dittongamento in
parole come fera, novo, core ecc., caratteristica che coinvolge anche le forme con e e o seguite da
consonante più r, che il fiorentino trecentesco vuole dittongate, secondo il tipo priego e truovo (cfr. Manni
2003, p. 144).
14
Baldelli 1978b, p. 93b.
5
O Tosco, che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natìo
a la qual forse fui troppo molesto.
o in Inf., XXIII, 76:
E un che ‘ntese la parola tosca
e, ancora più esplicitamente, in Purg., XVI, 136-137:
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quando io t’odo.
Certo, alla luce di un riacquisto così evidente, verrebbe da chiedersi se davvero mai
(anche nelle esperienze precedenti al poema, s’intenda) abbandono ci sia stato, sebbene
Dante effettivamente ammetta nella sua Commedia parole e forme già categoricamente
rifiutate all’interno del trattatello sulla dignità del volgare, quali gli idiotismi introcque (Inf.,
XX, 130; lat. INTER HOC, “nel frattempo”) e manicare (lat. MANDUCARE, forma peraltro
tutt’ora viva in area sarda per “mangiare”), assieme ad altre parole programmaticamente
escluse dalle rime come mamma, babbo, cetra, corpo, femina, greggia
15
; e poi versi interi
“che solo i fiorentini possono capire”
16
, come il 22 di Inf., XXVIII:
Già veggia
17
per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia
rotto dal mento infin dove si trulla.
15
“In quorum numero nec puerilia propter sui simplicitatem, ut mamma et babbo, mate et pate, nec muliebria
propter sui mollitiem, ut dolciada et placevole, nec silvestria propter austeritatem, ut greggia et cetra, nec
urbana lubrica et reburra, ut femina et corpo, ullo modo poteris conlocare” (De vulg. eloq., II, vii, 4).
16
Della Casa, Galateo, XXII.
17
C’è un discreto accordo tra i critici nell’accreditare veggia (“botte”) non già come fiorentinismo, ma come
settentrionalismo (cfr. Manni 2003, p.149, nota 66)
6
Tra i tratti più evidenti di questa fiorentinità, intesa in riferimento alla parlata corrente di
Firenze tra fine Duecento e l’inizio del Trecento, ricordiamo, sul versante della morfologia,
le desinenze dei perfetti deboli -arono, -erono, -irono, pure sincopate in -arno, -erno, -irno
(ove l’aggiunta di -no agli originari tipi, comunque maggioritari nella Commedia, in -aro,
-ero, -iro è analogica alla III persona del presente indicativo) e la desinenza -a della I
persona singolare dell’imperfetto indicativo; parimenti sono rispondenti all’uso del tempo
tanto la rigida osservanza della Tobler-Mussafia per la sintassi (pur con rarissime
eccezioni di proclisi dopo e e ma, peraltro dovute a scelte metrico-stilistiche) quanto, dal
punto di vista fonetico, la chiusura di e in i per anafonesi (p. es. Sardigna in Inf., XXII, 89)
e l’assimilazione dei gruppi -ia- e -io- (sia tonici che atoni) in -ie-, in forme come sieno,
avieno, dieno e stieno, unitamente alla conservazione in iato di e tonica nelle forme
congiuntive dea e stea
18
.
Di certo Dante manifesta (soprattutto nella prima cantica e con intento evidentemente
mimetico, ma non solo) la volontà di accostarsi all’uso parlato: a questa probabilmente
vanno ascritte le frequentissime epitesi di -ne (p. es. pòne di Inf., XI, 31), assenti nei
documenti fiorentini del tempo, da considerare comunque fatti squisitamente stilistici
connessi per lo più ad esigenze metrico-ritmiche; ma sono desunti certamente dall’uso
colloquiale i pronomi epitetici mee e tue talvolta preferiti alle forme normali. Altre deviazioni
fonomorfologiche di questo tipo, sempre o quasi collocate in rima, evidenziano
l’intenzionale avvicinamento all’oralità: così è l’alternanza tra -i ed -e (p. es. avante/avanti
o diece/dieci)
19
, laddove la chiusura di -e in -i era, alla fine del ‘200, ancora in atto e
sicuramente non estesa a tutte le forme, tanto che documenti coevi riportano quasi
esclusivamente ogne in opposizione al dantesco ogni; analoga fenomenologia riguarda la
polimorfia -e/-i per la seconda persona del presente indicativo della prima classe (p. es.
fide/fidi) e congiuntivo di tutte le classi (p. es. il tipo tegni di Inf., XXIV, 140 opposto a entre
di Inf., XIII, 16), dovuta alla tendenza di e atona a chiudersi in i uniformandosi alle altre
voci del paradigma
20
. Conferiscono alla terzina un sapore rustico parole come chiappa
(“scheggia di pietra”) di Inf., XXIV, 33 e ronca (“disbosca”) di Inf., XX, 47, mentre una
18
Per una trattazione più approfondita dei caratteri del fiorentino due-trecentesco, v. Manni 2003, pp. 33-41,
mentre per una breve disamina sulla presenza in Dante di elementi tipicamente fiorentini si faccia riferimento
a Manni 2003, pp. 140-143.
19
La suddetta alternanza coinvolgerebbe anche l’opposizione ogni/ogne, che però nell’edizione Petrocchi
viene uniformata alla sola forma con e finale, sebbene gran parte della tradizione manoscritta presenti
continue oscillazioni fra i due tipi. Il Lanza ha dunque ristabilito le forme che nel Trivulziano avevano -i,
proprio delle generazioni nate dopo il 1280 e dei registri più prossimi al parlato (cfr. Manni 2003, p. 138).
20
Pagliaro 1966, p. 567; ma in Dante si hanno anche esempi della moderna desinenza della II persona del
presente congiuntivo in -a, modellata in analogia con quelle della I e della III persona (cfr. Manni 2003, p. 36
e 39).
7
considerevole porzione del lessico nell’Inferno (ma con episodiche comparse nelle altre
due cantiche) è tutta composta da espressioni plebee letterariamente inedite, quali
bozzacchione, broda, gracidare, marcio, leccare, letame, muso, porcile, puttana, rogna,
scrofa, sterco, tigna, zuffa ecc.; anch’esse come le vernacolari sirocchia per suora, otta
per ora, allotta per allora, sono pienamente ascrivibili al dominio linguistico fiorentino nelle
sue diverse varietà diafasiche e diastratiche, in particolare a quelle più familiari e
quotidiane. Numerose sono anche le espressioni attinte dall’uso popolare il cui significato
è talvolta rimasto oscuro per secoli, quali burlare per “sparpagliare”, potere nel senso di
“riuscire a portare”, bastare nell’accezione di “durare” ecc.
D’altra parte, proprio e soprattutto in virtù della forte pulsione plurilinguistica che
caratterizza in particolare le prime due cantiche, “l’uso dantesco è, in confronto con l’uso
‘naturale’ del fiorentino suo tempo, molto più ricco di doppioni”
21
desunti tanto dalle varietà
popolari del fiorentino quanto da altri dialetti e lingue letterarie. Pertanto la morfologia
verbale registra numerose varianti interne al sistema, come cada/caggia, vidi/viddi e
dolve/dolsi
22
, mentre il lessico attinge a piene mani voci della tradizione letteraria e forme
d’uso comune: adunque per la forma normale specchio il poeta utilizza spesso e
liberamente tanto speculo, quanto il gallicisimo speglio come miraglio; a re alterna rege; a
speme, spene e il provenzalismo speranza; a imagine, la forma dal nominativo latino
imago e image. Questi allotropi, oltre a costituire un inesauribile serbatoio di soluzioni a
problemi di tipo metrico-ritmico, assumono nel corso del poema una connotazione stilistica
ben precisa, se è vero che Dante adopera più spesso forme latineggianti o galloromanze
in contesti di grande aulicità, mentre preferisce le voci popolari o dialettali laddove gli
occorra una più marcata connotazione espressiva
23
. D’altra parte è sintomatico che tale
polimorfia si esprima soprattutto sul versante fonetico e morfologico, laddove pure è più
evidente la fiorentinità della lingua dantesca: questa sovrabbondanza di forma sarà quindi
da considerare in parte un fatto cittadino, strettamente connesso con la realtà sociale ed
economica della Firenze del tempo di Dante, quando questa era centro di scambio ed
incontro culturale e politico per tutta la Toscana. D’altro canto, anche nei casi in cui il
poeta sceglie forme dialettalmente marcate, egli si cura di porle in rima per attestarne
l’eccezionalità: è così per le forme verbali pisano-lucchesi fenno (“fecero”) e vonno
21
Migliorini 1987, p. 176.
22
Il rimando a Parodi 1957, per l’ampiezza e la puntualità della trattazione, è in questo caso d’obbligo; ma v.
anche Manni 2003, pp. 141-142
23
Per una disamina più approfondita di questi aspetti v. Manni 2003, pp. 161-4.
8
(“vanno”), ma pari trattamento ricevono altre voci di certo estranee all’uso fiorentino come
abbo (“ho”) ed este (“è”)
24
.
Ed appunto questi dialettalismi, della cui funzionalità dal punto di vista espressivo e
stilistico tratteremo al § 4, vanno a loro volta distinti tra forme tratte dagli altri dialetti
toscani (in particolar modo quelli occidentali e settentrionali, dei quali troviamo riscontro in
alcune attestazioni coeve) e voci mutuate dai volgari municipali del resto d’Italia, in
particolare di area settentrionale. Quanto ai primi, occorre premettere che, all’altezza
cronologica in cui Dante compone il suo poema, tanto i dialetti settentrionali quanto le
restanti parlate della Toscana non fiorentina si discostavano decisamente dall’uso di
Firenze più sul piano fonomorfologico che su quello lessicale
25
, e sarà quindi in quello
piuttosto che in questo che andranno rintracciate le più evidenti ingerenze nella lingua
dantesca. Dunque ricordiamo a titolo esemplificativo: lassare con esito toscano
occidentale (ma anche di tutta la Toscana non fiorentina) -X-> -ss-, che talvolta subentra,
in rima, al normale lasciare; la forma sincopata piorno (Purg., XXV, 91) da “piovorno”,
originaria della Val di Nievole e rubecchio (“rosseggiante”, in Purg., IV, 64) della montagna
pistoiese; le già citate forme verbali pisano-lucchesi fenno (costruita sulla III persona
singolare mediante l’aggiunta di -no), abbo, este
26
; infine, con intento mimetico-espressivo,
l’avverbio lucchese issa (per “adesso”), nel discorso di Bonagiunta in Purg., XXIV, 55. Tra i
secondi, registriamo diversi dialettalismi lessicali: il donno (“signore”) per bocca di
Ciampolo in Inf., XXII, 83 è anche arcaismo del fiorentino di una generazione anteriore a
Dante e trova posto accanto all’altro sardismo di piano (“pianamente”, “sommariamente”);
è di area piemontese e lombarda il ramogna di Purg., XI, 25, vox media per “augurio”,
connotato positivamente o negativamente dall’aggettivo che lo precede (dal lat.
QUAERIMONIA, “lamentazione”, “mormorazione”; ramugné nel dialetto di Saluzzo,
ramugnùs in provenzale moderno)
27
; dalla denominazione propria dell’arsenale veneziano
Dante desume quell’arzanà che caratterizza il XXI dell’Inf. al verso 7 e si contrappone ai
tos. darsana, tersanà, tersanaia
28
, mentre è pure tecnicismo nautico di area adriatica lo
scola di Purg., XXXI, 96, dal veneto e ravennate scaula (“piccola barca”, “gondola”).
Quanto alla fonetica ed alla morfologia, è bolognesismo il sipa (“sia”, III pers. del
congiuntivo presente del verbo essere, con valore di particella affermativa) di Inf., XVIII, 61
24
Baldelli 1978b, p. 110a.
25
Manni 2003, p. 33.
26
Ivi, pp. 44-ss.; ma la forma este, soprattutto quando impiegata in contesti di forte aulicità (come in Par.
XXIV, 141), è primariamente di ascendenza classica e siciliana.
27
Pagliaro 1966, p.577.
28
Dall’arabo dār sinā’a/dār sānā’a per “fabbrica”, cfr. Manni 2003, p. 158.
9
e, a proposito di Cavalcante, sempre alla lirica bolognese dobbiamo ricondurre lome (Inf.,
X, 67-69), peraltro già presente in Guido Cavalcanti e proprio in rima con come
29
; è di
Par., XXVIII, 103 la forma della lirica religiosa umbra vonno per “vanno”. E’ molto
importante anche dal punto di vista esegetico, infine, la formula di congedo lombarda con
la quale Virgilio si licenzia dalle anime frodolente (dicendo: “Istra ten va, più non t’adizzo,
Inf., XXVII, 21), in cui l’avverbio istra, analogo al lucchese issa di cui sopra ed egualmente
disceso da IPSA HORA
30
, e la forma verbale adizzo, che Guido da Pisa definisce
“propriamente dell’idioma lombardo”, fungono da elementi atti a specificare l’appartenenza
linguistica, etnica e culturale di Virgilio (cfr. § 4).
Meritano un’enunciazione a parte i numerosi sicilianismi, mutuati da una tradizione lirica
affermata e istituzionalizzata come quella siciliana o siculo-toscana, siano essi il lessicali,
come per disio, disiare (nettamente preferito ai gallicismi disire e disirare)
31
o come nel
caso del prestito semantico respitto di Purg., XXX, 43 (dal sic. rispittu, “lamento”)
32
;
fonologici, quali ancidere, canoscenza; oppure fonomorfologici, come in forme verbali del
tipo aggio (frequente in Dante nella produzione giovanile, abbandonato in quella
stilnovistica e poi ricuperato nella Commedia)
33
; diminuiscono invece di numero rispetto
alla produzione lirica stilnovistica i condizionali e gli imperfetti in -ia/-iano (il tipo poria e
avria e il tipo vincia e avia, quest’ultimo pure sostenuto da una buona diffusione nella
prosa documentaria fiorentina trecentesca)
34
, che per di più nella Commedia sono sovente
in rima. E’, infine, sicilianismo con funzione mimetico-espressiva l’esortazione mora
(“muoia”, presente peraltro anche nella Vita nuova) a caratterizzare il furore dei
Palermitani contro gli Angiò durante la rivolta dei Vespri, in Par., VIII, 75.
Dante accoglie certamente con minore spregiudicatezza questi dialettalismi rispetto a
quanto non faccia con le voci popolari del fiorentino e, in generale, toscane; nota infatti
bene il Parodi che “[non] v’è nel poema un solo vocabolo, che Dante abbia tolto
29
Schiaffini 1970, p. 238; ci si riferisce al sonetto cavalcantiano Ciascuna fresca e dolce fontanella,
composto in risposta ad un altro sonetto di Bernardo da Bologna. Petrocchi 1994, il quale adotta un
approccio conservativo alla questione delle rime imperfette di tipo sicilano (cfr. Manni 2003, p. 139), riporta
la lezione lume, con normale esito di Ū lat.
30
Mentre però issa trova attestazione in un discordo di Bonagiunta stesso, la “virgiliana” istra sembra essere
hapax: andrà dunque confrontata con i settentrionali insta e ista, dai quali avrebbe avuto origine mediante
epentesi di r. Bruni ha avanzato però l’ipotesi che possa trattarsi di una ricostruzione dantesca, partendo da
issa per analogia col tipo nosso:nostro (cfr. Manni 2003, p. 165 nota).
31
Manni 2003, p. 157.
32
Pagliaro 1966, p. 576; altri (come Manni 2003, p. 147) annoverano questa voce tra le fila dei gallicismi,
assieme al dispitto di Inf., X, 36.
33
Tra i sicilianismi fonomorfologici andrebbero annoverate anche forme dei pronomi personali nui e vui, che
pure Petrocchi 1994 rifiuta ripristinando la rima imperfetta (cfr. nota 21).
34
“Induce d’altro lato a riflettere il fatto che, nella Commedia, questo tipo desinenziale ricorra quasi
esclusivamente nelle forme plurali o in quelle singolari seguite da enclitiche, rispettando una tendenza che si
osserva anche nei testi fiorentini dugenteschi e trecenteschi” (Manni 2003, p. 147).
10
direttamente a un dialetto non toscano, che egli non abbia cioè già trovato nell’uso
letterario”
35
, vale a dire che non sia stato nobilitato da una qualche tradizione precedente
all’uso dantesco.
Quanto detto circa la base linguistica della Commedia esige una precisazione riguardante
la preferenza che Dante mostra, “attingendo in quel moderato arcaismo nobiltà e solennità
di linguaggio”
36
per le forme e i modi riconducibili alla generazione antecedente la sua. Tra
questi arcaismi il Parodi inseriva quelle forme di seconda persona in -e che abbiamo già
esaminate nel contesto dell’alternanza con i tipi in -i: come si è ricordato, il fenomeno era
ancora in atto nel momento in cui Dante scriveva e non era affatto esteso a tutte le forme,
sicché la collocazione dello stesso tra gli arcaismi sembra destare più di una perplessità.
Arcaizzante ma ancora una volta non del tutto alieno alla generazione di Dante è lo
scempiamento di /l/ nelle preposizioni articolate davanti a consonante
37
; un caso di
moderato arcaismo morfologico è costituito, nei verbi della seconda e terza classe, dalle I
persone plurali del presente indicativo con desinenza -emo, accanto a quelle in -iamo;
mentre un’evidenza della serena coabitazione di forme arcazzanti e forme correnti si ha in
Inf., I , vv.116-118, ove il vetusto vederai è seguito dal vedrai contemporaneo a Dante.
Come gli arcaismi sono un sintomo della tensione, da parte di Dante, a recuperare forme
percepite come desuete dai contemporanei, specularmente il generoso impiego di
unicismi (o hapax legomena) rappresenta la più evidente testimonianza dal punto di vista
lessicale del proverbiale sperimentalismo dantesco. In questo caso sarà doveroso
distinguere tra quelle parole che sono unicismi ai nostri occhi (in quanto non altrimenti
attestate), ma che probabilmente Dante ha recepito dall’uso contemporaneo, e i veri e
propri neologismi. Dei primi basterà citare, a titolo esemplificativo, l’avverbio linci (“di lì”,
Purg., XV, 37) che sembra forma popolare coniata per analogia con quinci (<lat.
*(ĔC)CU(M) HĬNCE) e costinci (<lat. *(ĔC)CU(M) (I)STĪNC). I secondi hanno una duplice
funzione stilistica: se infatti essi sono certamente il segno “della specialissima aggressione
della realtà che si ha nel poema”
38
, va pure considerato il particolare utilizzo che il poeta
ne fa nel Paradiso, laddove egli si misura con la figurazione dell’ineffabile e, per fare ciò,
35
Parodi 1957, p. 219.
36
Ivi, p. 253.
37
Ma Petrocchi 1994 riporta sempre la scempia, anche contro l’uso dugentesco, e cioè davanti a vocale
tonica.
38
Baldelli 1978b, p. 108a.