Fabiano Martinelli - Uno Studio di Genere sulla Shoah
Introduzione pag. II
assomigliano tutte e descrivono “bene o male” le stesse atroci sofferenze, il passo è
breve. La generalizzazione è quindi un rischio che non si può correre, pena il
rafforzamento del negazionismo. Il problema è che quel “bene o male” fa la
differenza: ogni testimonianza, seppur sembri essere uguale alle altre, è in realtà
completamente diversa poiché descrive la quotidianità della Shoah di una e una sola
determinata persona, e per quanto le testimonianze possano apparire tutte quante
grossomodo identiche, nella realtà non è stato così; i milioni di ebrei vittime della
barbarie nazista non erano tutti uguali, bensì tutti diversi. Se poi consideriamo il fatto
che ogni essere umano ha sensibilità e carattere diversi, ecco allora che il valore di
ogni testimonianza assume ancor più il carattere di unicità e irripetibilità. Come scrive
Francesca Sanvitale nella sua introduzione alle lettere di Louise Jacobson
3
: «nessuna di
queste esperienze è ripetitiva perché ognuno si portava dietro un mondo diverso e
doveva affrontare un altro mondo inimmaginabile e che pure generò a sua volta
esperienze diverse. Anche l’atrocità ha le sue sfumature, una gamma di imprevedibili
differenti crudeltà»
4
. Già nel 1961 Benedict Kautsky sottolineava che, anche parlando
dello stesso periodo di tempo, i prigionieri dello stesso campo vivevano in pianeti
completamente diversi a seconda del lavoro loro assegnato all’interno del lager
5
. Lo
stesso Primo Levi, quando scrive: «considerate se questa è una donna/senza capelli e
senza nome/ senza più la forza di ricordare/ gli occhi vuoti e il grembo freddo/ come
una rana d’inverno» evidenzia una differenziazione dello sterminio, delinea cioè quella
diversità delle esperienze legata appunto al genere.
A questo proposito, tra le numerose opinioni degli studiosi che ho avuto modo
di consultare per la mia ricerca, mi ha molto colpito la convinzione, che approvo
totalmente, di Marlene Heynemann, secondo la quale «anche il più imparziale e
sensibile tra i sopravvissuti sarebbe incapace di analizzare nel profondo le esperienze
delle donne nei campi nazisti, tanto più che uomini e donne erano generalmente
3
Louise Jacobson, nata il 24.12.1924 a Parigi, in Francia. Figlia di Salman e Veidzland Golda-Riva. Ultima
residenza nota: Parigi. Arrestata l’1.9.1942 da francesi, venne dapprima imprigionata nella prigione di Fresnes,
quindi trasferita nel campo di raccolta di Drancy il 14.10.1942. Deportata ad Auschwitz dal campo di Drancy
con il convoglio n. 48 del 13 febbraio 1943, è morta ad Auschwitz.
4
Louise JACOBSON, Dal liceo ad Auschwitz, Roma, L'Arca, L'Unità, 1996, pag. 11.
5
Benedict Kautsky cit. in Hermann LANGBEIN, Hommes et femmes à Auschwitz, Paris, Fayard, 1975, pag. 21.
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Introduzione pag. III
segregati in campi separati. […] Non ci possiamo fidare del punto di vista del
sopravvissuto per descrivere, nel profondo, l’esperienza femminile»
6
.
In ogni caso, è evidente che la differenza di genere ha influito non poco sulle scelte
dei nazisti, altrimenti non si spiegherebbe il fatto che donne in forza e giovani siano
state mandate a morte immediatamente dopo il loro arrivo ai campi di sterminio solo
per il fatto che fossero incinte o avessero bambini piccoli che non intendevano
abbandonare.
Secondo Dalia Ofer ben quattro furono i determinanti strutturali delle differenze
di genere nel periodo dell’Olocausto:
1. i ruoli culturalmente definiti in termini di genere degli uomini e delle donne
ebree prima della guerra, in base ai quali venivano assegnate a ognuno dei due
sessi capacità, conoscenze e competenze diverse;
2. le “reazioni anticipate” degli ebrei rispetto a quello che essi credevano i nazisti
avrebbero fatti agli ebrei di sesso maschile (ma non alle donne e ai bambini);
3. il diverso grado e la diversa natura delle vessazioni, degli obblighi lavorativi,
degli arresti e delle regole che i nazisti imposero alle donne e agli uomini ebrei
nonostante che tutti fossero ugualmente destinati a morire;
4. le diverse reazioni che gli ebrei e le ebree misero in atto nella loro vita
quotidiana nei ghetti, nei boschi e nei campi di concentramento, nel tentativo di
far fronte al processo di annientamento che li stava colpendo
7
.
Premesso ciò, si può dedurre come l’essere uomo o donna tra il 1933 e il 1945
fosse profondamente diverso.
Occorre sottolineare che, nella logica nazista, il genere femminile era molto più
pericoloso di quello maschile a causa del carattere riproduttivo proprio delle donne –
il nazismo adottò infatti una politica decisamente ostile alla maternità per coloro che
appartenevano alle razze inferiori; ancora, nel contesto sociale dell’epoca le donne
erano, in un certo senso, più emancipate degli uomini, non fosse altro che per la loro
6
Marlene E. HEINEMANN, Gender and Destiny – Women writers and the Holocaust, Westport (Connecticut),
Greenwood Press, 1986, pag. 3 (la traduzione è mia).
7
Donne nell’Olocausto, op. cit., pag. 1.
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Introduzione pag. IV
istruzione laica e per il fatto che, attraverso l’associazionismo e il volontariato,
avevano una vita sociale più vicina al mondo dei gentili e, quindi, potenzialmente
meglio agganciata alle conoscenze importanti.
In numerose testimonianze ricorre il fatto che fossero proprio le donne a
occuparsi e farsi carico delle necessità della famiglia nel periodo dell’oppressione
nazista: rispetto agli uomini, le donne erano più difficilmente identificabili come ebree
poiché non avevano un forte accento linguistico e non erano circoncise, erano meglio
inserite nell’ambiente sociale delle città in cui vivevano e avevano conoscenze che
potevano risultare molto utili ai fini dell’emigrazione o del sostentamento di prima
necessità, infine non rischiavano una denuncia per diserzione e, nella mente dei
nazisti, esse erano difficilmente considerate capaci di svolgere attività sovversive.
Tutto ciò ha consentito che le esperienze vissute dalle donne fossero diverse: non
prenderne atto significherebbe negare l’evidenza.
Nella sua testimonianza rilasciata a Daniela Padoan, la sopravvissuta Giuliana
Tedeschi Fiorentino
8
ci conferma che: «la lettura dei lager fatta da una donna è
completamente diversa, nello spirito, da quella fatta da un uomo. Sono convinta che le
donne abbiano vissuto questa esperienza in maniera più sfaccettata e in un certo senso
più ricca. Tutta la mia esperienza del lager è stata segnata dal mio essere donna»
9
.
Sebbene quindi si possa concordare sul fatto che uomini e donne si siano perlopiù
trovati ad affrontare situazioni analoghe a livello di sofferenza e soprusi, il modo di
gestirle e affrontarle è stato però profondamente diverso, è questo l’obiettivo
fondamentale che mi pongo di raggiungere attraverso questa mia ricerca di genere:
non bisogna poi dimenticare che ci sono esperienze di genere ben specifiche anche
nella vita di ogni giorno, per esempio la maternità, che differenziano il modo di essere
e di vivere di una donna rispetto a un uomo.
All’interno del lager di Auschwitz, il comandante Rudolph Höss, nel suo diario,
8
Giuliana Fiorentino, nata a Milano il 9.4.1914, figlia di Carlo e Rietti Rina, coniugata con Tedeschi Giorgio.
Ultima residenza nota: Torino. Arrestata a Torino l’8.3.1944 da tedeschi. Detenuta a Torino carcere, Fossoli
campo. Deportata da Fossoli il 5.4.1944 a Auschwitz. Matricola n. 76847. Liberata a Lorenzkirch. Fonte 1a,
convoglio 09. Liliana PICCIOTTO FARGION, Il libro della memoria – Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945),
Milano, Mursia, 1991, pag. 273.
9
PADOAN, Come una rana d’inverno, op. cit., pag. 133.
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Introduzione pag. V
sottolinea che la mortalità era più alta tra le donne che tra gli uomini, sebbene queste
fossero «assai più robuste e più resistenti degli uomini, sia fisicamente che
psichicamente. […] Per le donne ogni cosa era assai più dura, più oppressiva e più
tremenda, perché le condizioni generali di vita erano assai peggiori nel campo
femminile. […] L’affollamento era assai maggiore che nel campo maschile; e quando
le donne avevano raggiunto il limite estremo si lasciavano letteralmente morire»
10
.
Il presente studio si è focalizzato non soltanto sui saggi e sugli atti dei convegni
centrati su questo tema, ma si è basato soprattutto sulle testimonianze delle
sopravvissute e sui diari delle vittime, in quanto soltanto la loro lettura può darci
un’idea della varietà di esperienze che ogni deportata ha sopportato e, per le più
fortunate, superato nella Shoah.
Le testimonianze di queste donne, di fronte a condizioni di estrema vulnerabilità,
rivelano il loro coraggio, mostrano il loro apporto alla resistenza armata nei ghetti e
palesano la peculiarità delle loro sofferenze, consentendoci inoltre di notare le
differenze che esistono in confronto a quanto testimoniato nelle “memorie” maschili.
Tanto per fare un esempio, in quale testimonianza maschile si può leggere: «con me
abita una ex reginetta di bellezza che ha fatto la “vita”. Alle dieci di sera ha appoggiato
uno specchio alla mia scatoletta di burro e si è dedicata per mezz’ora alle sue
sopracciglia»
11
oppure: «di italiane non ce n’erano tante: cioè ce n’erano tante, ma
eravamo divise, quando ci trovavamo ci si aggrappava una con l’altra. Mentre ci
smistavano ho incontrato due ragazzine, sono state con me e siamo diventate
amiche»
12
o ancora: «mi servirebbero anche la limetta per le unghie, la pinzetta, lo
10
Rudolph HÖSS, Comandante ad Auschwitz, Torino, Einaudi, 1960, pagg. 115-116.
11
Etty HILLESUM, Lettere – 1942-1943, Milano, Adelphi, 1990, pag. 61. Etty Hillesum nacque a Amsterdam
in Olanda il 15 gennaio 1914. Nel luglio 1942 ricoprì un posto in una delle sezioni del Consiglio Ebraico
cittadino. Immediatamente, chiese di essere traferita nel campo di Westerbork in qualità di assistente sociale.
Di tanto in tanto le era concesso di tornare a casa per curare la sua salute cagionevole. Il 7.9.1943 il suo nome
venne incluso nella lista di coloro che dovevano essere deportati in Polonia. Arrivata a Auschwitz il 10.9.1943,
vi morì il 30 novembre successivo.
12
Testimonianza di Selma Levi Coen contenuta in La vita offesa, Storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di
duecento sopravissuti, a cura di Anna BRAVO e Daniele JALLA, Milano, Franco Angeli, 1986, pag. 213. Selma
Levi, nata a Smirne in Turchia il 19.6.1924, figlia di Abramo e Adut Rosa. Ultima residenza nota: Livorno.
Arrestata a Guasticce (LI) il 18.12.1943 da italiani. Detenuta a Pisa carcere, Fossoli campo. Deportata da
Fossoli il 16.5.1944 a Auschwitz. Matricola n. A-5379. Liberata a Ravensbrück. Fonte 1a, convoglio 10.
PICCIOTTO FARGION, Il libro della memoria, op. cit., pag. 383.
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Introduzione pag. VI
specchio nella borsetta rossa, un flacone di lozione per le mani»
13
o, infine,: «sono
molto attaccata alle vanità terrene, sono piena di civetterie, mi provo centomila
pettinature, mi vesto con cura (per lo meno faccio del mio meglio)»
14
? Per non parlare
poi delle tematiche legate alla maternità che ricorrono più volte in tutta la
memorialistica di genere. E’ soprattutto per questi significativi aspetti che lo studio
delle testimonianze femminili è utile per comprendere ancora meglio la “catastrofe”
che si è abbattuta sull’Europa tra il 1933 e il 1945.
Sin dalle prime leggi razziali, si credeva che i tedeschi, da persone civili, avrebbero
rispettato le tradizionali norme di comportamento nei riguardi del sesso femminile,
per questo motivo le comunità e le famiglie ebraiche risposero con piani differenziati
per i due sessi cercando di mettere al riparo dapprima gli uomini. Gli uomini erano
considerati più esposti al pericolo nazista. A questo proposito, è interessante notare
che, nel 1933, nella comunità ebraica tedesca vivevano 1.093 donne ogni 1.000
uomini, mentre, nel 1939, all’interno della stessa comunità, la proporzione era variata
sensibilmente in quanto le donne erano 1.366 ogni 1.000 uomini; secondo il
censimento nazionale dell’aprile 1939, in Germania vivevano 123.104 ebree e 90.826
ebrei
15
.
Quanto alla componente femminile, è poi innegabile che il modo di affrontare i
problemi e le situazioni sia stato profondamente diverso per un’ebrea francese
appartenente alla media borghesia, per una madre ebrea contadina ucraina, per una
giovane mischling tedesca o per un’anziana ebrea ortodossa dello shtetl polacco. Ognuna
di queste tipologie femminili aveva infatti un background socio-culturale
profondamente diverso che ha influito in modo non marginale sia sulle scelte che
ciascuna di loro si è trovata a dover di volta in volta affrontare, sia sulle reazioni,
13
Martin DOERRY, Lilli Jahn: il mio cuore ferito – Lettere di una madre dall’Olocausto, Milano, Rizzoli, 2003, pag.
159. Lilli Jahn, nata a Colonia, in Germania, nel 1900 da una famiglia della borghesia liberale ebraica-tedesca.
Laureatasi in Medicina, sposa il medico protestante Ernst Jahn, dal quale ha cinque figli. Quando, nel 1939, il
marito, innamoratosi di un’altra donna, chiede e ottiene il divorzio, Lilli viene arrestata e internata nel campo
di lavoro di Breitenau, dal quale verrà deportata ad Auschwitz nel 1944, dove muore ben presto di stenti.
14
JACOBSON, Dal liceo ad Auschwitz, op. cit. pag. 109.
15
Sybil MILTON, Women and the Holocaust: the case of German and German-Jewish women, in When biology became
destiny. Women in Weimar and Nazi Germany, a cura di Renate BRIDENTAL, Atina GROSSMANN e Marion
A. KAPLAN, New York, Monthly Review Press, 1984, pag. 301.
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Introduzione pag. VII
soprattutto psicologiche, che esse hanno avuto in risposta alle nuove condizioni di
vita cui il nazismo, giorno dopo giorno, legge dopo legge, le sottoponeva.
I racconti delle donne esprimono non di rado il bisogno di un gesto umano, per
non rendere l’altro un qualcosa di inumano ai propri occhi; e spesso, questo
atteggiamento si traduce nella capacità di essere solidali l’una con l’altra e di aiutarsi
reciprocamente, di condividere il cibo, di dar vita a rapporti di fratellanza tra donne
che possano aiutare a sopravvivere e a sopportare meglio il peso delle sofferenze.
Ho deciso di strutturare il mio lavoro nel seguente modo: dopo un breve excursus
sul ruolo sociale delle donne ebree prima della seconda guerra mondiale, procederò ad
analizzare le loro condizioni di vita sia nei ghetti sia nei campi nazisti. Naturalmente,
non mancherà una breve sintesi sul ruolo delle donne ebree nella Resistenza e, per
concludere, uno studio sugli effetti, per le sopravvissute, dell’esperienza vissuta negli
anni bui della dominazione nazista al momento del loro ritorno alla vita quotidiana
dopo la Shoah. E’ impossibile credere che la Shoah non abbia avuto effetti sul modo
di concepire la vita e sul modo di porsi nei rapporti con gli altri di tutti coloro che, nel
gergo ormai in uso, sono considerati “i salvati”… ma di questo parleremo più avanti.
Per concludere, voglio sottolineare che, in nota, ho pensato di inserire le
informazioni biografiche delle donne citate nel mio studio: si tratta di dati in parte
recuperati dall’opera di Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria, e in parte da me
ricostruiti sulla base delle informazioni ricavate direttamente dalle loro testimonianze
o dalle loro biografie.