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INTRODUZIONE
Tutti nasciamo in società già strutturate secondo meccanismi
economici, politici e culturali; lo “stato di natura” di rousseauiana
memoria, ammesso che sia mai esistito, ora non esiste più.
All’interno di ogni società coesistono in modo più o meno pacifico
differenti comunità o gruppi.
Quando si parla o si scrive di “comunità” il pensiero va subito al
concetto di “differenza”: differenza di colore, linguaggio, simboli,
tradizioni, cultura, religione, etc…
La comunità sembra essere definita da confini ben precisi che
dividono coloro che stanno al di qua da coloro che stanno al di là di
suddetti confini.
Si parla di comunità o gruppo come di un insieme omogeneo
separato da altri insiemi, ovvero da altre comunità, anch’essi
caratterizzati dalla medesima omogeneità di fondo e tali insiemi si
trovano a convivere senza, tuttavia, mescolarsi se non
accidentalmente e solo a prezzo di violenti conflitti e sopraffazioni
di una parte a scapito dell’altra.
A mio avviso questo è un modo decisamente idealizzante e, al
contempo, pericoloso di concepire le comunità.
Innanzitutto la realtà quotidiana dei fatti ci mostra che ogni
individuo può appartenere contemporaneamente a più gruppi sotto
diversi profili, ovvero impegnando all’interno di ognuno di essi
diverse parti della propria personalità.
Io al tempo stesso appartengo alla comunità degli esseri umani, alla
comunità degli esseri umani di sesso femminile, alla comunità delle
persone laureate in filosofia, alla comunità delle persone atee, alla
comunità delle donne nubili, alla comunità degli esseri umani che
amano il teatro ed il cinema e potrei proseguire così aumentando
ancora moltissimo le comunità cui io appartengo, talvolta per mia
scelta, talvolta per scelta della natura.
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Eppure quelle che ho elencato sopra difficilmente vengono
considerate comunità. Perché?
La risposta a mio avviso è semplice. Una comunità, almeno
nell’immaginario collettivo, deve essere composta da individui che
condividono qualcosa di non così contingente come gli hobby ma
nemmeno così universale come il sesso.
Ciò che connota una comunità in quanto tale sono caratteristiche
non universali e, al tempo stesso, non contingenti, cioè non
totalmente dipendenti dalle scelte dei singoli individui.
Queste caratteristiche diventano quanto mai importanti laddove si
parli di “diritti dei gruppi”:
“…diritti di libertà collettiva possono essere rivendicati solo da
alcuni gruppi, quelli cioè che si suppone possano avere esistenza
separata…
Gruppi definiti dal genere o dalle preferenze sessuali o immigrati
sparsi su tutto il territorio nazionale non possono avanzare simili
pretese”.
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Ho citato questo passo proprio per sottolineare l’importanza che, a
mio avviso arbitrariamente, viene attribuita a determinati fattori
nell’identificazione di un gruppo.
Sorge immediata la domanda: quali mai saranno tali caratteristiche?
Per rispondere a questa domanda è necessario osservare la realtà da
vicino e con occhio, per così dire, ingenuo a chiedersi in base a che
cosa la maggior parte di noi sostengono che determinati individui
appartengono alla stessa comunità.
1. la razza e il colore della pelle
2. la cultura
3. la religione
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A. E. Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia politica e conflitto identitario, Liguori, Napoli 1999, p. 73
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Dunque, esaminando criticamente suddette caratteristiche
emergono i seguenti fattori :
1) non si tratta di caratteristiche universali né
universalizzabili:
ciascuno di noi nasce all’interno di un habitat
familiare e sociale che ha una cultura, più o meno,
già formata e strutturata la quale si è formata in un
ambito geografico, storico e sociali ben determinato
e che, quindi, non può e non deve diventare
universale pena un’imposizione dogmatica e
violenta al rimanente universo culturale.
La razza, in quanto non oggetto di scelta, dipende
interamente da fattori naturali, pertanto sarebbe
assurdo avanzare in merito ad essa pretese di
universalità.
La religione: il problema qui diventa decisamente
più complesso. La realtà quotidiana dei fatti ci
mostra in modo inequivocabile che non esiste un
unico insieme di credenze coerentemente
strutturato e valido per tutti gli esseri umani. La
religione, dunque, non è universale. Anch’essa,
come precedentemente abbiamo visto nel caso della
cultura in generale, può essere universalizzata solo
a prezzo di violente imposizioni e, pertanto, non è
conforme ad una società democratica l’ipotesi di
una religione universalizzabile!
2) Si tratta di caratteristiche, tuttavia, contingenti:
È assolutamente frutto del caso nascere in un determinato
luogo piuttosto che in un altro, da determinati genitori
piuttosto che da altri e, quindi, far parte di una certa razza
invece che di un’altra e avere un certo colore della pelle.
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Essendo casuale il luogo in cui nasciamo sarà, pertanto,
casuale, o comunque non necessaria in termini logici, la
cultura che ci viene insegnata e la religione che la nostra
famiglia o la nostra comunità ci trasmettono.
Ne segue, quindi, che la Comunità così come viene comunemente
intesa si fonda su un insieme di caratteristiche non universali e non
necessarie.
Me se tali caratteristiche non connotano la comunità in maniera
necessaria allora perché soffermarsi su queste e non piuttosto su
altre?
Perché non concentrarsi su caratteristiche più trasversali come gli
hobby? O su caratteristiche più universali come il sesso?
Perché puntare l’indice su caratteristiche che dividono anziché
unire e che dividono in maniera così marcatamente geografica?
Io, giovane donna italiana, istruita, atea potrei avere moltissime
caratteristiche in comune con una mia coetanea araba: potremmo
condividere hobby, gusti letterari, musicali, etc… Eppure non
facciamo parte della stessa comunità né potremmo forse mai farne
parte. Perché?
La risposta è, a mio avviso, alquanto semplice: le Comunità devono
avere confini politici e, pertanto, devono fondare la loro specialità
su caratteristiche politicamente rilevanti che distinguano in modo
netto un gruppo di persone da un altro.
La Comunità non è in nulla più”naturale” della società in quanto
ciò che accomuna gli individui che ne fanno parte è del tutto o in
buona parte contingente.
Tuttavia mentre la società si forma su libero accordo tra le parti le
quali, incapaci di provvedere in toto ai propri bisogni, si uniscono,
la comunità ha la pretesa di reggersi su un patrimonio comune.
Un patrimonio comune costituito da una cultura, una tradizione ed,
immancabilmente, una religione che fungono da collante tra i
diversi membri della comunità.
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Elementi, come abbiamo visto, contingenti, non necessari eppure
ritenuti un collante fondamentale e imprescindibile, un elemento
unificatore più forte di qualunque altra differenza al punto, oserei
dire, di cancellare tutte le altre differenze.
Eppure queste differenze ci sono; voglio dire: esistono differenze
anche tra i singoli individui appartenenti alla medesima comunità,
differenze per così dire “endogene” alla comunità. Tali differenze,
spesso, sono significative e grandi, più grandi e più significative
per i singoli di quanto può, talvolta, essere il senso di appartenenza
ad una comunità specifica ed il senso di unione con gli altri
individui che vi appartengono.
La stessa cultura non sempre è condivisa allo stesso modo e nella
stessa misura da tutti gli individui di una comunità; lo stesso vale
per la religione che è parte integrante della cultura in determinate
comunità.
Prendiamo ad esempio la comunità musulmana: non tutti gli
appartenenti condividono la pratica dell’infibulazione né l’obbligo
per le donne di indossare il velo.
Altrettanto vi è da discutere sulle pratiche in uso nelle comunità
cristiane. Prendiamo l’Italia, il nostro paese: qui è imposto il
crocifisso nelle aule scolastiche, negli ospedali, in luoghi pubblici,
insomma; eppure non tutti condividono la credenza in Cristo pur
facendo parte dello stesso paese e pur avendo alle spalle la stessa
cultura e tradizione.
Potrebbero esserci, invece, e, certamente, ci sono italiani laici e
arabi o turchi laici, accomunati, quindi, dal loro laicismo e magari
anche da altre personali scelte di vita. Perché, allora, queste
personali scelte di vita non vengono considerate elementi di unione
alla stregua di religione e tradizione?
Perché ciò che è oggetto di scelta consapevole non è valutato tanto
importante quanto ciò che è frutto del caso o comunque non frutto
di scelta individuale consapevole?
Perché la volontà dell’individuo e il suo diritto di scegliere non
vengono considerati altrettanto importanti di un patrimonio
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tradizionale non oggetto di scelta ma, come abbiamo visto,
nemmeno elemento necessario e naturale bensì contingente e
casuale?
Uno degli obiettivi precipui del mio lavoro è, appunto, affrontare la
delicata questione del rapporto tra individuo e gruppo.
Sono partita dalla filosofia habermasiana, da un’attenta analisi della
sua concezione di “morale” e dall’etica del discorso costruita
intorno ad essa.
Mi sono avvalsa di Habermas come punto di partenza, di
riferimento e, infine, di confronto.
L’individuo era e rimane un problema dal punto di vista della
filosofia morale e politica contemporanea.
Il semplice fatto che si parli di “individuo” pone l’accento sul distacco
tra la singolarità del soggetto e la pluralità o pluriprospettività della
comunità (reale o immaginaria che essa sia).
Parlare di “individuo” significa, a mio avviso, mettere in atto un
processo di diversificazione tra varie istanze e modi di azione e, al
contempo, valutare come tali istanze possano o debbano trovare un
modo di incastrarsi all’interno della società civile in cui ci troviamo a
convivere.
L’individuo habermasiano è, principalmente, individuo comunicativo.
Il superamento del paradigma monologico e coscienzialistico in
direzione di un’intersoggettività linguisticamente e
comunicativamente caratterizzata è il tratto saliente del pensiero
habermasiano.
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Le stesse possibilità di una morale universale sono date dalla
riflessione sociologica attenta agli universali linguistici, ovvero
all’universalità delle pretese di validità riscontrabili nel linguaggio
umano a prescindere da cultura, sesso o distinzioni di altro genere.
Il potenziale critico insito nel linguaggio emerge alla luce di un’attenta
analisi sociologica sull’uso e i meccanismi di riproduzione dello
stesso.
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Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma- Bari 2004 , J. Habermas, Teoria della morale, a cura di V. E.
Tota, Laterza, Roma- Bari 1994, J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, trad. it. di G. E. Rusconi, Il Mulino,
Bologna 1986.
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L’individuo habermasiano viene spesso accusato di essere senza storia
e senza radici, senza tradizioni né appartenenze, un individuo neutrale
e, pertanto, inesistente nella realtà.
A mio avviso l’individuo habermasiano non è privo di storia né
appartenenze ma, avendo raggiunto quello che Kolhberg definiva “lo
stadio postconvenzionale dello sviluppo morale”, è in grado di
distanziarsi da esse per sottoporle a vaglio critico in nome di
un’universale accettabilità.
La tesi sostengo e che intendo sviluppare nel corso di questo mio
lavoro è che laddove i diritti dei singoli non siano posti in posizione
di priorità rispetto a qualunque altra istanza non ci sia né ci possa
essere autentico rispetto del pluralismo.
Affronterò le problematiche poste dalla convivenza entro i
medesimi confini di gruppi differenti cercando di dimostrare che i
problemi più gravi sorgono laddove ci si sofferma sul “gruppo”
piuttosto che dare concreta attenzione all’individuo; mi avvarrò del
contributo di ricerche e studi condotti da antropologi i quali hanno
addirittura messo in dubbio l’esistenza del concetto di “cultura”; mi
occuperò della spinosa questione dei diritti collettivi.
Intendo confrontarmi con filosofi e studiosi contemporanei che si
sono occupati sotto diversi aspetti di tematiche affini a quelle che
tratterò in questo lavoro.
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CAPITOLO I
Può esistere una “geografia” della Morale?
Il quesito che ho posto nel titolo del capitolo ammette, a mio
avviso, una duplice risposta:
1. Sì se sosteniamo una concezione “Thick” del concetto di
morale.
2. No se sosteniamo una concezione “Thin” del medesimo
concetto.
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1) Chi appoggia una morale del primo tipo sovrappone il concetto
di Morale e quello di Etica e, pertanto, Giusto e bene vengono a
formare una specie di unità oserei affermare inscindibile: ciò che è
giusto per l’individuo non può e non deve essere disgiunto da ciò
che rappresenta anche il suo Bene.
Ma come, o meglio, Dove si forma la concezione di Bene e, quindi,
di Giusto?
Per i fautori di una Thick Moral è la comunità di appartenenza il
luogo in seno al quale il singolo conosce i concetti di bontà e
giustizia i quali permeano ogni aspetto dell’esistenza individuale
non limitandosi a regolare le interazioni esteriori tra i vari soggetti.
2) Chi sostiene, invece, una Thin Moral ( come la sottoscritta)
ritiene che Morale sia la disciplina che si occupa del concetto di
Giusto dove per giusto si intende “universalmente accettabile”, cioè
accettabile da ogni essere umano coinvolto in una determinata
situazione a prescindere da razza, sesso, genere, religione,
tradizione e cultura di provenienza.
Giusto e Bene restano due concetti assolutamente distinti: mentre il
primo si limita a regolare le interazioni intersoggettive esteriori, il
primo appartiene alla sfera privata dei singoli e, quindi laddove il
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M. Walzer, Thick and Thin, University of Notredame, Notredame 1994, M. Walzer, Geografia della morale:
democrazia, tradizioni e universalismo, a cura di G. Palombella, Dedalo, Bari 1994.
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primo deve essere sottoposto al vaglio del consenso intersoggettivo
al fine di poter essere universalizzabile, il secondo sfugge a tale
discussione in nome del rispetto per la libertà di scelta
dell’individuo di decidere per il proprio bene all’interno del proprio
privato stile di vita.
In tal senso la Morale non ha una geografia ma è cosmopolita: se il
concetto di Giusto corrisponde a “universalmente accettabile” la
morale che di tale concetto si occupa deve valere in qualunque
parte del mondo a prescindere dalla Storia del paese e dal tipo di
società che ivi si è formata.
Una delle tesi portanti del mio progetto sarà, dunque, la distinzione,
a mio avviso fondamentale, tra Morale ed Etica.
1.1 Come nasce la distinzione tra Morale ed Etica?
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Fino al sopraggiungere dell’epoca moderna portatrice della
razionalità illuminista l’etica poteva adagiarsi su una copertura
religiosa e metafisica a cui le teorie morali moderne e
contemporanee devono rinunciare.
Lo sfondo metafisico garantiva la certezza di una condotta di vita
esemplare perché comandata da Dio o esemplata sul modello degli
Dei.
Nelle condizioni di pluralismo sociale e ideologico in cui le società
moderne e contemporanee versano un siffatto discorso non è più
plausibile in quanto discriminante e non universalmente vincolante
da una prospettiva morale.
Infatti la pluralità di riti, credo religiosi, usi e costumi non rende
più possibile vincolare la vita morale nonché la convivenza sociale
a stereotipi e modelli non condivisi da tutti; anche chi non crede o
crede in qualcosa di diverso rispetto alla maggioranza della
popolazione indigena deve essere tutelato da violenze e
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Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, cit.
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sopraffazioni fisiche e morali e, al contempo, anch’esso deve
sentirsi obbligato al rispetto delle norme a prescindere dai costumi
e dagli usi da lui osservati.
A questo punto, tuttavia, sorge un problema non da poco: lasciata
cadere definitivamente la garanzia offerta dalla metafisica come
potranno gli uomini fondare le norme morali?
La modernità si trova di fronte due opzioni che prendono,
rispettivamente, il nome di Hegel e Kant:
i sostenitori del primo credono che la soluzione consista nel
restaurare una concezione di “vita buona” condivisibile da tutti i
membri sociali; ancorarsi alle tradizioni condivise da un popolo,
facendo appello alla loro storia.
Come è facile intuire, il crescente pluralismo ideologico
condannerebbe di certo al fallimento tale sforzo.
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Ma anche nell’ipotesi in cui tale tentativo non fosse già da
principio condannato al fallimento sarebbe, a mio avviso,
pericoloso fare leva sulla storia e sulle tradizioni di una determinata
cultura in quanto ciò significherebbe accettarne acriticamente tutti
gli aspetti, anche le ingiustizie perpetuate ai danni altrui, anche il
razzismo o l’intolleranza qualora queste fossero componenti di una
data cultura.
La soluzione prospettata dai neokantiani (tra cui Habermas) mi
appare decisamente migliore.
Essi partono dalla ricerca di una base comune condivisibile da tutti
su cui poi ciascuno può costruire liberamente la propria vita a
prescindere dai particolari orientamenti di valore.
L’intuizione di Habermas è la seguente: trovandosi nella situazione
in cui ciascun interessato condivide con tutti gli altri soltanto il
fatto da avere una “qualche forma di vita comunicativa”
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si
potrebbe pensare di ricostruire ex post i fondamenti della morale
proprio a partire dalle pretese di validità che vengono sollevate
nella prassi comunicativa quotidiana.
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J. Habermas, L’inclusione dell’altro, trad. it. di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 2002, p. 54.
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Ibidem.