6
di quella carica, di quella tensione esistenziale ed originaria che le
sono proprie. Quella insoddisfazione che facevano dire al poeta: “La
poesia non si è mai espressa, si è sempre insoddisfatti”
5
veniva
annullata in una falsa soluzione, in una panacea da storici della
letteratura.
Da questo sentire vago venni indirizzato ad una lettura più
cosciente dallo studio di alcuni saggi di Jacques Derrida: nuovi
“concetti” come Differenza, traccia, indice o indizio, e soprattutto il
rovesciamento dal fono-logocentrismo della parola se-dicente alla
parola scritta che costitutivamente rinvia ad un senso inattingibile,
creatrice ed affezione di un senso che “deve attendere di essere detto
o scritto per abitare se stesso e diventare quello che è differendo da
sé: il senso”
6
, funzionavano da catalizzatori indirizzando i miei
sguardi sulla poesia in modo nuovo.
A fungere da “collante letterario” intervenne la scoperta di un
libro di Carlo Ossola: si tratta del volume edito da Mursia nella
collana “Civiltà letteraria del Novecento”, dal titolo «Ungaretti».
Libro carico di suggestioni e di idee, ma libro soprattutto
problematicamente calato, seppur certo -teleologicamente certo- del
proprio fine, nel testo ungarettiano. Se ciò che nell’impianto di Mario
Petrucciani mi insoddisfaceva era ciò che precedentemente ho definito
provvisoriamente come strumento “descrittivo”, trovavo invece che
nelle pagine del critico torinese quello stesso strumento partecipava
attivamente all’esegesi. Mi riferisco a quel concetto, l’intertestualità,
che Julia Kristeva
7
coniò in ambito semiologico intorno agli anni
sessanta e che, immediatamente sfuggitole di mano, debordando dal
5
Da una intervista rilasciata alla RAI negli anni sessanta.
6
J. Derrida La scrittura e la differenza, [da Ora SeD],Einaudi 1990, Pag 14.
7
J. Kristeva Ricerche per una semanalisi, Milano, Feltrinelli 1978, pp. 119-143.
7
suo significato originario
8
, è finito col divenire un principio
metodologico inderogabile.
Carlo Ossola nella primissima parte del suo libro, ripercorrendo
fino a Contini la storia critica della poesia di Ungaretti nel rapporto
Vita-Prosa-Poesia, giungeva al concetto di «Totalità del testo»
9
. Fu
proprio in quella «Totalità del testo» che trovai proficui riferimenti e
nuova linfa vitale per la mia lettura della poesia di Ungaretti. Ciò
comportava anzitutto “osservare” il testo poetico da quel particolare
angolo euristico che nasceva dal confronto serrato tra il pensiero
filosofico-linguista di Derrida e la lettura fonico-semiotica di Carlo
Ossola:
Se “La scrittura è ciò che sopravvive al babelico disastro della
contemporaneità”, se “La scrittura rilega, chiude in volume: è il Liber
Sacro dell’irrevocabile”
10
, allora derridianamente “L’idea del libro,
che rinvia sempre ad una totalità naturale, è profondamente estranea
al senso della scrittura. Essa è la protezione enciclopedica della
teologia e del logocentrismo contro l’energia dirompente, aforistica
della scrittura [...]
11
”.
Carlo Ossola per il suo disegno esegetico adotta un metodo che
“Vuol mirare alla ricostruzione di segni [...] che restituiscono alla
“sillabazione” l’inquietante carattere di inizio e insieme di
dissoluzione del “discorso”, della “ragione” del far poesia”
12
.
Inizio e dissoluzione dice Ossola, non vi è inizio statico o staticamente
determinabile del momento zero della creazione, l’inizio è sempre
8
Cfr. P.Montefoschi, L’imperfetto bibliotecario, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, p. 9-20.
9
C. Ossola Ungaretti Mursia, Milano 1982, pp. 13-45.
10
C. Ossola op. cit. p. 22
11
J. Derrida, Della grammatologia, Jaca Book p.21
12
C. Ossola op. cit. p. 46
8
irrisolto: “Il senso non è né prima né dopo l’atto”
13
sembrava
rispondere Derrida al libro di Mario Petrucciani. Ma c’era di più ed a
un livello diverso, perché se, “Questa corrosione compiuta dal
significante sul significato che costringe ogni volta il significato a
reagire alla lettera con la «figura»,
14
allora, “Questa esperienza di
conversione che instaura l’atto letterario è tale che le parole stesse di
separazione e d’esilio [...] non possono manifestarla direttamente, ma
solo indicarla come metafora”
15
; perché “In tutti i casi, al messaggio
razionale normalmente emesso, si sovrappone un altro messaggio, di
natura formale (o informale), percepibile ma non razionalizzabile, che
costituisce l’Altro Discorso. Praticamente il Discorso proibito, il
Discorso che scivola verso l’abisso”
16
, “Creazione di un «universo
che si aggiunge all’universo», [...] e che non dice se non l’eccedenza
sul tutto, quel nulla essenziale, a cominciare dal quale tutto può
apparire e prodursi nel linguaggio e di cui la voce di Blanchot ci
ricorda con insistenza della profondità”
17
.
In questo concerto di concetti emergeva chiara e limpida la voce
del poeta: “Il linguaggio
18
di cui l’uomo si serve durante la sua fase
terrena, può contenere una rivelazione, intendo dire può oltrepassare
i limiti dell’esperienza storica? [...] L’accettazione della condizione
umana nei suoi limiti di tempo e di spazio, vale a dire nei suoi limiti
materiali e logici, ormai è ritenuta come formante antinomia con
l’ispirazione innata nell’uomo alla libertà e alla poesia”
19
.
13
J. Derrida, SeD, p. 14.
14
C. Ossola op. cit. p. 50
15
J. Derrida, SeD, p. 9-10
16
C. Ossola op. cit. p. 50
17
J. Derrida, SeD, p. 10.
18
Che è, in definitiva, ciò di cui parlano sia Ossola che Derrida ognuno a modo proprio.
19
G. Ungaretti, M 69, p. XCVI
9
Se Mario Petrucciani si chiedeva: “Sarà illegittimo inscrivere nel
polisenso del mito platonico della caverna anche una «visione
dell’aurora» come metafora di ri-nascita?” e successivamente
affermava: “E’ il momento della nuova nascita, l’aurora della vita
autentica: l’inizio”
20
, mi sorreggeva Derrida: “Se la scrittura è
inaugurale non è perché essa crea, ma per una certa libertà assoluta
di dire, di far sorgere il già-quì nel suo segno, di trarre i suoi auspici.
Libertà di risposta che riconosce per suo unico orizzonte il mondo-
storia e la parola che non può dire che: l’essere è sempre
cominciato”
21
.
Non la realtà, ma il mistero non è mensurabile, ci ricorda
Ungaretti.
Non c’è inizio, l’inizio è assenza, vuoto, domanda, interrogazione
che la parola rivolge su di sé nel buio profondo della sua origine,
interrogazione che come risposta non può far altro che perpetrare la
domanda, come dice Valéry: il Dio che così troviamo non è altro che
«parola nata da parola»
22
. L’interrogazione non produce che traccia,
détour, scarto, differenza originaria da cui tutto può originarsi, ci dice
Derrida, da cui la storicità stessa si inaugura e differisce da sé
23
.
L’inizio, derridianamente inteso, non può essere altro che una
metafora, ed in particolare quella metafora platonica dell’ombra e
della luce: l’ultima espressione metafisica che “si impone al critico
20
M. Petrucciani, op. cit. p. 33.
21
J. Derrida, SeD, p.15.
22
“Il Dio che così troviamo non è che parole nata da parola, e si muta in parola giacché la risposta che
ci facciamo non è mai altro se non la domanda stessa”. P. Valéry, Eupalino o dell’architettura, trad. di R.
Contu, con una nota di P. Valéry e un commento di G. Ungaretti, Lanciano, 1932, p. 114.
23
“La divergenza, la differenza tra Dioniso e Apollo, tra lo slancio e la struttura non si cancella nella
storia, perché essa non è nella storia. E’ anch’essa, in un senso insolito, una struttura originaria: l’apertura
della storia, la storicità stessa”. J. Derrida SeD p. 36.
10
spingendolo a cercare un linguaggio capace di «dire» la forza”
24
, la
genesi, l’oscuro che sta alla radice della forma, è la falsità della
quiete apollinea della forma dell’opera d’arte, che nega il proprio
esser-divenuta
25
. L’inizio in quanto principio non esiste in sé, l’attimo
della creazione è un grumo non un punto, è nella natura magmatica
della palude di cui parla Manganelli, è una direzione dello sguardo che
anela alla propria origine
26
che permane misteriosa: “Il mistero c’è, è
in noi. Basta non dimenticarcene. Il mistero c’è, e col mistero, di pari
passo, la misura; ma non la misura del mistero, cosa umanamente
insensata; ma di qualche cosa che in un certo senso al mistero si
opponga”.
27
L’indizio nel nostro disegno critico si configura allora come ciò
che può indicare al senso:
“Può essere pensato come l’atto dell’indicare mostrando
col dito, con l’ostendere, o con l’additare facendo segno
verso qualcosa che si perde per strada con il segnale, è
sempre sospeso al conferimento di un senso che gli viene da
una coscienza vivente”.
28
24
“Sono cose profondamente differenti avere «genio» e fare un’opera vitale. Tutti i trasporti del
mondo non danno che elementi discreti. Senza un calcolo abbastanza giusto, l’opera non è valida, non
marcia. Una poesia di buona qualità presuppone una gran quantità di forse. E applicate da chi?” P.
Valéry, citato in nota da J. Derrida in Margini della filosofia, Torino, Einaudi, 1997, p. 358. Riguardo al
concetto di forza in Derrida, si rimanda al saggio Forza e significazione, SeD, op. cit., pp. 3-39.
25
Gianni Vattimo in SeD p. XV.
26
Cfr. J. Derrida, Le fonti di Valéry, in Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Torino, Einaudi,
pp.351-384.
27
M 69 p. LXIX.
28
Maurizio Ferraris, Postille a Derrida, Rosemberg & Sellier, 1990, p. 19.
11
Svela, in ultima istanza, l’esistenza opaca del velo che protegge
ontologicamente
29
la parola scritta, ciò che Ossola giudica come
«sentenza immutabile» e che invece appare esserlo, ad una lettura
derridiana, affatto. La stessa assenza da cui il poeta trae le parole è
un’assenza numinosa, luogo del più: «Trinano le cose una estesa
monotonia d’assenze»
30
. “Coscienza di nulla, partendo dalla quale
ogni coscienza di qualcosa può arricchirsi, prendere senso e figura. E
può sorgere la parola. (...) Passaggio necessariamente contratto della
parola contro cui si precipitano, ostacolandosi a vicenda, le
significazioni possibili”
31
, “e tutto si confonde” -dice Ungaretti-
“precipitandosi contro di noi, in un unico piano”
32
.
Se il compito che Ossola si dà nella prima parte del suo volume è
quello di ricostruire il sistema di segni che presiede alle singole opere,
ed attraverso le «metafore fonetiche»
33
trarre dal «murmure»
indistinto, dai gueriniani «Mots inarticulés» la figura, la metafora che
nasce dallo scivolamento verso l’abisso e che miracolosamente per
attrazione di radici abissali ritrova «l’origine a cui è impossibile
risalire»
34
; ciò che ci proponiamo di fare non è trattare la materia
fonetica, ma tentare di leggere nella «sentenza», cercare -restando in
ambito investigativo- tra gli atti, svolgere, illustrare, recuperare -per
mezzo di quella logica indiziaria che si allontana dalla pura
speculazione filosofica- ciò, che dopo essersi precipitato contro di noi
in un unico piano, come dice Ungaretti, resta latente nel significato.
Tale operazione ci pare possibile e degna di essere perseguita
perché a differenza di Ossola riteniamo che lontano dall’essere
29
Cfr. Maurizio Ferraris, Postille a Derrida, Rosemberg & Sellier, 1990, p. 19-29.
30
Ritorno, M 69 p. 91.
31
J. Derrida, SeD p. 11
32
M 69 p. LXXXII.
33
C Ossola, op. cit. p. 110
12
«Sentenza immutabile» o «Immutabilità certa» la scrittura è
costantemente e costitutivamente esposta alla crisi, è come la Palude
definitiva di cui ci racconta come in un testamento indecifrabile ed
incompiuto
35
Giorgio Manganelli, che muta costantemente i suoi
sentieri al viaggiatore che vi si avventuri
36
.
Dove il segno è defunto come parola, nella sua calma olimpica,
un altro dio lo tormenta e lo scuote. La forma cela l’idea e ne mostra le
“proprie” «tracce» nella scrittura. Gli indizi indirizzano
all’interpretazione e vengono in essa assorbita
37
; non conducono al
logos, mai profferito, presente o sospirato in prossimità del suo limite;
non garantiscono alla sostanza pneumatologica, (mai fonematica come
ritiene Ossola), la presenza a sé del suo senso; o, come facilmente
direbbe Ungaretti, “Il mistero [che] c’è in noi, ma non la misura del
mistero”.
La questione più spinosa che mi si impone accingendomi a
scrivere è senz’altro la questione del metodo: quale metodologia
“abbracciare” per evitare le possibili aporie a cui si andrebbe incontro
se da queste premesse emergesse poi una linea critica univoca, certa
del proprio fine e fittizia nelle proprie verità? Pensando a ciò tornano
oggi alla mente le parole che Corrado Bologna ascoltò dalla viva voce
di Carlo Ossola: “Una volta, trattando proprio il tema della tradizione
34
M 69 p.505
35
«Il manoscritto di La palude definitiva si trovava, al momento della morte di Giorgio Manganelli,
avvenuta il 28 maggio 1990, nello stadio precedente all’ultima revisione. La curatrice si è limitata a
decifrare le correzioni autografe e a seguire le indicazioni dell’autore per lo spostamento di alcune parole.
Il manoscritto non portava titolo. Quello che è stato scelto riprende una formulazione che appare nella
prima fase del capitolo 3.». “Nota al testo” di La palude definitiva, G. Manganelli, a cura di Ebe
Flamini, Adelphi, Milano, 1991, p.6.
36
Ed è interessante scoprire poi come la stessa Palude nasca da una condizione di assenza: “Ma
vorrei essere chiaro; tu piaga sei appoggiata sul nulla, tu sei questo, la piaga del nulla.” G. Manganelli, La
palude definitiva, Adelphi, 1991, p.66.
37
“L’indice richiede sempre l’intervento di un altro –cioè di una espressione come attributo di una
coscienza vivente- per venire alla Bedeutung [cioè al «Voler-dire», ad una forma di significato],; ma
nell’accedere al Voler-dire, scompare come indice, viene sussunto entro questa sfera superiore [quella del
senso]. M. Ferraris, Postille a Derrida, cit. p. 19.
13
del Novecento, Carlo Ossola fece riferimento allusivo al dantesco
(Par.XVIII, 130) “Ma tu, che sol per cancellare scrivi” e al motto di
Meister Eckhart “Solo la mano che cancella può scrivere la verità”.
L’idea di una verità negativa, non tanto di una non-Verità quanto
proprio di una verità che può asserirsi solo negandosi
38
, mi sembra
fondamentale nell’interpretazione della “tradizione post-moderna”
39
,
e mi chiedo se un metodo non debba necessariamente essere in
polemica continua con i testi che cita e sui quali cresce,
desedimentando così alla propria radice il suo essere teleologicamente
proteso alla conquista della verità.
Se la parola nasce dall’assenza, non assenza di questo o di quello,
ma dall’assenza totale; se le parole emergono dal nulla; se la
letteratura si costruisce dal nulla, allora ogni operazione critica sincera
deve contenere in sé la «vertigine del vuoto»
40
, e deve evitare che
appunto tale vertigine vada dispersa in un qualche disegno
metodologico onnicomprensivo e totalizzante
41
. Non solo l’
«eventualità»
42
come sottolinea Carlo Ossola, bensì la possibilità
stessa dell’eventualità che continua, nella pagina scritta, ad aver
luogo.
38
Basti come esemplificazione poetica una poesia di Eugenio Montale, Ossi di seppia, “Non
chiederci la parola che squadri da ogni lato”, ora in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984 p. 30.
39
Corrado Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani,2 vol, Einaudi, Torino 1993, p.XVII.
40
Cfr. M. Blanchot, Passi falsi, Garzanti 1976.
41
“E’ vero che il rifiuto del finalismo è (...) una norma metodica che lo strutturalismo è difficilmente
in grado di applicare.(...) Si tratti di biologia, di linguistica o di letteratura, come è possibile percepire una
totalità organizzata senza prendere l’avvio dalla sua fine, dal suo fine?” SeD p. 33.
42
C. Ossola. Op. cit. p. 45-46.
14
Se il testo è il luogo in cui tutto precipita «confondendosi in un
unico piano», risiede allora nella radice oscura della sua origine
l’origine stessa di ogni eventualità, che il testo, come Liber custodisce
e come Volumen, in senso insolito, esibisce
43
. Ed è a tale «Doppio
movimento» che la nostra opera vorrebbe indirizzare lo sguardo:
appropriarsi allora di quella «logica indiziaria» che allo stesso
Ferraris appare come una semplificazione e un tradimento della logica
decostruzionista di Derrida, ma che dal punto di vista della critica
letteraria sembrerebbe essere l’unica via da percorrere per evitare il
rischio di ridurre ogni letteratura a fenomeno puramente
grammaticale
44
o a pura ars retorica
45
.
Conformemente a tali principi si è scelto di strutturare l’opera in
tre sezioni: una prima che potrebbe, in senso ampio, essere considerata
teorica; una seconda più propriamente di critica letteraria; ed una terza
che muove alla ricerca della tradizione profonda -ed a suo modo
informalizzabile- che rappresenta la cifra etica ed esistenziale propria
di Ungaretti, e dell’Ungaretti dell’Allegria in particolare.
43
Volumen non come ‘rotolo’, bensì dalla parola da cui anche rotolo deriva: Volvere, volgere,
indirizzare lo sguardo...
44
Questa è, espressa in maniera molto superficiale, la tesi del primo Derrida. Interessante è avvicinare
già da adesso come tali tematiche propriamente decostruzioniste appaiano in Italia molto prima che in
Francia. Pensiamo in particolare al «Momento dell’eloquenza» di Luzi, che da una prospettiva metafisica
tutta italiana intende l’eloquenza come ciò che è in grado di veicolare, facendolo mai presente, il senso;
oppure alla «Solitudine dei testi» di Bigongiari, e nella tendenza di tale linea esegetica ad abolire il dato
filologico a favore del «tempo maggiore» della composizione del testo
45
Su tale linea si collocano i tentativi critici d’oltre oceano di Paul De Man che partendo dalla
premessa derridiana secondo cui “L’interpretazione del segno non è un significato, ma un altro segno”,
giunge ad intendere ogni operazione critica e letteraria come: «Retorica pura». Roberto Diodato
Decostruzionismo, Editrice bibliografica, 1996, p. 66.
15
Una piccola riflessione merita il metodo che si è scelto per la
prima parte: Ciò che più comunemente si rimprovera al
decostruzionismo di marca derridiana è da un lato la sua aleatorietà e
oscurità; e dall’altro -conformemente ai principi teorici che l’animano-
una «deriva dei significati»
46
, perché tale corrente filosofica si
sostiene, usa a suo consumo l’opera letteraria per pure speculazioni
teoretiche che nulla hanno in comune con la critica più propriamente
letteraria. Noi crediamo che queste remore avanzate da più parti nel
panorama mondiale, anche se più numerose nelle accademie europee
ed italiane, non siano peregrine; ma altresì siamo convinti della bontà
del decostruzionismo di marca derridiana, nella sua capacità di
riattivare un qualunque testo ed in particolare, nel nostro caso, di un
testo poetico; nella sua stessa tensione originaria che mira, in primis, a
desedimentare le certezze acquisite, a non lasciar riposare
storicamente il dato empiricamente accertato, frutto esso stesso di una
costruzione e per questo suscettibile di una nuova ri-costruzione.
Per tali motivi nella prima parte del lavoro si è scelto di
“abbracciare” un metodo che non sia solo teorico, ma tenga conto
della poesia e delle riflessioni ungarettiane, e non, su di essa. Abbiamo
in sostanza scelto di ampliare ulteriormente quella «Totalità del testo»
che Ossola così brillantemente evidenziava. Tale operazione a nostro
giudizio non è mai pura, nasconde uno sguardo trasversale alle cose,
una volontà di organizzazione esterna al testo, ma non prescindibile da
esso.
46
“Le varie pratiche di decostruzione spostano vistosamente l’accento sull’iniziativa del destinatario e
sull’irriducibile ambiguità del testo, cosicché il testo diventa un puro stimolo per la deriva interpretativa”.
U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990, p.25.
16
Operazione problematica che fino a qualche anno fa, ancora in
clima crociano, mai avrebbe potuto instaurarsi e che oggi invece
appare quasi imporsi.
Se Ossola mira a ricostruire il sistema dei simboli che
sovrintende alle composizioni poetiche nel loro sviluppo diacronico, il
nostro disegno è opposto: non vogliamo ormeggiarci ad un «Sistema
di simboli» e da quel pontile che nasce per scivolamento metaforico,
osservare gli sviluppi poetici che mirano teleologicamente a un fine.
Questa, che rappresenta una aporia direi quasi costitutiva di ogni
operazione critica, non è mai effettivamente scongiurabile. Per tale
motivo serbiamo gelosamente un verso di Mario Luzi: I pontili deserti
scavalcano le ondate
47
: in ciò forse risiede il disegno di tutta l’opera e
della seconda sezione in particolare: nel tentativo copernicano di
lasciare alle ondate il compito di scavalcare i pontili deserti, alla
poesia, intesa come movimento privo di inizio e in-formalizzabile,
(misteriosa, direbbe Ungaretti), la forza e il compito di tornare, essa, a
sormontare le costruzioni più tecnicamente umane.
47
Mario Luzi, da «Onor del vero», “Sulla riva”, in L’opera poetica, Mondadori, collana I Meridiani,
Milano, 1998, p. 217.